sabato 11 febbraio 2012

Vabbuò, jà!



Ho un amico napoletano, carissimo, e sempre disponibile.
Un ragazzo (si fa per dire!) eccezionale.
Si chiama Antonio Scapece, ma  per me è “vabbuò, jà”.
Sì, perché spessissimo, nel nostro conversare,
quando vuol chiudere una discussione,
soprattutto per evitare una polemica, inutile e senza senso,
sospira un profondo “vabbuò, jà”. E a me pare saggezza.
Vabbuò”, almeno per un/a  napoletano/a  di una volta,  
esprimeva non solo un accordo, la condivisione di una decisione,
di un’intesa, ma, insieme all’accordo,
esprimeva anche una riduzione/rinuncia alla propria soggettività
per accogliere, con benevolenza, la soggettività altrui.
Era quasi dire: ”Va bene, sono d’accordo con te,
non voglio creare problemi, seguo volentieri le tue indicazioni,
perché insieme raggiungeremo l’obiettivo”.
Per certi aspetti era tanto vicino all’ “I care” d’oltreoceano,
nel suo indicare la volontà di trovare insieme una soluzione al problema,
quanto era lontano dal brutale e insolente “me ne fotto”,
dove la rinuncia a comprendere il problema è piena, totale e senza appello.
In più il “vabbuò, jà” aveva anche un senso di conforto solidaristico,
proprio nei momenti di difficoltà, per esortare a resistere,
e non a rinunciare o a rassegnarsi senza un motivo serio.
Con il tempo si è perso di vista il suo significato di attiva saggezza.
Purtroppo il “vabbuò, jà” di oggi, rinvigorito nel suo senso
tragico di passiva accettazione fatalistica degli eventi,  
proprio dal frastuono inconcludente della plancia della Concordia,
segna maledettamente una rassegnazione supina e irresponsabile,
lontanissima dalla disponibilità a darsi da fare del mio caro amico.
Eppure nessuno a Napoli ha detto “vabbuò, jà” all’occupazione nazista.
O no?
Severo Laleo



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