martedì 30 settembre 2014

Se è (stato) possibile, una ragione c’è



Noi italiani siamo creativi, si sa. In ogni campo.
E inventare il “nuovo”, con una appassionante ammuina
e confusione di percorsi, è sempre stata la nostra forza. 
E la nostra speranza. In una parola il nostro successo.
E rovina.

Nella moda siamo (stati) giganti: il “nuovo” era spesso
italiano. Almeno così si è sempre creduto.
E non da meno siamo stati nell’arte della politica;
l’abbiamo inventata con Machiavelli, ed era scienza, 
ma proprietari siam diventati del marchio del Fascismo
la dittatura all’italiana. E del marchio abbiamo avuto persino imitatori.
In verità fu Mussolini, da socialista, a inventare il Fascismo.
E insieme la rivoluzione fascista. Tutto nuovo
Gli italiani acclamarono soltanto, almeno sino a quando
trovarono convenienza. Anche gli intellettuali giurarono
nelle Università, con qualche, per fortuna, rifiuto,
grazie al quale s’è tenuta viva la lucerna della dignità.
Un grande dono del coerente resistere di una minoranza.

Nel campo delle rivoluzioni poi siamo maestri:
la più vicina a noi è stata la “rivoluzione liberale”,
quella targata Berlusconi, gran maestro e gran caposcuola,
già sostenitore del socialismo italiano.
I risultati sono noti a tutti. E ancora hanno effetti. 
Addirittura oggi in corso non c’è solo una rivoluzione;
si contano rivoluzioni a bizzeffe in ogni settore della vita sociale
e politica, soprattutto grazie all’accordo privato tra Renzi,
il socialista europeo, e Berlusconi, il gran maestro, oggi espulso
dal Senato per indegnità. E i risultati, già annunciati,
saranno presto noti. Anzi, la nuova rivoluzione socialista
(il Pd è parte forte del PSE), ad esempio, nel campo della riforma lavoro, 
a breve abolirà l’art. 18 e il suo simbolo, senza tempo,
di dignità della persona, non prigioniera di un contesto storico.
E l’argomentazione convincente è già nota, più o meno: l’art. 18
ha quaranta anni e più, è vecchio, ha fatto il suo tempo,
oggi è inutile, frena la velocità della crescita, blocca l’occupazione
e gli investimenti, riguarda un numero esiguo di lavoratori,
è causa di divisione tra lavoratori di serie A e di serie B
(il calcio continua a essere un must nella conversazione politica,
anche in questa nuova partita!), e, per finire, lascia nelle mani
dei giudici la strategia imprenditoriale (sic!). Argomenti tutti
con il timbro del “nuovo”. Che dire!
  
Ma perché la retorica della rivoluzione/cambiamento
è oggi così tanto diffusa e praticata, a destra e a sinistra,
da fare invidia persino agli irriducibili veterani del ’68, 
rivoluzionari senza potere? Anche se grazie a quel ’68
la società tutta subì una trasformazione culturale reale. 
Forse il vero spartiacque tra i due periodi della nostra breve
storia repubblicana, al di là dell’89, non è stato il dramma
di tangentopoli (evento per gli opportunisti sempre all’erta),
ma la caduta della tensione pedagogica dell’antifascismo,
nel senso universale e non semplicemente storico del termine.
La caduta della tensione democratica antifascista
il vero forte collante per una democrazia dei Partiti, 
e insieme l’insostenibile prassi affaristica del finanziamento 
proprio di quei Partiti, favorirono l’ascesa politica di figure 
dell’antipolitica dal “carisma” (in verità carisma è termine improprio) 
popolare e segnarono una rottura con il passato, con la complicità 
di un intero Paese completamente privo di cultura liberale. 
E di educazione civica. Anche per colpa della scuola. Solo un dato: 
se si analizzano le mille pagine della storia del pensiero del '900 
di uno dei testi più diffusi nei licei italiani, si trova il liberale Gobetti
nelle mille pagine, citato una sola volta, e solo nel titolo di un libro!
I popoli senza cultura liberale sono ancora nel guado,
si arrabbiano tanto, ma presto si innamorano dei “capi”.

E questi “capi”, figli delle crisi, hanno un solo metodo per gestire
la rabbia: la retorica nazionale (o antinazionale e localistica),  
e insieme l’individuazione di un nemico, di un bersaglio, 
anche solo di nome, magari immaginario. Sono gli ingredienti 
sempre presenti nella pentola delle nostrane rivoluzioni.
E i capi stessi di queste rivoluzioni sono sempre stati uomini 
(anche nel senso di “maschi” forti e decisi, duri, non abituati a mollare!) 
abili agitatori di popolo. E di interessi altri. Antipolitica vera.

Bossi, il primo “nuovo”, dopo l’era dell’arco costituzionale,
inventò  la Padania contro Roma Ladrona. Ed ebbe successo 
incredibile. Anche con l’ampolla del Po tra le mani nuovo simbolo 
per il salto verso una nuova era per i suoi proseliti.
Padani soprattutto. Che dire! La sua antipolitica colpiva al cuore
la bandiera italiana.

Berlusconi, l’altro “nuovo”, inventò l’entusiasmo nazionale
di “Forza Italia” contro i “Comunisti” impegnati  a “prendere
il potere nella scuola, nell’università, nei giornali e nella giustizia”.
Ed ebbe successo incredibile. Anche con la nipote di Mubarack 
nelle sue stanze. Che dire! La sua antipolitica colpiva al cuore
i mestieranti della politica (perché non hanno mai lavorato).

Grillo, il “nuovo” urlante nelle piazze, già aspirante, scartato,
alla carica di Segretario del Pd, inventò il Vaffa, metodo per eccellenza 
per guidare la rabbia contro la politica, e il conseguente rifiuto 
di ogni dialogo politico. Ed ebbe successo incredibile.
Anche quando flirta con Farage. Che dire! La sua antipolitica
colpiva al cuore, senza distinzione tra persone e istituzioni,
la Casta Politica.

Renzi, il “nuovo” ultimo, inventò la Rottamazione contro la vecchia 
guardia e il MonologoFiloDiretto con il popolo. E il decisionismo “violento” 
contro ogni ostacolo/rivale (solo Letta? E i sindacati?
E la magistratura? E i costituzionalisti? E i professoroni?
E i lavoratori di seria A?), ma sempre con un occhio di riguardo, 
continuo e durevole, per i suoi sodali e “maestri” per eccellenza.
Tanto la gente è con me”. E torna la gente!
Il tutto ancora con una nuova retorica nazionale: il popolo italiano
è il migliore dei popoli, è un popolo di grandi energie e creatività, 
già pronto a guidare/cambiare l’Europa. Ed ebbe successo incredibile. 
Ripetuto. Anche se stringe patti con il Grande Frodatore
del Fisco Italiano. Che dire! La sua antipolitica colpisce al cuore, 
dall’interno, la storia del suo Partito.

Ma perché il popolo italiano è sempre pronto a seguire
chi ha il piglio forte del “comandante” e spregia chi la mitezza
paziente del “servitore”? Forse la nostra facilità di infatuazione 
per un “capo” è sostenuta dalla nostra pigrizia mentale, 
da un’assenza di responsabilità civile partecipativa, 
da un difetto di cultura liberale, da una consuetudine 
all’arrangiarsi, in una parola da un endemico “illiberalismo”.

Per fortuna, a tener viva la lucerna del pensiero critico
e indipendente e della partecipazione paritaria in carne ed ossa
delle persone alla vita democratica del Paese, c’è il popolo
dei referendum, e il ricordo corre al 13 Giugno 2011,
quando un popolo libero e gioioso, a domande precise,
rispose con riflessione, e senza rabbia contro un nemico,
con la propria testa di persona senza orgoglio nazionale,
per il cambiamento reale, tetragono a qualsiasi invito 
di qualche “capo”  ad andare al mare. 

 O no?
Severo Laleo 

P.S. Esiste un’abitudine linguistica, sicuramente nel Sud, di antica origine e colta, quando si parla di un’autorità, 
di un “capo”, seguito dai suoi fedelissimi (per i quali, chissà perché, funziona sempre, il senno del poi!); quel Capo
secondo quell’abitudine linguistica- perde l’identità e diventa un’immagine astratta, anche se visibile,
di una modalità di gestione/direzione, uguale in ogni luogo e tempo, e non ha più un nome e un cognome, 
diventa semplicemente “Is(so)”. Così nel dialogo tra i seguaci/dipendenti/soci, se un ultimo arrivato,
ingenuo e voglioso di capire, chiede: “Perché si deve fare così?”, il fedelissimo convinto (forse) risponde: 
L’ha detto “issoE il discorso non va avanti, non cresce e si chiude,  spesso con rassegnata saggezza, 
perché, si sa, tanto non cambiaSuccede sempre così!

Nessun commento:

Posta un commento