Nelle Lettere (dal carcere) a Sophie, la sua più cara amica,
e moglie di Karl Liebknecht, Rosa Luxemburg spesso e volentieri
si trattiene, sospesa tra cielo e terra, insieme a alberi e uccelli,
trascinata da meraviglie di colori e da cinguettio di canti, a descrivere
la natura intorno a lei, a prescindere dalla situazione locale del suo carcere,
con o senza giardino, con il verde vicino o lontano.
La natura, di piante e di animali, è sempre amica,
in un rapporto di intensa empatia da sembrar reciproca.
E veramente soffre fino al pianto nel leggere del lento
estinguersi di uccelli canori in Germania, a causa di nuovi
processi colturali, paragonando quest’estinzione
alla cacciata crudele e silenziosa dei pellerossa del Nordamerica
a causa dell’intervento di uomini civili.
E non "ha pace" se non sente l'"eccitato chiacchierio" dello stornello,
perché potrebbe essergli successo qualcosa di male e aspetta tormentandosi
"che si rimetta a fischiare le sue idiozie", così sa che tutto va bene.
“In questo modo io, dalla mia cella, sono legata da ogni parte,
con sottili fili diretti, a mille creature grandi e piccole e reagisco
a tutto con l’inquietudine, il dolore, i rimproveri a me stessa…”
E trae dalla natura anche la forza per guardare avanti
e dare conforto alla sua Sophie, con queste parole: “Anche lei
è uno di questi uccelli e creature per i quali io da lontano
vibro intimamente. Io sento come lei soffre del fatto
che gli anni passano irremissibilmente senza che si viva.
Ma pazienza e coraggio! Noi vivremo ancora e assisteremo
a cose grandi.”
E’ rivoluzionaria Rosa Luxemburg anche nel suo modo “giusto”
di guardare alla vita: la noia, la solitudine, le tenebre non piegano
il suo sguardo ammirato verso la vita, la vita nella sua essenziale sostanza.
(“E’ il terzo Natale in gattabuia...qui io sto distesa in silenzio, sola,
avviluppata in questi molteplici panni neri di tenebre, noia,
mancanza di libertà dell’inverno; e ciò nonostante il mio cuore
batte per una incomprensibile, sconosciuta gioia intima,
come se camminassi nella luce piena del sole su un prato fiorito.
E nel buio sorrido alla vita, come se conoscessi un qualche segreto
magico che sbugiarda tutto il cattivo e il triste e lo trasforma
in chiarità e felicità...Credo che il segreto non sia altro che la vita
stessa, le profonde tenebre notturne sono così belle e soffici
come velluto solo se uno guarda nel modo giusto.”)
E sinceramente colpita, ad esempio, dal dolore dei bufali,
bastonati nel cortile del carcere, selvaggiamente, sa distinguere
tra la rozzezza degli uomini, barbari, e il diritto pieno di ogni animale,
di ogni essere vivente, all’integrità della propria vita.
Proprio per mano di barbari, troverà la morte Rosa la rivoluzionaria,
di lì a poco.
In una delle sue lettere Sophie parla a Rosa della pettoria,
a suo dire un genere di acacia. Rosa non conosce la pettoria,
ma si interroga e così risponde: “Vuol dire che ha le foglioline
pennate e i fiori a farfalla come la cosiddetta acacia?
Lei sa probabilmente che l’albero correntemente così chiamato
non è affatto l’acacia, ma la robinia…” E qui si ferma,
senza ricordare della robinia le insidiose spine,
a tradimento pungenti; al contrario continua a ricordare
la vera acacia, la mimosa, “con i suoi fiori giallo
zolfo e un profumo inebriante”, anche se non riesce a immaginarla
fiorente a Berlino. Ma intanto il colore vitale ancora irrompe
nella sua esistenza chiusa nel buio del carcere.
Forse quest’ammirazione, intrisa di sensibilità viva e attenta osservazione,
della natura è il migliore antidoto a ogni forma subdola e insinuante
di scoramento, di depressione e di calcolo suicida.
Specie se la robinia è senza spine.
O no?
Severo Laleo
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