Stazione di Napoli, Napoli Centrale, proprio
Napoli Napoli.
Sono gli anni della minigonna. Anni lontanissimi.
Una giovane donna è in fila per il biglietto del treno.
Ai lati della fila, per confine, dei solidi corrimano, a mo’
di tubi,
di un ottone a tratti lucido e brillante. A volte opaco di
sudicio.
In stazione, per il biglietto, s’era prigionieri di fila,
senza catene.
Vuoi lasciare la fila? Devi essere abile a piegarti ad
angolo retto,
e sgusciar via furtivo dal tubo d’ottone. Per stanchezza, e
per la gioia
degli astanti: l’operazione biglietto era un’avventura
dialogica.
All'improvviso un giovane “malvissuto”, con la fretta
nelle gambe,
entra nella fila all'altezza della giovane donna e la
stringe tra le braccia.
Gesti e intenzioni e violenza appaiono chiari a tutti.
Al gridare della giovane donna s’accorre in tanti.
Ma è lesto il malvissuto a fuggire.
Resta inconsolabile un pianto nelle braccia di solidarietà
di un’altra donna
di fila, mentre a passi tardi e lenti
s'appressa la Polfer.
L’atrio di Napoli Centrale, esperto di violenza scippagna,
si raggela.
Ma una vecchia (h)abitué di stazione urla sparata.
La memoria restituisce ancora quel suono violento,
pressappoco:
“Ave raggione ‘o guaglione, è annura ‘a
fetente”.
Per fortuna quella vecchia di stazione non esiste più.
Ma son rimasti ancora dei giudici, a Firenze, ad argomentare,
al par della vecchia, per giustificare una sconcertante
violenza.
O no?
Severo Laleo
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