Si torna a parlare di riforma del mercato
del lavoro.
Pare il PD abbia impresso un’accelerazione.
E subito torna principale, al centro di
ogni discorso, il mercato.
Appunto. Il lavoro, dunque, è da riformare, nelle sue regole,
per “liberare” il mercato da complicate pastoie,
perché l’impresa, agile, possa correre
senza troppi freni.
E, si aggiunge, nell’interesse di tutti. A
giustificazione.
Ma assente, o secondaria, è la preoccupazione
per il benessere
di ogni lavoratore/lavoratrice, ovvero per
le persone in carne e ossa.
Assente, comunque, è ogni idea civile di “liberazione”
delle persone
dai vincoli opprimenti del mercato, è assente, purtroppo,
nei responsabili dell’azione di governo, la passione politica
per la costruzione di una società della “sollecitudine”,
del “care”, dove sia possibile praticare
la cooperazione
e la solidarietà. Resiste solo la
passione per il potere,
a prescindere dalle differenti, nel bene e
nel male, visioni soggettive.
Bisogna cambiare verso, si dice in giro,
ma, attraverso pratici, in stile
anglosassone, progetti di semplificazione normativa, a
dominare è solo
la conservazione e non il cambiamento. Perché, se non si
parte
da una visione umanistica del problema lavoro, il verso
resta sempre
lo stesso; anzi è soltanto un’offerta di velocità,
senza limiti,
per il neoliberismo. Cambia la velocità ma non il verso.
Eppure il verso è giusto, solo se
torna a significare misura, limite.
E’ compito della sinistra (con SEL), con una lotta politica permanente,
con mobilitazione sul territorio, circolo per circolo,
imporre, con forza, per ogni discorso di riforma
del lavoro,
la realizzazione di quanto indicato nella Dichiarazione di Filadelfia:
“ tutti gli esseri umani, quali che siano la
loro razza,
la loro fede o il loro sesso, hanno il
diritto di perseguire,
con eguali possibilità, il loro progresso
materiale e il loro sviluppo
spirituale, nella libertà, nella dignità e nella
sicurezza economica”.
Nessuna politica è buona senza una politica
della dignità.
Per questo è necessario, scrivono gli
estensori (tra i quali Susan Georg,
Serge Latouche, Edgar Morin) del Manifesto
del Convivialismo,
definire qualche limite: “Les États légitimes garantissent à tous
leurs
citoyens les plus paure un minimum de resources, un revenu de base,
quelle que soit sa forme, qui les tienne à l’abri de l’abjiection de la misère,
et interdisent progressivament aux plus riches, via l’instauration
d’un revenu maximum, de basculer dans
l’abjection de l’extrême
richesse en dépassant
un niveau qui rendrait inopérants les principes
de commune humanité et de
commune socialité. Ce niveau peut être
relativement élevé, mais pas au-delà de
ce qu’implique
le sens de la décence commune (common
decency)”.
Porre un limite alla povertà,
porre un limite alla ricchezza,
ogni Stato a suo modo, è,
almeno per la sinistra, un imperativo politico
ed economico per salvare la dignità
delle persone e insieme
la democrazia. La democrazia
conviviale. Tra persone, alla pari.
O no?
Severo Laleo
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