Finalmente ho finito di leggere Julian Barnes, Il senso di una fine.
Le letture a strappi, con pause non brevi, non favoriscono la piena
comprensione di un racconto, di una storia, specie se la storia,
il racconto utilizzano molto i rimandi temporali giocati sull’onda dei ricordi.
Nonostante tutto, la lettura è stata gradevole. Sa scrivere Barnes;
la sua scrittura è intrigante, avvolgente. Credo sia la sua un’abilità costruita
nel tempo con l’esperienza del mestiere e con la sapienza della vita.
Eppure qualcosa non mi convince. Sia chiaro, non ho gli strumenti minimi
per esercitare una critica consapevole, informata, verificabile,
ma quel che la mia mente, non so se d’istinto, richiede per essere sazia
non è stato portato a tavola. Questo Tony Webster, un mio coetaneo,
mi pare chiuso totalmente nel suo bozzolo degli anni giovanili,
e tutta la sua vita successiva di “maturità” sembra essere un accidente
secondario rispetto alla dimensione vitale degli anni del liceo.
Dominato da questa visione, Tony racconta tutto sé stesso attraverso le presenze
dei suoi incontri: Veronica, la famiglia di Veronica, Adrian, Margaret,
tralasciando gli amici di contorno. E sembrano a me presenze non vive
di una propria autonomia, sembrano abbozzate e tutte rimpastate nei ricordi
in rincorsa tra loro secondo situazioni e stati d’animo. In più, Barnes sembra
alla fine tutto preso dall’obiettivo di costruire un “giallo”, a partire da un suicidio.
E presto quest’obiettivo diventa il filo rosso della sua scrittura.
Per intrappolare il lettore. Bravo, senza dubbio, non si può non dire piacevole,
ma non mi basta. Anche se tante osservazioni sparse durante il racconto
aprono spazi a più ampie riflessioni, e di questo gli sono grato.
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