martedì 15 gennaio 2019

La festa di governo per il carcere


In questi giorni di insensata festa di governo all'insegna dell'esaltazione
del carcere per la punizione di un condannato, è toccato a Sofri pronunciare parole chiare e condivisibili sull'assurdità della pena della "cella". Scrive Sofri:
"Capisco, mi pare, il desiderio dei famigliari delle vittime di vedere chiuso in carcere il responsabile provato - o colui che credono il responsabile provato - del loro lutto. Io però ho da tantissimo tempo, e molto prima che mi riguardasse così da vicino, un'obiezione di coscienza radicale alla galera, salvo quando la reclusione sia il solo modo per impedire a qualcuno di fare ancora del male. Un'abitudine pigra, ma niente è più ostinato dell'abitudine, continua a identificare il risarcimento dovuto alla vittima e alla comunità con la cella. Io provo solo disgusto e vergogna per la cella, con tanta forza che non mi succede mai, nemmeno fra me e me, di augurarmi che le persone che detesto e considero nemiche (ce ne sono, infatti, com'è umano) finiscano loro in galera. Perché la galera, chi la conosca da carcerato o da carceriere, e resti umano, nobilita il prigioniero e contagia di ignobiltà chi la augura.
...il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così disumano e cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza, da insinuare nel detenuto una sensazione di umiliazione e di offesa che prevale sulla ragione che ce l'ha portato. In carcere si può 'pentirsi' solo maledicendo l'accidente che vi ci ha portati: una lezione a delinquere meglio, la volta che ne sarete usciti. Chi attraversi una conversione vera dei propri desideri e della propria vita lo fa non grazie alla galera, ma nonostante la galera. La quale, che lo si voglia oppure si pensi e si proclami di non volerlo, è una vendetta."
Dai, stavolta con Sofri si può davvero essere d'accordo.
O no?
Severo Laleo

sabato 12 gennaio 2019

Roma, Cuarón e l’essere donna





Caro Scapece,

l’hai visto il film Roma? Del messicano Cuarón?
A me è capitato di vederlo ieri sera, grazie a qualche tenera insistenza
di Anna (i figli ormai consigliano i vecchi genitori!).
Vedrai, ti piacerà; ti piacerà!” andava ripetendo. Mah!
E infatti, anche se inizialmente ero sull’annoiato, per via di una lentezza
filmica non usuale (non avendo idea del tipo di racconto),
d’improvviso mi son sentito preso, e ho seguito il film con intensa 
partecipazione.
Lo sai, io sto ai film come l’olio sta all’acqua, quindi non ti aspettare 
un’analisi utile; o discorsi sulla società degli anni 70 in Messico, 
o sulle classi sociali, i ricchi e i poveri, padroni e servi, niente;
vorrei solo dirti il senso della mia partecipazione,
in pratica che cosa ho visto.

Per me Roma è un film, meglio un bel film, sulle “qualità” di genere:
le “qualità” maschili in opposizione alle “qualità” femminili.
Da una parte vedrai immagini penetranti, esemplari, di un mondo maschile
infantile, infedele, irresponsabile, fatuo, irriflessivo, pronto alla violenza,
dall’altro le immagini mirabili, coinvolgenti, di un mondo femminile
sofferente, responsabile, amorevole, pronto ad assumersi ogni responsabilità
nella direzione della cura degli altri.
Gli uomini appaiono o soli, dediti ai propri egoismi, o in bande, ora di parata,
ora di scuola di arti marziali/guerriglia, ora di formazione per l’ordine pubblico.
Anzi, Fermin, il maschio tutto arti marziali, preso a scuola di guerriglia,
viene spogliato d’ogni umanità, ed è mostrato mentre si esibisce
in una danza assurda da duello, tutto nudo, davanti alla “sua”
fidanzata, menando fendenti nell’aria a pene penzolone: vacuità pura;
e quando il guerriero saprà che la “sua” fidanzata aspetta un suo figlio,
scappa via vilmente. Ancora vacuità.
E scappa vilmente dalla sua moglie anche Antonio, maschio acculturato
e benestante, padre di quattro bambini, per inseguire un’amante:
un maschio muto d’egoismo, tutto macchina e viaggi. Vacuo?
Le donne al contrario non sono mai sole, anche quando si trovano
in grosse difficoltà; si cercano e si scambiano solidarietà, in parole e in azioni.
E trovano e vivono un’unità vitale. Ad ogni età. Un abbraccio d’amore.
E' Cleo, ma non solo, il simbolo di questa umanità resistente.
I maschi in truppa, le donne insieme.
Un bel film, una lezione per il futuro, un invito all’amore.
Bravo Cuarón!
O no?
Severo Laleo