La
riflessione di Luigino Bruni,
“Il grande cantico dell'umiltà.
L’umiltà è fondamentale per vivere e resistere durante
le
grandi prove”, uscita su Avvenire dell’8 Agosto, e qui riportata
Roberto Franceschi, invita, attraverso l’elogio della virtù dell’umiltà,
tutti noi al senso del limite. E denuncia: oggi, in grandi imprese
e organizzazioni, “per fare carriera
ed essere valorizzati occorre
dare sfoggia dei propri meriti,
mostrare mentalità
e atteggiamento "vincenti", essere più ambiziosi
degli altri colleghi-concorrenti”. Purtroppo questo succede
anche in Politica, per la scelta, orgogliosamente dichiarata,
da parte di una nuova, veloce, insofferente classe dirigente,
di lasciarsi guidare da un’ ”ambizione smodata e senza
limiti”.
Sì, un’ambizione “smodata e senza limiti” apre al rischio
di generare hybris. O no?
Severo Laleo
Luigino Bruni : Il grande cantico
dell'umiltà
Il grande cantico dell'umiltà
L’umiltà è fondamentale per vivere e resistere durante le grandi prove.
Luigino Bruni
E quando miro in cielo
arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita,
e quel profondo
Infinito Seren?
che vuol dir questa
Solitudine immensa?
ed io che sono?
(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)
L’umiltà è una di quelle virtù che l’economia e le grandi imprese non amano pur
avendone un bisogno vitale. La nostra cultura, sempre più modellata sui valori
aziendali, non riesce a vedere la bellezza e il valore dell’umiltà, che così
viene "umiliata". Le virtù praticate e alimentate dalle grandi
imprese e organizzazioni si nutrono, infatti, dell’anti-umiltà. Per fare
carriera ed essere valorizzati occorre dare sfoggia dei propri meriti, mostrare
mentalità e atteggiamento "vincenti", essere più ambiziosi degli
altri colleghi-concorrenti. Bisogna cercare e desiderare ciò che si trova in alto,
e fuggire dal basso dove c’è la terra, l’humus, l’humilitas.
Il nostro non è un tempo umile. Le generazioni passate e quelle che stanno
tramontando, conoscevano e riconoscevano molto bene l’umiltà. Avevano imparato
a scoprirla nascosta nella terra, facendo l’esperienza del limite che fa
veramente solo chi conosce la terra con le mani. È toccando i mattoni, il
legno, gli attrezzi duri del lavoro, i panni poveri, il poco cibo, le macchine
nelle fabbriche e nelle officine, che ci si scopriva terra, e dialogando con
essa si apprendevano i mestieri e il mestiere del vivere. La cultura delle
generazioni che avevano conosciuto le grandi guerre e gli olocausti, riuscendo
a salvare la fede in Dio e nell’uomo, era una cultura umile, perché quegli
uomini e quelle donne amavano, stimavano, premiavano l’umiltà.
L’umiltà è una virtù della vita adulta. I bambini e giovani non vanno umiliati
allo scopo di farli diventare umili. L’umiliazione provocata dagli altri non
produce umiltà, ma mille malattie del carattere. La sola umiliazione buona è
quella che ci arriva dalla vita senza che nessuno ce la procuri
intenzionalmente. Si preparano i bambini e i giovani all’umiltà mettendoli in
contatto con la bellezza, con l’arte, con la natura, con la spiritualità, con
la poesia, con le fiabe, con la grande letteratura. È incontrando l’infinito
che ci si scopre finiti, ma abitati da un soffio di eternità, e quando
l’esperienza di toccare l’infinito è accompagnata dalle espressioni più alte
dell’umano, la finitezza non schiaccia, ma eleva, il limite non mortifica, ma
fa vivere. Quando alziamo gli occhi e sentiamo il cielo "infinito e
immortale", si forma in noi il terreno dove l’umiltà può sbocciare.
L’umiltà, poi, si forma nel rapporto con i propri pari: nel confronto con i
compagni, con i fratelli e le sorelle. La riduzione del numero e della
biodiversità dei compagni dei nostri bambini, sostituiti da incontri
"funzionali" (piscina, musica …) e soprattutto da troppi rapporti
"onnipotenti" con le macchine (tv, smartphone, tablet…),
inevitabilmente modifica e riduce le occasioni per le buone esperienze del
limite, e quindi minaccia lo sviluppo dell’umiltà. Un incontro essenziale per
la nascita dell’umiltà è quello con la morte e con la malattia, fin dai primi
anni di vita. Nascondere ai bambini la vista dei nonni e dei parenti morti, non
portare i ragazzi ai funerali e a visitare parenti e amici malati, allontana e
complica l’incontro con la legge della terra e non favorisce la maturazione
dell’umiltà. Una educazione senza limite e senza limiti non può educare
all’umiltà.
Molti anziani e vecchi sono testimoni e maestri di umiltà, perché la vita ha
avuto il tempo necessario per renderli umili. Nelle civiltà precedenti la
nostra, la loro presenza era essenziale anche per il magistero di umiltà che
esercitavano. La distanza dalla prima terra che li aveva generati e la
prossimità alla seconda che li attendeva, offriva una prospettiva diversa e
co-essenziale sul vivere, che poteva essere donata a tutti. Anche per questa
ragione il mondo delle grandi imprese, costruito su registri psicologici
adolescenziali e giovanili (da qui il grande uso di metafore sportive, quasi
tutte improprie), non conosce né capisce l’umiltà.
Nell’umiltà si vede nella sua massima espressione una legge universale che
ritroviamo al cuore di molte virtù e di altre cose grandi della vita: si
diventa umili veramente senza accorgersene. L’umiltà arriva mentre cerchiamo
altro: la giustizia, la verità, l’onestà, la lealtà, l’agape. Non può essere
programmata, ma può essere desiderata, stimata, attesa come dono dalla vita. E
attendendola prima o poi arriva, sorprendendoci. E spesso giunge nei momenti di
maggiore debolezza, dopo un fallimento, un abbandono, un lutto, quando da
dentro l’umiliazione fiorisce l’umiltà. L’amore per l’umiltà è alla base di
ogni vita buona, perché consente di non appropriarsi delle proprie virtù e dei
doni ricevuti.
L’umiltà è una virtù "indicibile", ed è radicalmente relazionale:
sono solo gli altri che possono e devono riconoscere la nostra umiltà, e noi
riconoscere la loro, in un gioco di reciprocità che costituisce la grammatica
della buona vita civile. È invisibile, ma realissima, e la sappiamo riconoscere
– anche se non siamo altrettanto umili, anche se non lo siamo affatto ma
desideriamo esserlo: desiderio di umiltà è già umiltà. I suoi frutti sono
inconfondibili. Il primo è la "gratitudine"sincera nei confronti
della vita, degli altri, dei propri genitori, che nasce dalla consapevolezza
che i miei talenti, i miei meriti, la mia bellezza, sono dono,
"charis", grazia. L’umiltà è prendere atto della verità sul mondo e
sulla vita. Nasce naturalmente, è un atto dell’anima, non richiede sforzi della
volontà, è il riconoscimento di quanto emerge un giorno come evidente. Si
capisce che nelle cose più belle e grandi la nostra parte è molto piccola,
infima, perché ciò che siamo e possediamo lo abbiamo semplicemente ricevuto
dalla generosità della vita.
Tutto è grazia. Ma per arrivare a questo atto naturale e radicale di
gratitudine è necessario un esercizio etico di amore alla verità, che dura
tutta l’esistenza adulta, e termina – con quell’ultimo atto di gratitudine –
quando ci si congeda, solo riconoscenti e finalmente umili, da questo mondo.
L’umiltà allora non è altro che accesso a una verità più profonda. Per questo è
un dono immenso. L’umile è sempre grato. I suoi "grazie", rari perché
preziosi, nascono dalla consapevolezza della bellezza e della bontà di chi gli
vive accanto – c’è una bellezza più profonda e più vera delle persone e del
mondo che si svela solo agli umili. E solo l’umile sa pregare.
Un secondo segnale della sua presenza è la capacità di dire "scusa" e
"perdonami". Ci sono dei conflitti che non si sanano perché ciascuno
è soggettivamente convinto di essere totalmente dalla parte della ragione e
così attende che sia l’altro a chiedergli scusa. Ma poiché la certezza della
ragione è reciproca, si resta bloccati in trappole relazionali che finiscono
per inghiottire famiglie, amicizie, comunità, imprese, a volte interi popoli.
Per uscire da queste trappole c’è bisogno di almeno "una" persona
umile, capace di chiedere scusa anche quando pensa di non essere responsabile
del conflitto – e magari non lo è veramente. Fa il primo passo della
riconciliazione perché gli interessa ricostruire il "rapporto"
malato, prima e di più di vedere riconosciute le responsabilità e le colpe dei
vari soggetti coinvolti. Perché sa che solo dopo avere ricomposto il rapporto
sarà possibile e necessario ricostruire anche la trama delle responsabilità per
i fatti accaduti.
Pronunciare questi "scusa" e "perdonami" è particolarmente
difficile, e quindi molto prezioso, nei rapporti gerarchici. È difficile dire
con umiltà "scusa" a un nostro responsabile: è molto più semplice non
dire nulla, o dirlo per paura o per opportunismo. Ma è ancora più difficile per
un direttore chiedere scusa a un proprio dipendente. Nessun regolamento
dell’impresa e nessun codice etico glielo chiede. Ma poche parole come un
"perdonami" detto da un manager a un lavoratore della sua squadra dà
qualità etica e umana all’intero gruppo di lavoro. Sono queste parole che
creano spirito di solidarietà e persino di fraternità nell’équipe di lavoro,
che riesce a dare tutto nei momenti di difficoltà solo se, e quando, i suoi
membri sentono di condividere tutti lo stesso destino, di essere uguali prima
delle differenze di stipendio e di responsabilità. Un "grazie" e uno
"scusa" sinceri e umili detti da un manager generano più spirito di
gruppo di cento corsi di "team building" (formazione di un gruppo di
lavoro), che in assenza di queste parole profonde finiscono per assomigliare
troppo ai giochi dei nostri figli pre-adolescenti. L’umiltà, però, come altre
parole grandi della vita, rende più forti e resistenti mentre ci rende più
vulnerabili. Ringraziare e chiedere scusa nella verità fa manager e dirigenti
più fragili in un mondo dove l’invulnerabilità è il primo valore. È come
mostrare una ferita, propria e dell’altro, per volerla curare. Ma queste
ferite, nel registro tutto maschile delle relazioni d’impresa, non hanno né
senso né spazio. E così non guariscono, vengono nascoste, si infettano, e
intossicano tutto il corpo.
Il mondo aziendale occidentale soffre una grave indigenza di nuove classi
dirigenti perché ci manca tremendamente una cultura dell’umiltà, cancellata da
prassi e ideologie ispirate all’anti-umiltà, dove l’umile è soltanto un
"perdente". La prima lezione dei corsi di leadership dovrebbe essere
sull’umiltà. Una lezione che manca ovunque per carenza di docenti e perché
l’umiltà non può essere insegnata nelle business school; ma soprattutto manca
perché se si iniziasse a lodare l’umiltà e le sue sorelle (la mitezza, la
misericordia, la generosità…) l’intera cultura della leadership con le sue
tecniche verrebbe completamente ribaltata. L’umiltà educa alla sequela. Un
responsabile che non sia stato formato alla sequela – degli altri, di ogni
altro, dei poveri, della parte migliore e più vera di sé – non sarà mai una
buona guida, un leader.
Il valore di un’intera esistenza si misura dall’umiltà che è riuscita a
generare. L’umiltà è fondamentale per vivere e resistere durante le grandi
prove. Quando la vita ci fa cadere e tocchiamo la terra (humus), non ci
facciamo troppo male e riusciamo a rialzarci se abbiamo imparato a conoscere la
terra e siamo diventati suoi amici. Senza umiltà non si raggiunge nessuna
eccellenza umana, non si apprende bene nessun mestiere, non si diventa mai
veramente adulti. È l’ultima parola di ogni Cantico delle creature.