lunedì 31 ottobre 2016

Fuori Binario, l’autopromozione della persona e il Referendum




Non conosci “Fuori Binario”?  Sicura?
E’ il giornale di strada dei Senza Dimora di Firenze,
autogestito e autofinanziato. E’ una pubblicazione
periodica mensile, registrata al Tribunale di Firenze
dal 1994, di proprietà dell’Associazione
Periferie al Centro”. Si diffonde per strada a offerta libera.
Ora è in diffusione il numero 185 Ottobre/Novembre 2016.

Per “non perdersi” i Senza Dimora pubblicano, tra l’altro,
tutto quanto è utile per offrire solidarietà alle “persone
che vivono il disagio sulla propria pelle”, dagli indirizzi
dei Centri di Ascolto, alle sedi per l’Assistenza Medica,
dai Bagni e Docce ai Corsi di Alfabetizzazione,
dai Centri di Accoglienza alle Mense (ora anche Autogestite).
E insieme si battono per la difesa dei diritti sociali, e soprattutto
per l’”autopromozione della persona”.
L’autopromozione impegna direttamente, esclude ogni atteggiamento 
di rinuncia e non implora la generosità
a gocce e una tantum delle istituzioni: chiede al contrario
alle istituzioni di garantire in continuità
con risorse/servizi/interventi/strumenti adeguati
l’esercizio pieno del diritto a declinare in libertà
la propria dignità di persona.
La prima pagina del n. 185 dei senza Dimora grida
a caratteri cubitali:  “Al referendum votiamo NO!
Occorrerà battersi perché la nostra Costituzione del 1948
sia finalmente ATTUATA!”

E’ vero, a parlar così forse non si entra nel merito della riforma
(ma è possibile un voto nel merito se si è costretti a votare
un insieme di norme in “blocco”, quasi la “filosofia”
di un intero impianto, senza la libertà di operare distinzioni?),
è vero, forse una venatura un po' retorica percorre,
sottile, quel verbo “battersi”, eppure, sarà anche colpa
di un “vecchio” sentimento fuori moda, vagamente di sinistra,
a scegliere di stare, in questa battaglia referendaria, 
con le “persone che vivono il disagio sulla propria pelle” 
forse non si sbaglia.
O no?
Severo Laleo 


lunedì 17 ottobre 2016

No, non siate arroganti, la scienza è mite



E’ successo qualcosa di grave, forse una crepa profonda,
nelle fondamenta della cultura del nostro Paese, se anche le parole
(e quindi i valori/comportamenti conseguenti) sono stravolte
a piacimento da chiunque “possiede” la parola; ed è successo, forse, 
qualcosa di ancora più grave, se le parole così stravolte troppo spesso 
sono accolte dai molti che ascoltano senza un minimo
di reazione. E va bene in campo politico, ma non si coinvolga l’etica. 
Quando si perde il senso della relazione etica, si rischia
di perdere il senso dell’Altro.
Purtroppo stravolgere il senso delle parole, quasi a sostegno ognuno 
del proprio sentire, è un segno di questi tempi
di individualismo esasperato, di corsa all’apparire e al successo,
per l’affermazione di sé; è quasi un desiderio di uscire
dalla condizione di “normale” umanità verso una condizione
di “superiore” umanità. In ogni campo. Ma alla fine i “vincenti” 
(altra parola d’uso frequente e forte dei nostri tempi) hanno tutti qualcosa 
in comune, in ogni settore, sia se praticano la buonavita sia se praticano 
la malavita: la logica della supremazia.

Stravolgere le parole è capitato ora anche al nostro Premier
se è vera la frase riportata dalla stampa, pronunciata da Renzi,
il Premier d’Italia, davanti agli studenti della Scuola Sant'Anna
di Pisa: "Vi auguro di essere inquieti e arroganti,
nel senso latino del termine, cioè di avere delle ambizioni, pretendere 
delle cose, puntare in alto".

Arroganti? Nel senso latino del termine?
No, dai! Anche per i dizionari di latino più diffusi tra i banchi
di liceo “adrogans” indica solo e sempre l’arrogante, il borioso,
il presuntuoso, l’ insolente.
Quale bisogno c’è, per contribuire alla crescita culturale
di un Paese, di invitare giovani studenti a essere arroganti,
sia pure nel senso di avere ambizioni, successo e altro?
L’arrogante è sempre un violento, perché non ha un limite
nel pretendere di raggiungere il suo obiettivo; e per questo
diventa insolente e aggressivo, infagottato, presumendo troppo
di sé, in una sprezzante superiorità;  in una parola, diventa tracotante
capace appunto di andare oltre; l’oltraggio è nel suo orizzonte. 
L’arrogante è ben il contrario del mite.
L’elogio dell’arroganza cancellerà l’elogio della mitezza?

No! Noi si vuole continuare testardi a difendere, contro l’arroganza, 
al di là del latino del Premier, la mitezza, non quindi il senso pieno di sé, 
ma la cura degli altri, e non inseguendo il “merito” (il merito è ambiguo 
ed è sempre sub iudice), ma riconoscendo i bisogni a prescindere; 
perché solo i bisognosi “meritano” sempre la nostra cura.
Se qualcuno dei miei dodici lettori per un caso avrà il “possesso” 
della parola nei confronti di minori (dovere, ad esempio, tipico
di docente), non sia arrogante, se vuole puntare in alto,
anzi sappia essere mite nel senso pieno della parola,
in latino e in italiano, perché solo il mite riconosce la priorità dell’Altro
nella sua pienezza di persona.
L’arrogante “sa” da sempre, il mite sempre “cerca”;
l’arrogante insegue gli “eccellenti”; il mite sceglie gli “ultimi”;
l’arrogante è per la conquista, il mite è per il dono.
L’arrogante, che ha ambizioni, che pretende, che punta in alto,
è sempre preso/chiuso in sé stesso, nel suo egoismo. Sa fortemente solo 
di dover “arrivare”. E’ duro l’arrogante.
Eppure raggiungere il traguardo forse non è mestiere solo
degli “arroganti”.
O no?

Severo Laleo

giovedì 13 ottobre 2016

La Rai, Bill Gates e l'importanza del limite nel possesso/uso del denaro




Forse è improprio, ma vorrei comunque accostare due notizie, pur distanti
tra loro per ambienti e persone, solo perché consentono, queste "notizie",
di svolgere una riflessione, con qualche serietà, sul danaro e il suo uso,
in un'epoca, e si spera in un'inversione di tendenza, in cui i "ricchi"
sfondati, pieni di soldi, andando oltre i limiti, in parole e in atti,
proprio grazie all’uso del denaro, hanno avuto (in Italia, Berlusconi)
o  aspirano ad avere (negli USA, Trump) anche il Potere in Politica.
Combiniamo le notizie.
In Italia è successo che il Senato ha approvato un emendamento
che fissa per tutto il personale e i consulenti RAI, senza eccezioni,
un tetto massimo, in una parola, un limite, di 240mila euro, in retribuzioni.
Si è quindi ritenuto opportuno e giusto porre un limite al “guadagno”
in una struttura pubblica. E’ un fatto nuovo.
L'idea che si possa stabilire un limite ai guadagni/profitti
(si tratta per ora solo di dipendenti RAI) e che si possa in teoria stabilire
un limite alla ricchezza attraverso, ad esempio, una politica fiscale
tendente a tenere accettabili le differenze di "fortune" tra le persone,
spinge a guardare con ottimismo al miglioramento della qualità della vita
e delle relazioni tra le persone.
Pare su questo d'accordo Bill Gates, ed è l'altra notizia,
ripresa dal Corriere. "Signor Gates, cos’è il denaro per lei?
E che significa essere l’uomo più ricco del mondo?
Sente una responsabilità in più? «La risposta non può che essere
a due livelli. Il primo è che mi sento incredibilmente fortunato
perché posso fornire ai figli una buona istruzione e ogni aiuto
senza dovermi preoccupare dei soldi: e questa è una vera
benedizione. Il secondo livello è che Microsoft ha guadagnato tanto,
che la maggior parte dei miei soldi, direi oltre il 95 per cento,
non è necessaria per sostenere le spese né della mia famiglia né dei miei figli.
E quindi ho la possibilità e l’opportunità di restituire questo denaro
alla società, per accelerare l’innovazione a favore dei più poveri»".
Indirettamente, al di là del quantum, Bill Gates riconosce l'esistenza
di un limite al possesso/uso di danaro per vivere,
se il 95% dei suoi soldi non è necessario alla  "vita" sua
e della sua famiglia. E ritiene quindi opportuno (giusto?) "restituire
il denaro in più, oltre il limite, a chi ha bisogno urgente per continuare a vivere.
Per miglioramento della qualità della vita e delle relazioni tra le persone.

Se la cultura del limite riuscirà a portare a ragione anche il capitalismo,
forse il futuro sarà sempre meno violento e drammatico per gli ultimi
della terra.
O no?

Severo Laleo

mercoledì 5 ottobre 2016

Caro Benigni, la sobrietà è per tutti

Caro Benigni,
da uomo di scuola non posso non ricordare con commozione
la tua grande “lezione” di illustrazione della “Costituzione
più Bella del Mondo”. La nostra. Soprattutto per quella scoperta
della “persona” e della sua dignità, dopo le atrocità di un lucido delirio 
di Potere Politico volto alla eliminazione dell’altro
(propria di ogni nazismo).
E se non ricordo male, legasti, con un po’ di patriottismo, 
giustificabile in una trasmissione televisiva, la nostra Costituzione 
alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 
appunto tramite il valore universale della “persona” e della sua dignità. 
Credo fu, tra gli altri, Papa Giovanni XXIII a salutare questa “rivoluzione
con una forte espressione: con la Dichiarazione dei Diritti
appare per la prima volta nel discorso pubblico
l’”homo dignus”.

La nostra Costituzione celebra la dignità della persona,
e all’art.1, rende “sovrana” la persona, ma in un recinto
di regole di garanzia.

Tu hai dichiarato di essere per il SI’, benissimo, ma,
mentre difendi i principi fondamentali della Costituzione,
scritti a tutela dei diritti di ogni persona, trascuri di porre attenzione 
proprio a quei limiti di garanzia, oltre i quali da sobri si diventa ubriachi, 
oltre i quali il controllo esercitato dalle persone cade
e diventa arbitrio tra le mani dei decisori politici,
ai quali non s’addicono i limiti.
Un esempio?
La nostra Costituzione più Bella del Mondo prevede,
con un’essenzialità, diresti, straordinaria, all’art. 83,  
la seguente regola:L’elezione del Presidente della Repubblica
ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi
dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente
la maggioranza assoluta”.
Chiarissimo. La maggioranza assoluta dell’assemblea,
per l’elezione del Presidente della Repubblica,
è  un obbligo/limite.
Grazie a questa regola, molti dei più “in gamba” Presidenti
della Repubblica, a dimostrazione della bontà dell’obbligo
del dialogo tra opposti per trovare in comune la soluzione
più nobile, furono eletti con maggioranze di “garanzia”, 
forte per tutti: Gronchi, Pertini, Cossiga (le cui contraddizioni sono ora 
consegnate alla storia), Ciampi (anche Napolitano,
ma solo la seconda volta, forse per sfinimento della Politica)
superarono la soglia del 70% dei voti dell’assemblea.
Eppure la Riforma della Costituzione, senza una motivazione chiara, 
univoca e difendibile sul piano della “garanzia” delle regole, 
prevede/pretende di modificare questa regola, così sapiente
e di garanzia per ogni persona, comunque, pur avendo dato
buona prova, nel tempo, di solida validità.
La Riforma vuole sostituire l’attuale art. 83 con la seguente formulazione: 
L’elezione del Presidente della Repubblica
 ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea.
Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. 
Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza
dei tre quinti dei votanti”.
Eh, no! I tre quinti dei “votanti”, no! Ma perché rischiare
di eleggere a una carica così alta di garanzia un Presidente debole
con i soli tre quinti dei “votanti”, cioè dei “presenti”?
Un Presidente debole di fronte a tutti non è un Presidente libero.
E rischia di essere prigioniero di un altro Potere.
E perché giustificare gli eventuali parlamentari assenti
a un compito così delicato? Perché favorire la possibilità dell’assentarsi 
al voto nell'elezione del Presidente (non è una quisquilia!)? 
Per consentire l’elezione solo ai presenti?
Insomma si può chiudere tutto con un “chi c’è, c’è”,
per usare il linguaggio di giovanotti scamiciati e irrispettosi?
Qual è il vantaggio per noi persone di una società democratica
nell’avere un Presidente, la più alta carica di garanzia,
sulla carta eleggibile con i tre quinti dei parlamentari presenti? 
Qual è la ratio? Può un Presidente eletto da una minoranza 
(sulla carta, se al settimo scrutinio, si fa per esagerare, si presentano 
solo 366 parlamentari, bastano 220 parlamentari a eleggere il Presidente!).
Dove sono andati a nascondersi i limiti? Anzi dov’è quell’esaltazione 
dei limiti da parte tua, caro Benigni?
Se i parlamentari sono per una qualche ragione presi dall’ubriachezza, 
chi potrà ridurli alla sobrietà?
Solo i limiti della legge costituzionale, caro Benigni.
Votando SI’, tu, dopo avermi dato l’illusione di una comprensione profonda 
della Costituzione nel suo essere sistema (i principi fondamentali 
sono l’orizzonte etico-giuridico di ogni altro articolo),
mi rubi in realtà un pezzettino di garanzia, perché consenti
a eventuali ubriachi la possibilità di non rinsavire.
No Benigni, io alla mia dignità di persona, garantita da limiti
della legge costituzionale, non rinuncio. Tu sì. Forse.
O no?

Severo Laleo 

Il Pd e i tre milioni di euro (pare) per “decidere sul futuro”



E' di oggi la notizia dell' "investimento" di 3 milioni di euro
da parte del Pd per convincere il "pubblico" indeciso
degli “spettatori” a votare al referendum. E’ proprio così,
non si dà altra ragione per una spesa tanto esorbitante:
i 3 milioni servono appunto ad allestire "spettacoli" e "cartelloni",
i più “geniali” e “creativi” possibili, per attirare al voto
un più numeroso "pubblico" di  spettatori.
E per questo è stato ingaggiato l’americano Messina,
al quale, si sappia, senza dubbio alcuno non interessa
il quid del referendum –grave danno in sé per un dibattito serio-,
ma esclusivamente la “vittoria” di chi lo tiene a libro paga.
Un tempo questo si sarebbe detto affidare la battaglia 
al Capitano mercenario.

Ora, se per la lotta politica, nell’infuocato scontro reale tra fazioni, 
la propaganda può anche avere un senso (e si spera dei limiti),
forse per definire le migliori regole per il vivere civile di tutti,
ognuno in relazione con l’altro, la propaganda svolge un ruolo
di mortificazione del pensiero critico e libero. 
E della crescita civile di un popolo. Ancora un’occasione mancata.

Ma mi piace pensare (e il referendum del giugno 2011
è una conferma) che il mio Paese non è un "pubblico";
anzi è fondamentalmente un "popolo". E un popolo,
ricco di persone libere e povero di semplici spettatori
da colpire con immagini accattivanti, è attento
a non perdere quote di quella “sovranità
conquistata proprio con la Costituzione del 1948.
Il problema (la posta in gioco, direbbe Violante) è appunto
capire se continua a essere integra la “sovranità” di cui all’art.1 
della nostra Costituzione o se in qualche modo è ferita.
E se il "pubblico" è in genere passivo ascoltatore di messaggi piacenti, 
il “popolo” in genere è (dovrebbe essere) attivo osservatore della realtà 
dei fatti e dei testi.
Il popolo non è più una folla pronta alle emozioni e "suddita"
per l'applauso; il popolo è un insieme di persone vogliose
di capire, attraverso una campagna seria di informazione,
a cura dei sostenitori dei SI e dei sostenitori dei NO, insieme,
se tenersi la “vecchia Costituzione” o provare la “nuova Riforma”. 
Investire in una campagna di propaganda (e Messina è uomo
di propaganda) sulle regole costituzionali è già cedere
alla divisione, all’idea di scontro, al combat, quando si tratta
di unire in un grande e civile débat public un intero Paese.
E la pratica politica “divisiva”, nel tentativo di “semplificare”,
rende ogni percorso più complesso e tortuoso. 
E anche quando si cerca di chiarire nel merito le questioni, 
capita si esprimano giudizi generici, emotivi, d’auspicio, 
senza fondamento, e divisivi. Ad esempio, Violante, appunto,
premette alle sue slide di approfondimento questo giudizio 
sulla “posta in gioco”: ”Non è una scelta banale, se vince il No 
il sistema non cambia [e questo è verissimo]. Continueremmo 
nella instabilità e nella confusione delle regole 
[forse instabilità e confusione di regole sono nella Costituzione?].
Se vince il Sì si apre una nuova stagione per la modernizzazione
e la competitività del paese [quali articoli della riforma in sé aprono 
alla modernizzazione e alla competitività? E chiunque governi?]
Decideremo [chi?], sul futuro [questa poi no! … basta con la retorica
del futuro: il futuro è di tutti ed è indivisibile e non si sa quale 
segno potrà avere].

O no?
Severo Laleo


sabato 1 ottobre 2016

M5S e quote rosa: l'intuizione congelata di Appendino





Il romanzo delle "quote rosa" ha ora un altro capitolo,
grazie a due persone nuovissime nel panorama politico italiano: 
Appendino, sindaca di Torino e Raggi, sindaca di Roma.
Entrambe bocciano le quote rosa, perché rappresentano
o “un recinto per panda” o “aiutini” in contrasto con la meritocrazia (sic). 
Anche se Appendino aggiunge, in verità, pur senza dare 
una qualche possibilità di realizzazione alle sue parole: 
"il modello ideale a cui tendere è quello senza quote rosa."
D'accordo: il modello ideale a cui tendere è senza quote rosa,
perché le quote rosa saranno fuori luogo, inutili, senza senso, 
quando sarà superata/sbloccata l’attuale struttura di “Potere”, 
derivante direttamente da una storia tutta dominata dall’impronta assoluta 
del maschilismo. Anzi, a leggere i giornali, Appendino un tempo 
avrebbe gradito l’imposizione della parità di genere”. 

D’accordo: intuizione giusta, ma ancora congelata nel M5S.
Forse addirittura inesprimibile. E i motivi sono tanti, culturali 
e di pratica politica.
L’imposizione della parità di genere è, in realtà, un passo obbligato
per accedere a una visione del “Potere” oltre il maschilismo,
anzi oltre l’idea stessa di “Potere” in sé finora nota.
Infatti il parlare di quote rosa non coinvolge la critica
alla struttura del “Potere” in sé. Nelle società moderne
–e ripeto un discorso già scritto- le strutture di "Potere" sono figlie
dell'antica visione maschile del mondo, senza dubbio alcuno.
Anzi il maschilismo ha generato le strutture di governo
a sua immagine, a immagine del suo “IO”, solo, forte e potente.
E così il monocratismo, l’idea di un Capo Uno, di un uomo solo
al comando, è il risultato, l’esito oggettivo, inevitabile, del maschilismo,
di quella storia cioè finora costruita dagli uomini, quelli maschi.
Eppure proprio il monocratismo  è la modalità di governo da superare
se si vuole una reale democrazia di genere.
Se la parità uomo/donna non irrompe nel livello monocratico
di ogni “governo”, la nostra società continuerà a restare
imbrigliata nelle antiche strutture di potere appannaggio maschile.

Perché le strutture di potere/governo sono affidate a una sola persona
e non a una coppia uomo/donna?
Perché a diffondersi finora è stato il modello di un’autorità unica,
a Capo Uno, e non duale, a Due?
E’ forse il monocratismo una modalità di governo naturale?
O è il risultato di un lungo processo storico, segnato dall'assenza di donne?
La semplice scalata alla parità uomo/donna attraverso le quote rosa
non scalfisce la struttura maschilista della nostra organizzazione sociale.
Per aprire una via possibile al cambiamento della società,
anche nella direzione dell’estensione della democrazia e della trasparenza,
e soprattutto della formazione di una decisione pubblica
non più condizionata/dominata da una cultura di genere maschile,
in tutte le “sedi/posizioni” di natura decisoria di pubblica utilità
la presenza uomo/donna non può non essere pari, anzi, deve essere pari.
In realtà, il monocratismo, il potere/dominio, cioè, di uno solo,
pur conquistato per via democratica, è l’esito obbligato del maschilismo,
con tutte le sue degenerazioni, dal leaderismo carismatico
all’uomo della provvidenza, e non muta, anche se il monocrate è donna.
Il maschilismo e la struttura maschile del potere cadranno
quando cadrà il monocratismo. E le conseguenze, in termini
di un’educazione, non violenta, alla parità, generata non da teorie
ma dal nuovo contesto di relazione uomo/donna al “Potere”,
saranno visibili nelle nuove generazioni.
Chissà, forse il bicratismo perfetto potrà segnare una nuova stagione
di democrazia.

O no?

Severo Laleo