domenica 29 aprile 2012

Per un’ ”economia al servizio delle persone”


 
Trascrivo qui di seguito, dal sito http://www.syloslabini.info/online/,  il
Manifesto per la libertà del pensiero economico.
Contro la dittatura della teoria dominante e per una nuova etica”,
per una riflessione critica,  lungimirante, prudente, circa le scelte
di politica economica del nostro governo, pur di “professori”.

 1. La teoria dominante è in crisi
Oggi dopo anni di atrofizzazione si affaccia un nuovo sentire al quale la scienza economica deve saper dare una risposta. La crisi globale in atto segna un punto di svolta epocale. Come in tanti hanno rilevato, oggi entrano in crisi le teorie economiche dominanti e il fondamentalismo liberista che da esse traeva legittimazione e vigore. Queste teorie non avevano colto la fragilità del regime di accumulazione neoliberista. Esse hanno anzi partecipato alla edificazione di quel regime, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento nella distribuzione dei redditi e l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno contribuito a determinare le condizioni della crisi. E’ necessario ricondurre l’economia ai fondamenti etici che avevano ispirato il pensiero dei classici.
2. E’ urgente riaprire il dibattito economico
E’ urgente riaprire il dibattito sulle fondamenta delle diverse impostazioni teoriche presenti nel campo economico. Occorre respingere l’idea – una giustificazione di comodo per tanti economisti e commentatori economici mainstream – che esista una sola verità nella scienza economica. Occorre dare spazio alle teorie alternative – keynesiana, classica, istituzionalista, evolutiva, storico-critica nella ricchezza delle loro varianti – nell’insegnamento e nella ricerca. Occorre adeguare ai tempi i nostri strumenti, assumendo l’analisi di genere nei nostri studi. E’ necessario dare “diritto di tribuna” ad ogni nuova idea economica nel segno della libertà e del libero confronto. Le concentrazioni di potere (nelle università, nei centri di ricerca nazionali e internazionali, nelle istituzioni economiche nazionali e internazionali, nei media), come quelle che hanno favorito nella fase più recente l’accettazione acritica del fondamentalismo liberista, debbono essere combattute.
3. Un’economia al servizio delle persone
La scienza economica dev’essere intesa in modo ampio, senza definizioni unilaterali e con piena apertura all’interscambio con le altre scienze sociali. L’obiettivo della ricerca dovrebbe consistere nella comprensione della realtà sociale che ci circonda, come premessa per scelte politiche dirette a migliorare la condizione di vita delle persone e il bene comune.
4. Un metodo non più fine a se stesso
A questo fine va indirizzato l’utilizzo delle tecniche disponibili, dall’analisi storiografica a quella econometrica, dall’analisi delle istituzioni alla costruzione di modelli matematici, senza preclusione verso alcuna tecnica ma allo stesso tempo senza che la raffinatezza tecnica dell’analisi divenga un obiettivo autoreferenziale, fonte di conformismo e di appiattimento nella formazione delle giovani leve di economisti. Per questo, va favorito un confronto critico tra impostazioni e analisi diverse.
5. Una nuova agenda
Suggeriamo cinque temi – su cui promuovere studi e iniziative – che ci sembrano di particolare rilievo nella fase attuale:
Mercato, stato e società. Dopo decenni in cui il mercato e la sua presunta “mano invisibile” hanno invaso gli spazi dell’azione pubblica e delle relazioni sociali, è necessario pensare nuove forme di integrazione tra mercato, stato e società, con attenzione per i temi della democrazia, della giustizia, dell’etica, in un quadro di sostenibilità ambientale dello sviluppo;
Una globalizzazione dal volto umano. Dopo una mondializzazione dei mercati trainata dalla finanza e priva di regole, è necessario pensare a un’integrazione internazionale tra i popoli che sia democraticamente governata, che alimenti i flussi di conoscenze e di persone accanto a quelli di merci, e che promuova la cooperazione sociale anziché la feroce competizione globale.
Un nuovo umanesimo del lavoro. E’ necessario ripensare il ruolo del lavoro nelle società moderne, come fonte di reddito dignitoso per tutti, di conoscenze, di relazioni sociali e come strumento di formazione ed emancipazione civile dei cittadini.
La riduzione delle disuguaglianze. Le differenze di reddito e di potere, tra paesi e – al loro interno – tra gruppi sociali e persone sono cresciute in modo inaccettabile ed è necessario quindi pensare ad un modello di organizzazione delle relazioni che punti realmente a ridurre le disuguaglianze sociali, territoriali, tra uomini e donne e tra le singole persone. Questo è necessario anche per individuare una credibile via d’uscita dalla crisi, che richiede un rilancio dei consumi individuali e collettivi e degli investimenti pubblici, e l’emergere di una nuova domanda da parte di paesi e gruppi che in passato erano rimasti al margine dello sviluppo e del benessere sociale. Senza tali cambiamenti il rischio concreto è che si punti a ripristinare il regime di accumulazione neoliberista fondato sulla speculazione finanziaria, e che si alimentino per questa via crisi ulteriori ed ancora più gravi dell’attuale.
Uno sviluppo più equilibrato. Va favorita la transizione da una crescita quantitativa senza limiti verso uno sviluppo più equilibrato basato sulla qualità. Occorre impegnarsi per costruire degli indici alternativi al prodotto interno lordo che è inservibile e fuorviante dal momento che non riesce a rappresentare diverse attività economiche, i costi ambientali e il reale benessere della popolazione.”

In ogni caso, la “cultura del limite” è un eccellente antidoto 
per ogni fondamentalismo, anche per il fondamentalismo liberista.
O no?
Severo Laleo

sabato 28 aprile 2012

Il “Manifesto per un soggetto politico nuovo”, la convivialità, e il coraggio di SEL



Vorrei chiarire subito la mia posizione, per libertà di discorso.
Condivido molti passaggi del “manifesto”, anche i “nodi radicali di rottura”,
da cui partire per “cambiare la politica” (e ho trovato splendido,
in un documento politico, l’elogio della “mitezza”,
virtù fondamentale anche per interiorizzare la “cultura del limite”),
eppure preferirei ancora, per realizzare, appunto, una “nuova politica”,
l’impegno duro e difficile in un partito,
all’idea di tentare una “mobilitazione diffusa e connessa”,
lasciando quasi solo al caso e alla buona volontà delle persone,
la “mobile” costruzione di una nuova soggettività politica.
Il  “Manifesto per un soggetto politico nuovo”  
non è solo “scrittura” di intellettuali,
è anche “impegno” politico diretto di quegli stessi intellettuali.
A mio modo di vedere, è proprio questo il limite di fondo
del “Manifesto per un soggetto politico nuovo”,
la riduzione, cioè, dell’intellettuale a politico,
e,  insieme, la riduzione della funzione intellettuale di critica della società
a funzione di direzione politica.
Ora, se l’intellettuale rinuncia alla sua azione autonoma
di  libertà di critica della società,
e, diffidente verso i partiti, assume su di sé il compito,
comunque “condizionato”, di direzione politica,
il risultato sarà l’esautoramento definitivo, almeno a sinistra,
del ruolo dell’organizzazione politica attraverso i partiti.
E poiché la funzione di critica non potrà mai essere eliminata,
dalla società sorgeranno altri soggetti, intellettuali e non,
pronti a denunciare, nei fatti, l’ibrida confusione,
con danno sicuro per la lotta politica a sinistra.
Per questo motivo continuo a credere nella costruzione,
paziente, di un partito nuovo a sinistra (e la scelta è su SEL)
capace di sperimentare, nei suoi circoli, nei suoi luoghi di politica,
anche virtuali, la relazione umana nell’agire politico,
attraverso la quale, convivialmente, rendere possibile
l’esercizio della libertà di critica, sempre,
e insieme l’esercizio del dovere dell’amministrare.
Ma se SEL, per colpa di antiche, a volte in buona fede,
resistenze strutturali, non riuscirà a praticare al suo interno
una nuova democrazia, aperta e alla pari,
di servizio, per la disponibilità per tutti dei beni comuni,
senza necessità di ricorrere al mito del leader
(esito ancora non riconosciuto di un maschilismo atavico),
se SEL non riuscirà a praticare al suo interno quella “convivialità”,
intrisa di ragione e sentimenti, immaginata per la società tutta,
se SEL non avrà il coraggio di trovare/applicare regole nuove
per la gestione del partito (segreteria doppia uomo/donna,
quota di dirigenti eletti per sorteggio, parità assoluta,
dovunque sia praticabile, senza inutili astrattismi, nelle liste elettorali,
di uomini e donne, trasparenza assoluta quale costume di relazioni interne, etc.),
se SEL non saprà gridare agli altri partiti queste sue novità,
richiedendo atti di legge per una loro trasformazione,
sarà molto difficile incrementare la partecipazione politica delle persone,
e, insieme, estendere la democrazia, con l'obiettivo di dare una possibilità
di realizzazione “alle aspirazioni fondamentali della persona umana …:
la libertà, l’eguaglianza, la dignità degli uomini e delle donne, il benessere, 
la responsabilità e la solidarietà”.*
O no?
Severo Laleo

*Poiché sia al Manifesto di SEL sia al Manifesto per un soggetto politico nuovo
non è capitato, per l’uno o l’altro motivo, dare visibilità al termine “socialismo”,
sarà bene, per evitare il diffuso male della “liquidità” politica dell’oggi, 
e per dare un riferimento chiaro alle parole, riportare un brano tratto dall’art.1 
del Manifesto del Partito Socialista Francese.
O no?

giovedì 26 aprile 2012

Il degrado della politica, l’educazione liberale e la cultura del limite.



L’Italia, almeno a giudicare dal degrado senza limiti della politica,
e dal contare i voti di quei troppi elettori “servi liberi
pronti a seguire un “capo” pur di conseguire avari vantaggi  immediati,
è ancora un paese privo di educazione “liberale”,
di quell’educazione/cultura “liberale” fondamentale
per costruire una democrazia moderna e civile,
a prescindere dal colore delle azioni di governo.

In Italia abbiamo dato il nostro consenso alla “discesa in campo
di tanti politici nuovi, di chiunque abbia voluto fare politica,
spesso a destra, ma anche a sinistra,
senza chieder loro di superare l’esame di “cultura liberale”.
Ed è stata la vittoria dell’antipolitica, comunque camuffata.
Il grillismo, al confronto, è quasi una richiesta di decenza “liberale”.

Essere “liberali” è la precondizione per impegnarsi in politica,
sia a destra sia sinistra. Tra pari. In ogni senso.
Il mito del “capo” non è “liberale”,
è il misero esito nostrano del maschilismo.

Ieri, poiché, in assenza di rigore intellettuale, definirsi “liberali”
è stato facile, abbiamo visto trionfare in politica, appunto,
i nuovi “liberali”, conservatori e rivoluzionari (ognuno a suo modo!),
insieme, senza un minimo di “cultura liberale”,
solo uniti a “occupare” il potere, anche oltre i limiti del possibile.

Oggi, al governo, a  rispettare i limiti, abbiamo tecnici “liberali”,
espressione di moderatismo politico.

E’ stato scritto da un sincero “liberale” quale Valerio Zanone:
la cultura del limite induce al moderatismo politico”.
Non so se è sempre possibile.
Certo, quando in un paese civile le differenze tra ricchi e poveri
superano ogni sopportabile limite, ristabilire l’equità,
ridefinendo un limite per la ricchezza e un limite per la povertà,
difficilmente potrà essere un’operazione di moderatismo politico,
comunque da non affidare a dei, pur illuminati, tecnici.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 25 aprile 2012

Il cattolicesimo di Formigoni s’affloscia nel salame




Ieri sera, a Matrix, l’integerrimo, dalla vita specchiata,
Presidente della Regione Lombardia,
il cattolico di Comunione e Liberazione Formigoni,
orgoglioso dell’eccellenza del suo servizio sanitario,
e attentissimo a separare la sua azione pubblica di governo
dalle sue vacanze private di gruppo,
a proposito del San Raffaele, ospedale dalla mala gestione,
ma dall’eccellente, appunto, servizio,
tira fuori, un po’ a sorpresa, la metafora del salumaio, e afferma,
più o meno: “A me non interessa chi è il salumaio,
come gestisce il suo negozio, se è un delinquente o no,
a me interessa se è buono il suo servizio, il suo prodotto.
A  me interessa il suo salame”.
Proprio così! Gusto letterario a parte.
Appare evidente a tutti che il ragionamento in sé è sul piano politico,
e sociale, e della civiltà del diritto, molto discutibile e pericoloso
(su questa linea è possibile giustificare anche comportamenti mafiosi),
ma è ancora più grave che a esprimere ragionamenti (si fa per dire!) del genere,
di stravolgimento di una visione etica e religiosa, sia un cattolico praticante.
In verità, per un cattolico semplice, non Presidente di Regione,
tutto ciò che viene da un “buon” salumaio è buono, sempre,
anche a prescindere dalla qualità del suo salame:
omnia munda mundis;
ma se il salumaio serve un buon salame, ed è insieme un poco di buono,
forse bisognerà stare attenti anche al salame.
O no?
Severo Laleo

lunedì 2 aprile 2012

I compiti a casa e le chiacchiere morte




E’ uscito oggi, su Il Messaggero, un articolo di Giorgio Israel
sui “compiti a casa”, dal titolo “I compiti a casa, doveri e valori”.
La tesi, già dal titolo appunto, è subito chiara: i compiti a casa
sono un “dovere” ed esprimono “valori”,
ma con quali stringenti argomentazioni non è dato sapere.
Ma lasciamo, sul tema, aggirando la scia di polemica aperta
con un Ministro dalle idee confuse, la parola all’autore:
“Ci sentiamo ripetere tutti i giorni che, per superare la crisi e far ripartire il Paese, occorre mettere in campo un rinnovato senso di responsabilità
e la capacità di fare sacrifici.
La scuola non è soltanto il luogo dove si acquisiscono le conoscenze
e le capacità adatte a svolgere qualsiasi attività lavorativa,
 ma anche il luogo in cui si acquisisce l’attitudine a lavorare,
che significa anche (o soprattutto) impegno, sforzo, sacrificio….
La scuola ha sempre avuto la funzione di fornire tale allenamento,
che è rappresentato non soltanto dalle ore passate con l’insegnante
e i compagni di classe, ma dal lavoro a casa, in cui ci si confronta individualmente, faccia a faccia con sé stessi, con i risultati del lavoro fatto.
È qualcosa che non soltanto stimola il senso di responsabilità,
e addestra allo sforzo inerente a qualsiasi attività lavorativa ...
Il ministro Profumo si è dichiarato a favore dell’abolizione dei compiti a casa.
Ha osservato che una versione di latino può essere copiata da internet …
Infine ha aggiunto che la scuola deve insegnare ai ragazzi a fare gruppo
invece di chiudersi nella loro cameretta … provocando
sconcerto e avvilimento … in tantissime famiglie che si battono quotidianamente
– e contro mille ostacoli – per educare i figli al senso di responsabilità
(che è anche stimolato dall’obbligo di fare i compiti),
alla capacità di applicarsi, a non disperdere i pomeriggi
bighellonando nell’ozio, ad allenarsi allo sforzo …
Mentre ora si vuol prescrivere a scuole e insegnanti
se e quanti compiti a casa debbano assegnare …”


In verità, prima di avviare una qualsiasi discussione sui "compiti a casa",
anzi sul ruolo dei "compiti a casa", è utile/necessario specificare/conoscere
qual è la fascia scolastica, qual è il tipo di "compito"
e quali sono le condizioni della "casa" (specie di questi tempi bui!);
non esistono "compiti a casa" astratti per i quali è possibile definire,
subito, un "ruolo"  per tutti valido, a prescindere.
I "compiti a casa" hanno un valore solo all'interno di un percorso
pedagogico-didattico ben definito, accolto e compreso dagli allievi.
E certo non saranno i "compiti a casa" a costruire persone responsabili,
rigorose, in grado di fare sacrifici (perché poi sacrifici?).
Anzi, se per parlare di "compiti a casa" l'esempio è sempre
la versione di latino, molto probabilmente si ha un'idea dei compiti a casa
ancora "romantica" (e inutile). La preoccupazione per il peso
dei "compiti a casa" è sempre stata dei genitori, soprattutto se "agiati".
Forse non molti sanno qual è l'origine del "giornale di classe":
nacque semplicemente per dare ai professori la consapevolezza,
leggendo/controllando la quantità dei compiti assegnati agli allievi,
di non esagerare. E siamo negli anni del fascismo.
Allora il problema era non esagerare con gli Avanguardisti!
Con la Repubblica poi, e con la nuova consuetudine dei week end,
si scoprì anche l'esigenza di sospendere le interrogazioni il lunedì
per l'impossibilità degli adolescenti di fare compiti a casa
di sabato e domenica! E il problema divenne la "libera uscita" settimanale.
In breve, raccomandazioni in un verso o nell'altro
sul tema dei "compiti a casa" davvero non hanno molto senso.
Sono chiacchiere morte.
O no?
Severo Laleo