domenica 27 gennaio 2013

La civiltà dalle sbarre di un carcere


In questo blog di parole per una “cultura del limite”, 
l’articolo di Giuliano Amato, a ragion veduta, invita a non dimenticare 
i discorsi di civiltà, e intorno ai diritti, davanti ai cancelli di un carcere.

Carceri finalmente al centro dell’attenzione
Da G.Amato Il 27 gennaio 2013 
Sarà perché alla fine Marco Pannella è riuscito ad attirare sulle carceri  l’attenzione di tutti, sarà perché gli ha dato di recente  manforte la Corte europea dei diritti, certo si è che quest’anno, per la prima volta,  il problema carcerario  l’ha fatta da protagonista nelle parole degli alti magistrati che hanno aperto in tutta Italia l’anno giudiziario.  Ed è importante che esso sia emerso in primo luogo per quello che è, una violazione grave e quotidiana dei diritti di migliaia di persone, della quale siamo tutti chiamati a rispondere.
E’ appunto quello che da anni dice Marco Pannella, ma  siccome ci ha troppo abituato, davanti ai  temi più diversi, a dipingerli tutti con linguaggio estremo e provocatorio, è finita molte volte che le sue denunce sono divenute un refrain al quale avevamo fatto l’orecchio. Attenzione, se c’è un caso nel quale quel linguaggio è appropriato, è proprio quello delle carceri.
Siamo abituati a identificare la civiltà affermatasi fra di noi nel corso degli ultimi secoli nei parlamenti eletti dal popolo,  nel principio di eguaglianza, nei nostri diritti, nel rispetto per la nostra dignità. Ma i diritti e la dignità non sono soltanto nostri, sono di tutti, anche di chi finisce in carcere, giuste o ingiuste che siano le ragioni per cui ci finisce. Per questo la civiltà in cui ci riconosciamo  porta a cancellare il carcere come lo conoscevano i nostri antenati. Quel carcere era infatti fondato su principi opposti a quelli a cui tutti ci inchiniamo oggi. Era fondato sul potere  riconosciuto ai governanti non di detenere, ma  di annientare i propri  nemici e quelli che erano ritenuti i nemici della società. Finire in carcere significava perciò non avere più diritti ed essere assoggettati alle condizioni di vita più impossibili e disagiate, un preludio della morte che si finiva anzi per desiderare al più presto. E in genere ci pensava il freddo a farla arrivare.
Ebbene non tutti forse hanno capito che quel carcere a noi non è più consentito. Noi , in base ai principi della nostra civiltà e alle norme che in conformità ad essi abbiamo adottato nella nostra costituzione e nelle convenzioni internazionali dalle quali siamo vincolati, non abbiamo il diritto di mantenere in vita carceri che somiglino a quelle di un tempo. E quindi non abbiamo né il diritto né il potere di tenerci dentro chicchessia, quali che ne siano le colpe e le responsabilità. Il carcere oggi non deve annientare le persone, deve privarle della sola libertà personale e spingerle in questo stato di costrizione verso la rieducazione,  vale a dire, in primo luogo, verso l’accettazione della società (e delle sue regole)  nella quale dovranno rientrare.
Ebbene, le carceri italiane raramente rispondono a questo modello e sempre più, invece, accatastano i detenuti in celle sovraffollate, dove nessuno ha un proprio spazio, dove manca ogni riservatezza, dove mancano la doccia, la carta igienica e il sapone, dove ciò che viene alimentato può essere soltanto o la depressione o la ribellione. Non certo la rieducazione.  Se così è,  è vero che siamo tutti dei fuori legge, e quindi il rimedio dovrà essere all’altezza di una illegalità tanto enorme.

E’ un rimedio che non potrà esaurirsi  in un’unica misura e questo lo sa anche chi chiede l’amnistia, la quale, in assenza d’altro, avrebbe solo effetti temporanei.  Prima di tutto  dobbiamo noi, noi tutti convincerci che il carcere di oggi non può essere come quello dei secoli scorsi. E  quindi non storcere il naso (come si è fatto) quando si è appresa la qualità del carcere in cui sconta la sua pena Anders Breivik, il norvegese che fece strage di giovani laburisti nel luglio di due anni fa. Così ha da essere la nostra civiltà.  Poi  devono i magistrati convincersi tutti che il carcere  va usato come extrema ratio e che in particolare la detenzione preventiva  va imposta quando serve davvero e non quando fa comodo per sbarazzarsi intanto dell’imputato. A questo fine, utilissime e importanti sono state le parole che abbiamo sentito pronunciare dai vertici stessi della magistratura per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.  Su queste fondamenta, c’è a conclusione ciò che il legislatore dovrà fare per porre fine ai processi senza fine e alla comminazione a raffica di pene detentive fuori posto. A quel punto, anche eccezionali misure svuota-carceri una tantum acquisterebbero una legittimità ed un senso (per quanto rimanga difficile, ove si trattasse di amnistia, ottenere la maggioranza dei due terzi “sui singoli articoli e sulla votazione finale”, richiesta dalla Costituzione).
Sembra un lungo percorso. Ma il tema è talmente maturo che il paese può compierlo ormai in pochissimi mesi.

O no?
Severo Laleo

2 commenti:

  1. Complimenti per la bellissima lettera da lei scritta, per le verità che ha avuto il coraggio di esprimere. Grazie per queste parole che in questo momento cosi difficile per la mia famiglia, non ci fanno sentire sole. Mio marito sta scontando una pena per un cumulo di pene che risalgono al 1998 e al 2009 ; persona cardiopatica operata di cuore 2 anni fa e che in questo momento non ha nessuna cura adeguata. Nemmeno la salute viene tutelata. Io e le mie figlie ci auguriamo che le istituzioni ascoltino, una volta per tutte, il grido di dolore di tutte le moglie, le madri, i figli e di tutti i detenuti che, come mio marito, stanno soffrendo. Grazie ancora per le sue parole.

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