Caro prof. Scapece,
è un po’ che non
ci si sente. Come va? E il tuo ginocchio?
Che vuoi, dopo i 65
anni, con la pensione, cominciano i piccoli guai,
quando va bene. Meno
male che si legge ancora.
Sai ho finito di
leggere l’altro giorno il “Limonov” di Emmanuel
Carrère.
Vuoi sapere? In
verità, una qualche delusione m’è rimasta addosso,
specie
a lettura inoltrata, fino a
quasi pentirmi
di aver partecipato
alla
giostra del suo successo letterario. Non posso tornare indietro.
Carrère
inventa apposta il “suo” Limonov, almeno s'avverte,
e
attraverso il racconto della di lui vita
costruisce
un testo in molte pagine godibile, a volte ben informato,
ma
sempre giocato sul versante di un linguaggio/mondo
ai
limiti di una disfunzionale volgarità generale. (p. 124)
Carrère
ha voluto scrivere un libro da successo di vendite;
Limonov gli
è servito e basta; e peccato
non sia stato il suo eroe
ammazzato da
Putin come
Litvinekenko, così il
libro avrebbe venduto
“non dieci, ma cento
volte di più in tutto il mondo”.
(p.355)
E
a Limonov il
“servizio” di Carrère
ha regalato una fama enorme.
Convenienze
reciproche tra un maschio scrittore
di buona famiglia,
attento
al successo (la logica del fallito/non fallito domina il
suo mondo)
e
un maschio povero
poeta di periferia, ansioso di “andare
lontano”.
Per
capire il contesto culturale e personale dell’interesse di Carrère
per
Limonov basta leggere
quanto l’autore scrive a p. 125,
dove chiaro è l’obiettivo fondamentale
della vita sua e di Limonov:
non ridursi a “comparsa”. Un libro autobiografico
a
coprire una strumentale
biografia.
Naturalmente
so quanto tu sei più equilibrato nel valutare i testi,
ma
qui voglio comunicarti brevemente solo le mie impressioni.
Che
vuoi che ti dica: ho trovato sparso per ogni pagina
un maschilismo infantile
(spesso falso, ma autentico quando inespresso),
espressa
un’idea di guerra oltre
ogni limite anche ieri
(p.125),
reale
il disprezzo sentito per
“l’informe massa dei
perdenti” (p.140),
cosificate
le presenze femminili, e
inesistente un’idea
di intelligenza
senza
pietà (“Un
cattivo figlio? Forse, ma intelligente, e quindi senza pietà.
La
pietà rammollisce, la pietà avvilisce...”
p. 208).
E il tutto in un continuo tentativo, a volte proprio noioso,
di piegare il suo stile a "colpire" il lettore.
Un
libro scritto ad arte per fare un affare. Ed è stato anche insignito
del
Prix Renaudot: mah!
Forse
noi della generazione del ‘68, non comprendiamo
tutta
questa esaltazione
dell’”energia”,
delle “avventure
straordinarie,
scandalose,
sordide”, in una
parola, tutto questo straparlare dell’ego,
perché
abbiamo coltivato altri sogni e ora siamo (si dice ancora?) out.
O
no?
Severo
Laleo
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