Noi italiani siamo creativi, si sa. In ogni
campo.
E inventare il “nuovo”, con una appassionante ammuina
e confusione di percorsi, è sempre stata la nostra forza.
E la nostra
speranza. In una parola il nostro successo.
E rovina.
Nella moda siamo (stati) giganti: il “nuovo” era spesso
italiano. Almeno così si è sempre creduto.
E non da meno siamo stati nell’arte della
politica;
l’abbiamo inventata con Machiavelli, ed era scienza,
ma proprietari siam diventati del marchio del Fascismo,
la dittatura all’italiana. E del marchio abbiamo avuto persino
imitatori.
In verità fu Mussolini, da socialista,
a inventare il Fascismo.
E insieme la rivoluzione fascista. Tutto nuovo.
Gli italiani acclamarono soltanto, almeno
sino a quando
trovarono convenienza. Anche gli intellettuali
giurarono
nelle Università, con qualche, per fortuna,
rifiuto,
grazie al quale s’è tenuta viva la lucerna
della dignità.
Un grande dono del coerente resistere di
una minoranza.
Nel campo delle rivoluzioni poi siamo maestri:
la più vicina a noi è stata la “rivoluzione liberale”,
quella targata Berlusconi, gran maestro e gran caposcuola,
già sostenitore del socialismo italiano.
I risultati sono noti a tutti. E ancora
hanno effetti.
Addirittura oggi in corso non c’è solo una rivoluzione;
si contano rivoluzioni a bizzeffe in ogni settore della vita sociale
e politica, soprattutto grazie all’accordo
privato tra Renzi,
il socialista
europeo, e Berlusconi, il
gran maestro, oggi espulso
dal Senato per indegnità. E i risultati,
già annunciati,
saranno presto noti. Anzi, la nuova rivoluzione socialista
(il Pd è parte forte del PSE), ad esempio,
nel campo della riforma lavoro,
a breve abolirà l’art. 18 e il suo simbolo,
senza tempo,
di dignità della persona, non prigioniera
di un contesto storico.
E l’argomentazione convincente è già nota,
più o meno: l’art. 18
ha quaranta anni e più, è vecchio, ha fatto
il suo tempo,
oggi è inutile, frena la velocità della
crescita, blocca l’occupazione
e gli investimenti, riguarda un numero
esiguo di lavoratori,
è causa di divisione tra lavoratori di
serie A e di serie B
(il calcio continua a essere un must nella conversazione politica,
anche in questa nuova partita!), e, per finire, lascia nelle mani
dei giudici la strategia imprenditoriale
(sic!). Argomenti tutti
con il timbro del “nuovo”. Che dire!
Ma perché la retorica della rivoluzione/cambiamento
è oggi così tanto diffusa e praticata, a
destra e a sinistra,
da fare invidia persino agli irriducibili
veterani del ’68,
rivoluzionari senza potere? Anche se grazie a quel ’68
la società tutta subì una trasformazione
culturale reale.
Forse il vero spartiacque tra i due periodi
della nostra breve
storia repubblicana, al di là dell’89, non
è stato il dramma
di tangentopoli
(evento per gli opportunisti sempre all’erta),
ma la caduta della tensione pedagogica dell’antifascismo,
nel senso universale e non semplicemente
storico del termine.
La caduta della tensione democratica antifascista,
il vero forte collante per una
democrazia dei Partiti,
e insieme l’insostenibile prassi affaristica del
finanziamento
proprio di quei Partiti, favorirono l’ascesa politica di figure
dell’antipolitica dal “carisma” (in verità carisma è termine improprio)
popolare e segnarono una rottura con il passato, con la complicità
di un intero Paese completamente privo di cultura liberale.
E di educazione
civica. Anche per colpa della scuola. Solo un dato:
se si analizzano le mille
pagine della storia del pensiero del '900
di uno dei testi più diffusi nei licei italiani, si trova il liberale Gobetti,
nelle mille pagine, citato una sola volta, e solo nel titolo di
un libro!
I popoli senza cultura liberale sono ancora
nel guado,
si arrabbiano tanto, ma presto si
innamorano dei “capi”.
E questi “capi”, figli delle crisi, hanno un solo metodo per gestire
la rabbia: la retorica nazionale (o
antinazionale e localistica),
e insieme l’individuazione di un nemico, di
un bersaglio,
anche solo di nome, magari immaginario. Sono gli ingredienti
sempre presenti nella pentola delle nostrane
rivoluzioni.
E i capi stessi di queste rivoluzioni sono sempre stati uomini
(anche nel senso
di “maschi” forti e decisi, duri, non abituati a mollare!)
abili agitatori di popolo. E di interessi altri. Antipolitica vera.
Bossi,
il primo “nuovo”, dopo l’era
dell’arco costituzionale,
inventò la Padania contro Roma Ladrona. Ed ebbe
successo
incredibile. Anche con l’ampolla del Po tra le mani nuovo
simbolo
per il salto verso una nuova era per i suoi proseliti.
Padani soprattutto. Che dire! La sua antipolitica colpiva al cuore
la bandiera italiana.
Berlusconi,
l’altro “nuovo”, inventò l’entusiasmo
nazionale
di “Forza Italia” contro i “Comunisti”
impegnati a “prendere
il
potere nella scuola, nell’università, nei giornali e nella giustizia”.
Ed ebbe successo incredibile. Anche con la
nipote di Mubarack
nelle sue stanze.
Che dire! La sua antipolitica colpiva
al cuore
i mestieranti della politica (perché non hanno mai lavorato).
Grillo,
il “nuovo” urlante nelle piazze, già
aspirante, scartato,
alla carica di Segretario del Pd, inventò il
Vaffa,
metodo per eccellenza
per guidare la rabbia contro la politica, e il
conseguente rifiuto
di ogni dialogo politico. Ed ebbe successo incredibile.
Anche quando flirta con Farage. Che dire! La sua antipolitica
colpiva al cuore, senza distinzione tra
persone e istituzioni,
la Casta Politica.
Renzi,
il “nuovo” ultimo, inventò la Rottamazione
contro la vecchia
guardia e il MonologoFiloDiretto
con il popolo. E il decisionismo “violento”
contro ogni ostacolo/rivale (solo Letta?
E i sindacati?
E la magistratura? E i costituzionalisti? E
i professoroni?
E i lavoratori di seria A?), ma sempre con
un occhio di riguardo,
continuo e durevole, per i suoi sodali e “maestri” per eccellenza.
“Tanto
la gente è con me”. E torna la gente!
Il tutto ancora con una nuova retorica
nazionale: il popolo italiano
è il migliore dei popoli, è un popolo di
grandi energie e creatività,
già pronto a guidare/cambiare l’Europa. Ed ebbe
successo incredibile.
Ripetuto. Anche se stringe patti con il Grande
Frodatore
del Fisco Italiano. Che dire! La sua
antipolitica colpisce al cuore,
dall’interno, la storia del suo Partito.
Ma perché il popolo italiano è sempre
pronto a seguire
chi ha il piglio forte del “comandante” e spregia chi la mitezza
paziente del “servitore”? Forse la nostra facilità di infatuazione
per un “capo” è sostenuta dalla nostra pigrizia mentale,
da un’assenza
di responsabilità civile partecipativa,
da un difetto di cultura
liberale, da una consuetudine
all’arrangiarsi,
in una parola da un endemico “illiberalismo”.
Per fortuna, a tener viva la lucerna del
pensiero critico
e indipendente e della partecipazione
paritaria in carne ed ossa
delle persone alla vita democratica del
Paese, c’è il popolo
dei referendum, e il ricordo corre al 13
Giugno 2011,
quando un popolo libero e gioioso, a domande
precise,
rispose con riflessione, e senza rabbia
contro un nemico,
con la propria testa di persona senza
orgoglio nazionale,
per il cambiamento
reale, tetragono a qualsiasi invito
di qualche “capo” ad andare al mare.
O no?
Severo Laleo
P.S. Esiste
un’abitudine linguistica, sicuramente nel Sud, di antica
origine e colta, quando si parla di un’autorità,
di un “capo”, seguito dai suoi
fedelissimi (per i quali, chissà perché, funziona sempre, il senno del poi!); quel Capo
secondo quell’abitudine
linguistica- perde
l’identità e diventa un’immagine astratta, anche se visibile,
di una modalità di gestione/direzione, uguale in ogni luogo e tempo, e non ha più
un nome e un cognome,
diventa semplicemente “Is(so)”. Così nel
dialogo tra i seguaci/dipendenti/soci, se un ultimo arrivato,
ingenuo e
voglioso di capire, chiede: “Perché si
deve fare così?”, il
fedelissimo convinto (forse) risponde:
“L’ha
detto “isso”. E il discorso non va avanti, non cresce e si chiude, spesso con rassegnata saggezza,
perché, si sa,
tanto non cambia. Succede sempre
così!