venerdì 29 maggio 2020

Promemoria coronavirus: 7. per una didattica senza voti



Chissà, forse è solo per un caso se in questi tempi di pandemia, e per ora anche 
di continua tristezza nell'ascolto dei quotidiani numeri del bollettino 
della salute pubblica, ripeto, forse è solo per un caso se un emendamento, 
a suo modo salutare, al "decreto scuola", già approvato in Commissione Cultura 
al Senato, ha tolto di mezzo nella scuola primaria l'altra tristizia dei numeri 
dei voti per la valutazione di alunne/i. Una tristizia targata Gelmini
ministra senza merito, ma impegnata per furore ideologico  a resuscitare 
con i numeri dei voti il merito tra chi? tra le/i bambine/i della scuola elementare, 
giustificando la sua riforma (si fa per dire!) con la sua grande idea di superare 
una volta per tutte l'egualitarismo del 6 politico del '68 (proprio così!).

Quando si parla di voti nella scuola, in verità non si parla mai solo dei voti, 
si parla piuttosto del senso stesso del fare scuola, di pratica didattica, 
anche se i proponenti dell'emendamento si limitano a non varcare il campo 
della "valutazione". Dichiara infatti la senatrice Vanna Iori, tra i proponenti 
dell'emendamento, all'Ansa: “L’emendamento prevede che nella scuola primaria 
i bambini non possano essere considerati dei numeri. Dare un 4 può essere 
un macigno pesante da comprendere mentre una valutazione più complessiva 
prende in considerazione le caratteristiche del bambino. Ovviamente vanno 
trovate le parole adeguate e la valutazione va fatta in termini di giudizio sintetico.
Il giudizio tiene conto della specificità e della individualità di ogni singolo 
bambino, mentre il voto numerico livella e rende tutti uguali, 
anche se ci sono diverse motivazioni dietro a quel voto”.
Riflessioni di buon senso, condivisibili, ma occorre andare oltre. 

La scuola italiana, nonostante le tante riforme, nonostante i corsi e i ricorsi 
su voti e giudizi, nonostante tutte le buone intenzioni, ha una sua continuità storica, 
impermeabile a ogni cambiamento, per quanto riguarda la didattica. 
Possono cambiare i programmi, i quadri orari, le ore di lezione per le singole 
discipline, i numeri degli alunni per classe, l'obbligo a fasi alterne 
di aggiornamento per i docenti, ma la didattica tradizionale non cambia, 
è ancora fondata sul trinomio lezione-interrogazione-voto, dove il terzo elemento, 
appunto il voto, in numeri o in parole di sintesi, continua a rappresentare 
il senso finale dell'intero processo e riscuote, da solo, l'interesse 
di alunne/i e genitori. 
Il buon voto, comunque conquistato, porta gioia a tutti; il voto cattivo, 
al contrario, genera, quand'anche gli interlocutori siano in grado di interagire, 
sconforto o definitivo o creativo di astuzie scolastiche, alla ricerca di mezzi 
di ogni tipo con l'esclusivo fine di arrabattarsi per una sufficienza, 
complici una serie di compromessi e al di là di un reale apprendimento. 
Può la scuola dell'obbligo del terzo millennio ancora reggersi 
su questa pratica didattica tutta centrata sulla valutazione 
comunque della persona in età di apprendimento, a prescindere 
da ogni altro elemento?  
A che pro? Per una classificazione del "merito"? Per distinguere brave/i 
da chi, per usare una parola molto legata ai voti negativi,  è svogliata/o? 
Nella scuola dell'obbligo non può essere consentito il risultato negativo; 
la didattica tradizionale del voto è sempre a rischio di risultato negativo. 
La scuola con tutta la sua dotazione di persone e strumenti 
ha un solo compito: condurre, anche per mano, rapidamente o lentamente, 
ogni persona, nessuna uguale a un'altra, a raggiungere il massimo possibile 
in apprendimenti e abilità. Non esistono scuse o fallimenti per questo compito 
nella scuola dell'obbligo fino ai 18 anni. Per una buona qualità del livello 
di istruzione per tutte le persone in età di apprendimento fino ai 18 anni, 
è necessario investire, investire, investire. Per la civilizzazione del Paese.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 6 maggio 2020

Il ritardo



Nooo! Stefania, hai visto il tabellone? 
Il nostro treno viaggia con 70’ di ritardo. 
Ci tocca aspettare. E vabbè!
Si va alla Feltrinelli, dai, un’ora di full immersion! 
Tanto la Feltrinelli non delude mai. 
Hai ragione, l’ultima volta ho scoperto un godibile Murakami, ricordi?
Dovresti leggerlo anche tu, Murakami.
La stazione non è più chiassosa come un tempo.
La dislocazione delle persone è a macchia di leopardo, 
almeno oggi, con tutti questi ritardi da controllare. 
Un gruppo con valigia qua, un altro là, 
con gli occhi ai tabelloni continuamente cangianti, 
mentre la voce degli avvisi sembra vagare in alto per il soffitto 
senza un destinatario, anche se ogni tanto pare catturare 
e bloccare per un attimo nella corsa qualche ritardatario 
dallo sguardo incerto. E capisci subito chi è, dal suo improvviso 
frenare con la testa tesa ad ascoltare. 
Non c’è più il via vai disordinato di una volta, 
ma un altro agitato disordine sì, insieme di movimento 
e di soste da impalati in ogni punto con capo chino 
a uno smartphone, silente ai colpi leggeri di diti a scorrimento veloce.
Per fortuna c’è ancora chi ama il piacere del cioccolato: 
anche là non una macchia, ma una vecchia fila, in calma attesa 
di una gioia al palato.
Ecco, Stefy, è pronto il nostro treno, al binario 13. Si parte.
Si corre. Un sole potente, sia pure al tramonto, schiaccia di luce 
intimidite nuvole bianche, basse filanti, mentre la campagna 
ti abbraccia con i suoi alti pini chiassosi, 
redarguiti da un filare cupo di cipressi, silenziosi e pazienti.
E sorge la luna, sembra una sfacciata; si mostra libera, 
non è composta. Ma le gallerie non perdonano, e la puniscono, 
chiudendola alla vista. Per fortuna, sollevandosi in cielo, 
guarda ora con più cognizione il mondo, 
e s'è fatta seria! Troppo.
Stefy, vieni, si scende.

venerdì 1 maggio 2020

Pro memoria coronavirus: 6. parità uomo-donna

Oggi Primo Maggio, giorno di mughetti a Marseille, è possibile leggere
sulla stampa due interventi molto utili per dare finalmente (almeno si spera)
una soluzione nuova, dopo la tempesta coronavirus, al gran tema della parità 
uomini/donne, soprattutto là dove in modo diretto o indiretto si preparano 
le decisioni più importanti per la vita sociale del Paese.
Il primo intervento è una sintesi, sia pur rapida, a cura di Stefania Di Lellis,
pubblicata su la Repubblica, di un recente studio, realizzato,
prima di questa crisi sanitaria, da un istituto di ricerca statunitense
specializzato, tra l’altro, in sondaggi di opinione.
Ebbene, secondo questo studio, nel mondo esiste un accordo quasi unanime
sull'importanza della parità uomo-donna.
In pochi altri campi abbiamo trovato una simile consonanza
come sull'uguaglianza di genere” ci dice la ricercatrice Janell Fetterolf,
una delle due autrici del rapporto. L’istituto ha sondato 38.426 persone
in 34 paesi e il 94% degli intervistati ha definito "importante" che le donne
abbiano gli stessi diritti degli uomini. Una percentuale che in Italia 
tocca il 95%.
L’altro intervento è una lettera aperta -un’utile sintesi si può leggere 
su rainews.ita cura di molte scienziate italiane, le quali, 
dopo aver ricordato la presenza maggioritaria delle donne 
tra il personale sanitario ("Le donne sono la maggioranza tra chi è
in prima linea contro il Covid”), così scrivono,
abbandonando la posizione di chi è sempre costretto a chiedere:
da ora in avanti pretendiamo che un equilibrio di genere negli organi
di rappresentanza e nelle commissioni tecniche e scientifiche
sia una priorità assoluta". E addirittura aggiungono, forse solo
per sottolineare una differenza di approccio, che "molti dei Capi di Stato
dei Paesi che hanno risposto meglio alla pandemia sono donne".

Queste scienziate raccontano, senza inutili polemiche, un dato di fatto,
e avrebbero ragione da vendere, anche se le donne non fossero
la maggioranza tra chi combatte a ogni livello il virus.

Quando ancora si dovrà aspettare perché una legge (e non l’attenzione
o, peggio, la generosità del governante di turno) stabilisca l’obbligo
della parità uomo-donna in ogni sede decisionale o consultiva 
delle istituzioni, a partire dal Consiglio dei Ministri?
Forse si potrebbe anche andare oltre, e porre al vaglio della critica storica
l’origine, l’evoluzione e, perché no?, i tanti guasti del monocratismo
(quasi sempre interpretato da un maschio) per aprire la strada
forme di potere a guida duale, con un uomo e una donna insieme.
O no?
Severo Laleo