Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò
e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. All' art. 1
si legge: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri
in spirito di fratellanza." Per la prima volta nella storia dell'umanità
(la sottolineatura appartiene a papa Giovanni XXIII), per consenso
molto ampio (universale), a ogni essere umano, senza altra distinzione,
è riconosciuta una sua propria "dignità", quella "dignità" sì insita da sempre,
per natura, in ogni persona, ma solo ora, dopo le inaudite atrocità
della seconda guerra mondiale, estesa, in un documento ufficiale, erga omnes,
a tutte e a tutti, una "dignità" che definisce e sancisce il "limite" invalicabile
di fronte al quale ogni azione, da qualunque parte e di qualunque tipo, tendente
a scalfirla deve essere rifiutata/bloccata/sanzionata. E all'art. 3 si aggiunge:
"Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza
della propria persona", a confermare che ogni persona dotata
di "dignità e diritti", al pari di ogni altra persona, senza distinzione
alcuna, deve poter godere liberamente della sua vita, della sua libertà,
della sua sicurezza.
Si tratta di principi ormai largamente diffusi tra milioni di persone e da milioni
di persone ormai interiorizzati, a ogni latitudine.
Eppure in questi nostri tempi duri, in due regioni del mondo avanzato,
diverse e distanti tra loro, ognuna con la propria cultura e storia
(lasciando da parte tutte le altre regioni dove la negazione dei diritti umani
è la regola), assistiamo con preoccupazione e sofferenza alla rovinosa caduta
di questi elementari principi. E dietro questa caduta, anzi l'intenzionale volontà
di calpestare i diritti delle persone, si scorgono sì grandi conflitti sociali
e politici, ma anche e soprattutto i violenti messaggi, in parole e azioni,
strettamente derivanti da quella stortura culturale caratterizzata dalla volontà
e dall'esercizio di dominio/potere del maschilismo.
La cultura maschilista è ancora a tal punto dominante da consentire a dei "capi"
di stato/governo, in occidente e in oriente, o di incitare alla violenza,
fino all'assalto tragico e grottesco alle istituzioni della democrazia, o di esibire,
con cinica spontaneità, dichiarando un potere di vita e di morte sugli avversari
politici, tutta la propria forza di violenta minaccia, senza provocare
nelle popolazioni una naturale repulsione. Anzi, dietro questi "capi" maschi
si schiera spesso una quantità notevole di "leali servitori", e, tra questi,
molti, sempre maschi, occupano posti importanti di potere, quasi formando
tutt'intorno al "capo" una testuggine di protezione. Non troverai
a giustificare quel potere al maschile una visione del mondo,
un impegno a contribuire al progresso o conservazione
di una "civiltà", o chissà quali lotte tra capitalismo
e socialismo, no, troverai solo slogans a raffica gridati, soprattutto
per stordire le persone più indifese sul piano dell'autonomia
di giudizio, a copertura di quell'impulso/istinto sfrenato
al primato/comando/dominio, pronto ad andare oltre il limite,
proprio della "cultura" del maschilismo (dopo aver acquistato a sé,
alleati e complici, con regali di soldi, i ceti "interessati").
E quest'istinto di dominio e di esaltazione dell'ego
è così tragicamente interpretato, petto all'infuori, nei confronti del virus
Covid-19, da rifiutarsi di riconoscere la pericolosità della pandemia;
e proprio qui, sulla assenza di comprensione del dolore di milioni
di persone a causa della pandemia, si misura l'abisso tra un egoismo
pigro e negativista e un'empatia sociale fattiva.
Ma quali piani possono predisporre gli stati e le società per evitare
di cadere nelle mani di impenitenti interpreti della cultura maschilista?
Da una parte, certo, un grande sforzo culturale attraverso le più disparate
agenzie di informazione/formazione, dall'altra "semplici", quasi naturali
e d'obbligo, interventi istituzionali. Basta riconoscere che il monocratismo,
il potere di uno solo, è l'esito storico del maschilismo e che quindi va superato,
almeno per una lunga fase, con il bicratismo, assia la guida duale,
un uomo e una donna, con pari poteri, in ogni sede istituzionale di "governo",
potere di guida duale controbilanciato dal controllo di assemblee
con parità di presenza tra uomini e donne. Forse qualcosa cambierà,
anche sul piano culturale per le nuove generazioni.
O no?
Severo Laleo
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