venerdì 28 settembre 2018

Basta diventare un "peso" per uscir di vita?


Caro Scapece,

questa volta ti propongo una riflessione pesante: riguarda il suicidio.
Già so la tua reazione. Non ti preoccupare, puoi anche non rispondermi,
rispetto molto il tuo sforzo di voler gestire le tue letture e i tuoi pensieri
senza inutili turbamenti e con animo sereno e leggero.
Perciò leggi pure con un distacco a tua misura questa mia lettera.

In particolare, la mia riflessione riguarda il suicidio premeditato,
il suicidio cioè che non scaturisce da situazioni di insopportabile sofferenza
e disagio, ma, come dire, da una scelta di vita. Una scelta di “riduzione” della vita.
Sì, perché Paul Lafargue, il suicida, non è un malinconico lagnoso
e depresso, pieno di tutti i mali, ma un giovanotto di sessantanove anni
ancora arzillo, pieno di vita e di progetti e corrisposto in amore
da un’intelligente donna, di sessantasei anni, Laura, figlia di Karl Marx.

Anche Laura muore suicida, ma di lei non si parla quasi mai;
Lafargue stesso, nella biglietto lasciato a giustificazione del suo gesto,
non ha una parola per la sua compagna di una vita: mistero,
o semplicemente il solito ego “eroico” maschilista. (Lafargue muore
per seguire una “sua teoria”, Laura, forse, per seguire il “suo uomo”
anche nella morte.) La differenza è da registrare, anche al fine di comprendere
i diversi “eroismi”.
E leggiamo questo biglietto. Scrive Lafargue:
Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che la vecchiaia impietosa,
che mi tolse a uno a uno i piaceri e le gioie dell'esistenza
e che mi spogliò delle risorse fisiche e intellettuali,
non paralizzi la mia energia e non spezzi la mia volontà
facendomi divenire un peso per me stesso e per gli altri.
Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settanta anni.”
Ecco il lucido timore (e insieme constatazione) di Lafargue
diventare un “peso” per sé e per gli altri, 
per colpa dell'impietosa devastante vecchiaia.

Ora se la scelta personale non può essere giudicata,
al contrario il ragionamento merita una risposta.
Basta, per chiudere con la vita, per uscir di vita,
il semplice diventare un “peso” per sé e per gli altri?
O forse ai vecchi incombe un altro dovere, 
quello di saper “fare il vecchio”, 
di "saper essere vecchio” sul serio?*

Il biglietto comunque si chiude con un grido di gioia e vitalità:
Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro,
la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà.
Viva il Comunismo.
Viva il Socialismo Internazionale!”
Vabbuò, ja!

O no?
Severo Laleo

*R. Simone, La mente al punto

mercoledì 26 settembre 2018

Dovremmo essere tutti femministi … ma insieme

Dovremmo essere tutti femministi è il titolo di un volumetto
-in realtà si tratta di una versione rivista di un intervento preparato
per una conferenza del 2012- di Chimamanda Ngozi Adichie,
una scrittrice nigeriana, nota anche, e non solo, per il fortunato
romanzo L’ibisco viola.

La scrittrice, in questo suo intervento, racconta personali esperienze
della sua vita, significative sul piano della comprensione delle differenze
tra generi, a partire da un episodio, gradevole a leggersi,
capitatole negli anni della scuola elementare in Nigeria.
(Scoprì allora bambina, con gran disappunto, che il capoclasse doveva
per forza essere un maschio, nonostante la sua prova, per la promozione
a capoclasse, secondo le indicazioni della maestra, avesse ottenuto
il miglior risultato!)
Uomini e donne -scrive Chimamandasono diversi...Le donne
sono leggermente più numerose degli uomini (il 52% della popolazione
mondiale è femminile), ma la maggior parte dei posti di potere
e di prestigio è occupata da uomini. Wangari Maathai, attivista keniana
e Nobel per la Pace morta nel 2011, l’ha sintetizzato perfettamente così:
più sali e meno donne trovi.” Vero!

E a conclusione del suo discorso giunge a una sua definizione
di femminista: “la mia definizione di ‘femminista’ è questa:
un uomo e una donna che dice sì, esiste un problema con il genere
così com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio.
Tutti noi, uomini e donne, dobbiamo fare meglio.”

Si può essere d’accordo. Il problema della disuguaglianza reale
di condizioni tra il vivere da uomo e il vivere da donna è innegabile
(è facile dire, soprattutto dalle nostre parti, i tempi sono cambiati!)
in ogni civiltà e paese sia pure in gradazioni molto diverse tra loro,
ed è anche innegabile che potrà essere superato solo con l’impegno
partecipe di uomini e donne insieme.
La parola d’ordine è “insieme”!

Eppure, nonostante l’impegno a superare insieme i condizionamenti culturali
ancora sfavorevoli per le donne, in realtà il fine resta sempre quello
di poter sostituire l’uomo con la donna là dove si esercita il potere, senza
modificare di un millimetro l’attuale struttura dei poteri, tutti o quasi
di struttura monocratica, almeno all’apice, struttura derivante direttamente
dal millenario dominio maschile.
“...gli uomini -continua Chimamanda- governano, nel vero senso della parola,
il mondo. La cosa poteva avere senso mille anni fa, quando gli esseri umani
vivevano in un mondo in cui la forza fisica era la qualità più importante
per sopravvivere. La persona fisicamente più forte aveva più probabilità
di diventare il capo...Oggi viviamo in un mondo profondamente diverso.
La persona più qualificata per comandare non è quella più forte.
E la più intelligente, la più perspicace, la più creativa, la più innovativa…
Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, innovativo,
creativo..”
Forse la soluzione non è chi, da solo, uomo o donna che sia, 
ma chi, insieme, un uomo e una donna. Non il monocratismo, ma il bicratismo.

O no?
Severo Laleo

mercoledì 19 settembre 2018

Lavoro domenicale, Napoleone e la sinistra




A proposito del dibattito sul lavoro domenicale/festivo,
per ora limitato al settore del commercio, intervenne, a suo tempo,
in linea generale, anche Napoleone, esprimendo 
-l’uomo, si sa, ha una sua grandezza!-
la sua visione etico-politica della società.

Così scriveva nel maggio 1807:
Più i miei popoli (ah, quanti leader ancora oggi gridano: il “mio popolo”!)
lavoreranno, meno ci saranno vizi.
(la salute morale dei popoli è sempre stato un vizio dei dittatori!)
Io sono l’autorità [...] e sarei disposto a ordinare che la domenica,
dopo le funzioni religiose, si riaprano le botteghe e le fabbriche,
e gli operai tornino al loro lavoro”.*

Forse, comunque giunga, una riduzione dell’orario di lavoro, 
con la sua conseguente idea politica di stabilire un limite 
all'attuale carico di lavoro, sempre più oppressivo,
a favore di un più ampio esercizio della libertà personale, 
senza dubbio, ha un’anima di sinistra.

O no?
Severo Laleo

* Ho trovato la citazione in Paul Lafargue, Diritto all’ozio; ovviamente
il testo tra parentesi è mio.

venerdì 14 settembre 2018

Lafargue, un rivoluzionario contro gli eccessi a difesa del limite





Paul Lafargue, “di formazione proudhoniana, marxista dagli anni sessanta,
organizzatore delle prime formazioni socialiste in Francia e Spagna,
intellettuale militante e polemista” (il giudizio è di Lanfranco Binni,
curatore del volume “Il diritto all’ozio”, appunto di Paul Lafargue),
così scrive ad inizio d’opera nella Dedica ai suoi collaboratori
del periodico parigino «L’Égalité»: “Cari compagni, con occhi attenti
e la passione in cuore siamo partiti in guerra contro la società capitalista
che schiaccia l’operaio come la mola il grano. I borghesi, nostri padroni,
questi figli degeneri dei Rabelais e dei Diderot, predicano l’astinenza.
La loro morale capitalista, penosa parodia della morale divina,
ha sommerso di anatemi le passioni umane; il loro ideale
è la trasformazione del produttore in una macchina che fornisca lavoro
senza tregua né pietà. Rialziamo la bandiera dei materialisti
del Rinascimento e del XVIII secolo, proclamiamo alla faccia di tutti i bigotti,
di tutti i collitorti della chiesa economica e della chiesa cristiana,
che la terra non deve essere più una valle di lacrime per la classe operaia,
che nella società che costruiremo, «pacificamente se sarà possibile,
altrimenti con la violenza», ogni passione umana sarà libera di esprimersi
perché «tutte sono buone per loro natura, dobbiamo solo evitarne il cattivo uso
e gli eccessi» (Descartes, Le passioni dell’anima). E per evitarne il cattivo uso
e gli eccessi bisogna che trovino un reciproco equilibrio liberandosi tutte.

A volte anche un libertario ateo può trovare sostegno in un filosofo
saggio e (pare) buon cristiano.
O no?

Severo Laleo