lunedì 26 agosto 2013

Se la cultura di un Paese non riconosce i suoi maestri…grazie don Enrico Chiavacci



Nel vecchio scaffale bianco avorio, inizio novecento, mastodontico, 
dove per forza hai da collocare i libri in doppia fila, ogni volta devi scegliere, 
e con buona motivazione,  quali libri avere in vista.
E senza un disegno preciso ti capita di vedere in bella mostra avvicendarsi 
romanzi, saggi di politica, guide per viaggi, fascicoli di fogli di appunti,  
e qualche titolo tra i classici, anche questi secondo una rotazione casuale.
Eppure in questa girandola di libri, hai dei punti di riferimento sicuri, stabili, 
sicché, quando attraversi la stanza, il tuo sguardo individua subito i colori 
delle copertine inamovibili. E ti par di essere padrone del tuo pensiero.
Il mio colore è un verde non brillante, direi umile, ma fermo, di semplice brossura. 
Edizioni Cittadella. Assisi. Tre volumi in quattro tomi, con un titolo di altri tempi, 
temi di continua attualità, in serrate argomentazioni.
E’ un trattato di Teologia Morale. L’autore è Enrico Chiavacci
professore emerito di teologia morale nella Facoltà Teologica dell'Italia Centrale 
(Firenze). Una vita di studi e di impegno sui temi della pace e sui diritti dell'uomo.  
Ma la cultura  del nostro Paese tace, perché è povera ed è gridata. 
E non sa riconoscere i suoi maestri.
Eppure se le riflessioni di don Chiavacci avessero avuto una più larga 
e generale diffusione, soprattutto tra i giovani,
forse i comportamenti di arroganza facilona e arrivista, anche di gran parte 
della classe politica, sarebbero stati, all’origine, isolati e scongiurati. 
Perché un popolo educato, e quindi attento, ai diritti delle persone
non avrebbe mai sopportato Bossi ministro e premier Berlusconi.
Ma la cultura in questo nostro Paese è altro.
O no?

Severo Laleo

domenica 25 agosto 2013

Il Cavaliere Condannato e l’eversione dell’amore (e del denaro)



Al tavolo del Cavaliere Condannato, la classe dirigente (si fa per dire)
del PDL, al gran completo, ministri compresi (purtroppo),
affatto incuranti, questi ultimi, del giuramento pronunciato
nelle mani del Presidente della Repubblica
 (“Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne 
lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare 
le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione"),
dopo molte ore di riflessione (si fa sempre per dire), si concorda,
con l’unanimità dell’affetto (il PDL è pur sempre il partito dell’amore),
la linea. Dura. Alla Brunetta.
E Alfano, Vice Presidente del Consiglio, sì,  davvero,
Vice Presidente del Consiglio, ha l’onore (non può rifiutare)
della diffusione del verbo di Arcore.

E senza un minimo di riflessione, pur dell’esperto uomo di Stato,
e senza un minimo di pudore, pur del comune cittadino,
dichiara: “Noi, Popolo della Libertà, come sempre unito, compatto e deciso
a fianco del suo presidente Silvio Berlusconi
[scil. condannato per frode fiscale],
a cui è molto legato da indissolubili vincoli di affetto e di condivisione 
politica, tutti insieme rivolgeremo alle massime istituzioni 
della Repubblica, al primo ministro Letta e ai partiti che compongono 
la maggioranza, parole chiare sulla questione democratica
che deve essere affrontata per garantire
il diritto [sic!] alla piena rappresentanza politica e istituzionale
dei milioni di elettori che hanno scelto Silvio Berlusconi
[scil. condannato per frode fiscale]. 
La decadenza di Berlusconi [scil. condannato per frode fiscale] da senatore 
è impensabile".

Alfano, già ineffabile ministro all’oscuro di tutto, Vice Presidente 
del Consiglioper amore del suo leader (leader anche nella classifica 
per disponibilità di denaro), diventa il portavoce  (non può rifiutare) 
del principio neopopulista del "diritto"
(a quale stortura la forza dell’amore e del denaro non spinge il “diritto”!)
di essere legibus solutus per numero (ma quanti?) di voti.

Sembra un brutto sogno: alla fine l’eversione dell’amore (e del denaro)
potrà, sull’impianto costituzionale, forse più del terrorismo.
In verità solo nell’organizzazione mafiosa un Capo Condannato continua
a essere rispettato dai suoi accoliti e continua a essere amato dalla sua gente,
almeno fin quando continua a decidere ogni movimento della larga famiglia.

Ma nel laico Stato moderno, almeno a partire da Montesquieu, è diverso.
O no?
Severo Laleo




martedì 20 agosto 2013

Un Paese alla ricerca di un “limite”

Ogni Paese ha i suoi commentatori politici. Per carità.
E ogni Paese ha i suoi filosofi della politica:
chi, intellettuale dell’ambiguità, affogato nel presente,  
è tutto preso dal calcolare le “mosse” di potere
di piccoli uomini, e chi, intellettuale dell’osservazione,
proiettato nel futuro, è tutto preso dall’individuare strade
di una nuova visione politica per una moderna società.
Da noi, ad esempio, un Angelo Panebianco, tutto serio,
ragiona ancora, il 13 agosto, sul Corriere,
di un Berlusconi padrone della scena e di un Pd senza idee
e senza leader. E, quasi preoccupato, si spinge a “spiegare
i perché di una così vistosa contraddizione.
Così da una parte vede in BerlusconiImu alla mano,
il “protagonista principale della politica italiana di questa stagione”,
e, dall’altra vede aperta nel Pd  “la sfida
per la leadership”, nella quale, sentenzia profetico,
è ormai chiaro che Matteo Renzi e Enrico Letta ne saranno
i protagonisti principali”. Tutto qui. Più o meno.
Mah! Beati i suoi lettori, chiusi nell’orto
piccolo di casa con gli occhi bassi sui peperoni.

In Francia, al contrario, Alain Caillé, già da qualche mese,
non da solo, attraverso il “Manifesto convivialista”,  invita
a trovare idee nuove “per evitare la catastrofe, di fronte
alle quattro crisi – morale, politica, economica ed ecologica –
che minacciano l’umanità “.
E mentre in Italia si discetta di “grazia” per un leader
condannato per frode fiscale, nell’indifferenza amorale,
a destra, e a volte a sinistra, degli intellettuali della ambiguità, Alain Caillé
sostiene “tra le quattro crisi la più grave è certamente
la crisi morale, perché la sua soluzione condiziona tutte le altre...
..la condizione preliminare per un vero sviluppo sostenibile è
una democrazia sostenibile che ha bisogno anch’essa di una base 
etica sostenibileÈ una condizione affinché gli uomini e le donne 
politici non precipitino nell’hybris, nella “dismisura”, 
nella mancanza di limiti. E la traduzione concreta e visibile
di questa mancanza di limiti è la corruzione, sia finanziaria, 
sia tramite il potere”.

Forse in Italia, anche per colpa di un’intellettualità amorale,
si è un po’ perso il senso del limite.
E’ da recuperare, da parte di tutti.
O no?
Severo Laleo

giovedì 15 agosto 2013

Nessuno tocchi … la “grazia”



L’italiano Silvio Berlusconi, nei processi di trasformazione culturale
del nostro Paese, forse grazie al potere avvilente del denaro,
all’invadenza senza freni dei suoi media,
a giornalisti esperti in aggressioni ad personam,
alla venerazione gridata, e interessata, dei suoi “servi liberi”,
dovunque collocati, dalle aule parlamentari al governo,
(l’orgogliosa definizione di “servo libero” è dell’intellettuale,
brillante e profondo, Giuliano Ferrara e sfiora anche l’intellettuale
Gianni Letta, colto, moderato, garbato e devoto “mediatore”),
a una diffusa ignoranza, ad ogni età, dei fondamenti liberali
e costituzionali (per una maledizione italiana l’ “educazione civica”
nelle scuole è la “materia” più trascurata, se non assente),
alla facile esaltazione tutta italiana per il Capo di turno
(Bossi è stato un leader in questo Paese!)
a una pratica estesa, soprattutto al sud, dell’illegalità spicciola e volpina,
complice ignara di comportamenti mafiosi,
all’ebete sfizio, tutto italiano –molto spesso dei maschi-, di superare
in autostrada, comunque, in allegria, i limiti di velocità,
al vizio, che par felice, di raccontar barzellette e di ridere senza castigare,
all’adolescenziale vocazione a lodare/imitare ogni Casanova di paese,
grazie a tutto questo, e non solo,
l’italiano Silvio Berlusconi ha avuto il grande merito
(a mio avviso, purtroppo!)
di gestire/manipolare a suo piacimento i significati delle parole.

Grazie a questo suo grande merito, dai voti benedetto,
la libertà responsabile diventò licenza senza limiti,
il potere al servizio del Paese cambiò in arrogante maneggio,
la giustizia uguale per tutti corse a vestire taglie ad personam
l’eguaglianza … l’eguaglianza fu bandita ad arte dal vocabolario,
le tasse furono segnate dal marchio “arbitrio di Stato”,
l’evasione fiscale assurse al rango di difesa di libertà,
i condoni furono tombali e in regalo per gli innominabili,
il lavoro (arnese vecchio) scivolò verso l’asservimento (segno di modernità),
il merito mostrò presto, disponibile, i suoi lineamenti corporali e la sua docilità,
la famiglia della tradizione coprì  a paravento il mercimonio maschilista,
il voto del popolo, infine, nella generale complicità, servì a segnare,
con una croce, solo le nomine del Capo di turno
(e Grillo, non a caso, ha le sue ragioni).

Ora tocca alla “grazia”. Il bombardamento è già partito.
Affiora qua e là. Si saggia il terreno. Si discetta di condizioni,
tra strani traccheggi e ricerca sottile di cavilli di avvocati.
E, al servizio del capo, è partita anche la banda della mediazione.
Ma attenti tutti. Presidente della Repubblica e Comunità.
Il significato di “grazia” non può perdere la sua integrità.
Non può diventare “altro”, per il potere di una “forza politica”,
specie se pronta a ricattare il Governo.
Non può compiacere un condannato, chiunque sia il condannato.
La “grazia” ha una sua storia millenaria, complessa,
e, oggi, la difesa della sua integrità di senso è l’ultimo fronte
di resistenza per non perdere l’orientamento.
La “grazia” esprime il livello più alto di civiltà di un Paese,
tiene insieme la comprensione per la sofferenza di una persona,
privata della sua libertà, e il rispetto di una comunità
verso il “condannato”, degno del “nostro” perdono,
soprattutto perché ha colmato/colmerà, anche con il suo
comportamento, la frattura generata dal suo “reato”.
E la “grazia” non è solo prerogativa di un “Presidente”,
chiuso nel fortino del suo “potere esclusivo e incondizionato”,
quasi separato dalla sua Comunità,
la “grazia” è l’interpretazione del sentire profondo dell’intera Comunità,
disponibile sì a un atto di clemenza, dono gratuito,
ma libero, pulito, senza compromessi, senza contrattualizzazione,
senza scambio, senza segreti accordi, in trasparenza,
perché la “grazia”, comunque, non è un’indulgenza a compenso.
Soprattutto in questo caso di condanna per “frode”.

E pretende un risarcimento d’obbligo anche per la Comunità offesa:
la restitutio in integrum del significato delle parole.


O no?
Severo Laleo 


mercoledì 14 agosto 2013

Napolitano tra "spazi significativi" e "limiti" di legalità

In genere le dichiarazioni del Presidente della Repubblica,
in quanto dichiarazioni istituzionali, al di là delle nostre soggettive/emotive 
valutazioni, hanno il pregio della chiarezza e, per quanto siano libere 
e creative le interpretazioni, difficilmente generano contrastanti letture 
(e, in qualche caso, aspettative).
Invece, ieri 13 Agosto, nel giorno di Sant’Ippolito,
antipapa martire, condannato ai lavori forzati, questo
è successo. Se per la Repubblica, per il Corriere, per La Stampa,
per l’Unità semplicemente la dichiarazione di Napolitano
invita al rispetto/applicazione della sentenza, per il Giornale,
di proprietà dei Berlusconi, “il Pdl plaude a Napolitano”, perché,
al di là del rispetto/applicazione della sentenza, “ha aperto spazi significativi”.
E la lettura semplice s’apre a più complessi scenari: l’espressione stessa,
già nel felice suono di quegli “spazi significativi”, sembra offrire una generosa 
dimensione all’altra già ingegnosa espressione “agibilità politica”.
Torna quindi il solito dualismo di una stampa a cavallo, ancora irrimediabilmente, 
tra “servizio” e “servitù”.
Per questo si è in qualche modo obbligati a leggere direttamente
la nota di Napolitano, perché, se il Presidente parla anche per noi,
è bene cercare di capire le sue parole senza mediazioni e senza curvature 
e deviazioni interessate. La nota del Presidente, scartata intenzionalmente 
ogni inutile parola di premessa/contesto,  è immediatamente segnata
da una “preoccupazione fondamentale”, sua e, a suo dire, del Paese:
la difesa del Governo, un bene per tutti. In questo quadro di difesa dell’istituzione 
Governo inserisce la vicenda della sentenza definitiva di condanna nei confronti 
di Berlusconi, per escludere, con chiarezza, ogni ipotesi di scioglimento 
delle Camere proprio in relazione/contrapposizione alla sentenza. E scrive:
Di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo 
di applicarla, non può che prendersi atto. Ciò vale dunque nel caso 
oggi al centro dell'attenzione pubblica come in ogni altro”.
Un’ovvietà, e desta meraviglia il dovere di una sua conferma,
con una nota ufficiale, da parte del Presidente, quasi a immaginare 
un intero popolo ignaro dei principi fondativi di una moderna democrazia 
(in verità, il Presidente giustifica il suo intervento
di ovvietà, e sembra quasi scusarsi, per il fatto di essere stato chiamato in causa
in modo spesso pressante e animoso, per risposte o "soluzioni" 
che dovrei e potrei dare a garanzia di un normale svolgimento, 
nel prossimo futuro, della dialettica democratica e della competizione 
politica”). Chiarissimo.

Anzi, se è costretto ad aggiungere:
non deve mai violarsi il limite del riconoscimento del principio
della divisione dei poteri e della funzione essenziale di controllo 
della legalità che spetta alla magistratura nella sua indipendenza. 
Né è accettabile che vengano ventilate forme di ritorsione ai danni 
del funzionamento delle istituzioni democratiche”,
è perché ha reale timore del contrario e sa di persone pronte 
a “violare il limite”.
Infine la dichiarazione continua a richiamare norme
e regolamenti di legge per risolvere le altre questioni (espiazione della pena, grazia),
in ovvietà e senza ambiguità. 
Non c'è dubbio, per Napolitano gli “spazi significativi” sono tutti dentro
i “limiti” della legalità.
O no?
Severo Laleo

martedì 13 agosto 2013

Per una sovranità conviviale

In questo Blog di parole per una “cultura del limite” non può mancare questo “Manifesto del convivialismo” con la sua critica senz'appello nei confronti della  “dismisura a livello morale, ecologico ed economico”.
Forse solo con il rifiuto della “dismisura”, sarà possibile costruire una “sovranità conviviale”.
O no?
Severo Laleo


Un manifesto del convivialismo
Pubblicato: 13/08/2013 12:25 su Huffington Post
Sì, del convivialismo... In effetti il titolo non è dei più immediati, ma si sa che i manifesti circolano, almeno inizialmente, in ambiti ristretti. Si tratta di un breve documento scritto originariamente in francese, ma ora disponibile anche in italiano grazie all'edizione curata da Francesco Fistetti, e parzialmente consultabile on-line nell'edizione originale sul sito http://lesconvivialistes.fr
Il manifesto vuole essenzialmente mettere le basi teoriche per un nuovo impegno politico fondato sulla cooperazione, ma offre anche qualche indicazione più pratica sulle questioni prioritarie da affrontare dopo la fase dell'indignazione che ha segnato gli ultimi anni della nostra storia politica e sociale. L'obiettivo generale è quello di individuare i valori e i temi condivisi intorno ai quali costruire un'idea di società alternativa a quella attuale: una riflessione di fondo che ci permetta di uscire dalle secche della politica contemporanea, sempre più stretta tra una gestione del quotidiano tendenzialmente rinunciataria e un'insofferenza urlata, più distruttiva che costruttiva.
Il manifesto prova a riunire anime diverse di critica all'attuale sistema produttivo globale e di proposta di un'alternativa. Tra i firmatari troviamo, infatti, accanto a personaggi storici del movimento altermondialista come Susan George, esponenti delle varie correnti a favore della decrescita come Serge Latouche, filosofi come Edgar Morin e molti altri ancora.
Dopo decenni in cui i manifesti servivano essenzialmente a delimitare i confini della purezza di ogni piccolo (sempre più spesso microscopico) movimento politico o sociale, ecco un documento che si propone fin dalle prime parole di trovare un denominatore comune tra linee di pensiero diverse per cercare di trasformare la diversità e la conflittualità in un motore positivo e non distruttivo, "in una forza di vita e non di morte".
L'obiettivo è quindi quello di un nuovo "universalismo", anzi per dirla con gli autori, un "pluriversalismo", un "universalismo a più voci" nel quale siano rivendicati uguali diritti per tutti, ma siano anche riconosciute le diversità culturali alla base dei diversi modelli di società che si sono sviluppati in tutto il mondo.
Uno degli elementi che pare più rilevante - soprattutto dal punto di vista di un'associazione come Mani Tese che da decenni lavora sulla lotta alla fame e il cambiamento degli stili di vita - è la critica della dismisura a livello morale, ecologico ed economico. Riprendendo alcune tematiche del movimento per la decrescita, il manifesto parte dal presupposto che questo sistema economico è possibile solo perché la gran parte della popolazione mondiale non consuma quanto i paesi ricchi, altrimenti la crisi ecologica avrebbe già consumato il pianeta.
L'unica strada per uscire da questa contraddizione è ipotizzare una "prosperità senza crescita". È possibile, in sintesi, stare meglio senza continuare a consumare di più? Più facile a dirsi che a farsi, probabilmente, ma certamente alcune idee e alcune pratiche sono già in atto e vale la pena di dedicarci un po' di attenzione.
La questione chiave è quella della condivisione: è possibile evitare che ogni persona disponga privatamente di tutto ciò di cui ha bisogno, anche raramente, e invece organizzarsi in modo che alcuni oggetti, spazi o servizi siano condivisi?
In fondo in molte città europee troviamo già sistemi di condivisione dei mezzi di trasporto (biciclette e auto) e viene promosso il recupero e l'uso condiviso di spazi marginali o abbandonati (i jardins partagés francesi per fare un esempio, ma anche i progetti di riuso temporaneo del Comune di Milano). Internet, d'altra parte, ci mostra ogni giorno le potenzialità di una società della condivisione in termini di progresso delle conoscenze e circolazione delle informazioni.
Queste potenzialità della condivisione come strategia di uscita vera dalla crisi e di costruzione di una società più equa e, perché no, più avanzata non sembrano però essere state ancora colte fino in fondo dalla società contemporanea. Questo manifesto prova invece a metterle al centro della riflessione e dell'iniziativa politica.
Alla base di questa società della condivisione stanno le relazioni sociali, di qui l'accento del manifesto sulla "convivialità": se la società dei consumi è essenzialmente fatta di soggetti solitari che comprano tutto ciò di cui hanno bisogno, il modello di società proposto dal manifesto si fonda sulla cooperazione tra le persone, sulla riscoperta che "nulla si fa da soli e che tutti dipendiamo gli uni dagli altri". Bellissimo il sottotitolo del manifesto: "dichiarazione di interdipendenza".
Cooperazione, condivisione, interdipendenza, convivialità sono le parole chiave di un movimento culturale e politico che non ha la pretesa di costituirsi nell'ennesimo micro-soggetto formalizzato, ma "semplicemente" provare a influenzare lo scenario politico e "inventare altri modi di vivere, produrre, giocare, amare, pensare e insegnare. Convivialmente. Confrontandosi senza odiarsi e senza distruggersi". Forse può essere utile.
Valerio Bini

Presidente di Mani Tese

mercoledì 7 agosto 2013

Epifani o della normalità



Nel giorno di San Gaetano Thiene, il santo della Provvidenza,
sì di nobile famiglia, ma al servizio di poveri, esclusi e malati incurabili, 
il nostro Paese, provvidenzialmente e umilmente,
apre –si spera- il suo cammino verso la normalità.
Almeno in politica.
E questo grazie alle dichiarazioni del segretario del Pd,
Guglielmo Epifani, silente Napolitano.
Niente di che, sia chiaro. Solo parole normali,
anche se suonano pericolose nel Paese delle anomalie.
E del Pdl di Berlusconi.

Il normale Epifani, calmo e senza ambiguità, usa le parole
più semplici per  indicare la strada normale per chiudere la vicenda 
della condanna di Berlusconi: “La legge è uguale per tutti”.
E per dare senso concreto al principio generale, il normale  Epifani 
aggiunge: “Non vedo altra possibilità che prendere atto della sentenza
e degli effetti che produce, non ci sono strade ed è anche sbagliato cercarle. 
Ho preferito usare l'arma della chiarezza prendendomi qualche insulto 
di troppo, ma con tutto il rispetto che si deve alla storia e ai problemi 
e spesso anche ai drammi di una parte politica, le sentenze vanno rispettate 
ed eseguite. Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, 
per quanto possa essere dura.
In qualsiasi ordinamento democratico il principio di legalità
non può mai essere discusso”.
Proprio così, eh!
Infine, per evitare confusioni, ambiguità, incuicismi, giochi
delle parti, cointeressi nascosti, minacce, blandizie,
tutti strumenti di  lotta/accordi nella politica di questi ultimi vent’anni 
di incessante stravolgimento di regole e comportamenti,
il normale Epifani scandisce, senza prosopopea: “Il principio
di legalità in uno stato democratico viene prima di qualsiasi 
valutazione politica”, anche prima dell’esistenza del Governo, perché 
è il fondamento. Se annulliamo legittimità e legalità
non c'è più nessun caposaldo, per questo bisogna avere una linea 
rispettosa ma anche molto ferma. Io non vedo altre strade”.
Eh, no, troppo normale!
Forse, con Guglielmo Epifani, finalmente, anche nel nostro paese,
fa la sua apparizione, la normalità. Per un’epifania di civiltà.

O no?

Severo Laleo

domenica 4 agosto 2013

Non cambiano mai, solo i nomi




A leggere le chiacchiere morte del gossip politico,
i Franceschini, i Menichini, i Donini, e i tanti Birichini, ora,
nel momento della più grave crisi politica della Repubblica,
dal 1948 a oggi, una crisi partorita dal compiacente servilismo, 
maledizione di una nazione, di un’intera classe dirigente di destra 
nei confronti del suoleader”, carismatico sì, ma per il suo danaro,
s’agitano alla ricerca di una strategia (si fa per dire!) per aprire
la strada a Renzi, cioè a un altro “leader”, carismatico sì,
ma per il suo piglio/appeal mediatico, e continuare, così,
a tenere la politica nelle mani di un solo uomo, potente
in attrazione elettorale, abile a trasformare le persone in carne
ed ossa, al di là di tutti i reali problemi di vita, in semplice
e passivo “consenso elettorale”.

In questo contesto Renzi, l’uomo politico, non la persona
(per la persona esiste sempre la possibilità di cambiamento;
anzi, per produrre il cambiamento negli altri è bene imparare
a cambiare sé stessi insieme agli altri, non fuori dagli altri),
è solo un ignaro epigono del berlusconismo, nella sua versione 
allegra e sorridente della “Ruota della Fortuna”.
Ma si può?

Anche Vendola, a leggere  ieri Maria Teresa Meli, ha con Renzi
ottimi rapporti”. E, oggi, aggiunge: “Mi sento vicino a Renzi”.
Embè?

Evidentemente questa classe politica, ovunque collocata,
ancora non ha capito che non di nuovi nomi di “leader
ha bisogno il Paese (eppure sono davanti agli occhi
di tutti i loro disastri!), ma di una viva democrazia di persone,
di una democrazia tra pari, di uomini e donne, pienamente partecipata, 
fondata su partiti a struttura democratica e trasparente, 
per vincolo di legge, magari a vocazione referendaria, 
a struttura dirigenziale possibilmente bicratica, cioè non più con la figura 
di un leader monocratico quasi sempre maschio (l’uomo
della provvidenza capace di vincere le elezioni, a prescindere, 
raccogliendo comunque voti, è  la nuova versione
del qualunquismo/populismo), ma con una coppia, un uomo
e una donna, a dirigere, in spirito di servizio.

Utopia? 
Mah!, sembra una necessità nel processo di civilizzazione di una società.
O no?

Severo Laleo

sabato 3 agosto 2013

Una sola strada per la democrazia: legge elettorale e voto



Il Parlamento d’Italia, per un’ampia carenza, a nostra vergogna,
di cultura liberaldemocratica, nel mondo intero è noto, appunto,
per aver annoverato tra i suoi membri trecento quattordici “onorevoli” 
pronti a votare, senza fiatare, “Ruby nipote di Mubarack”.
E vabbuò, era una dimostrazione di affetto per il capo
dal carisma di macho italiano, ridente e danaroso.

Ma ora, quel capo, per sentenza definitiva, è un evasore fiscale.
E’ stato condannato a quattro anni, per truffa e frode fiscale,
il più odioso dei reati, quest’ultimo,  per una società civile
e solidale.
E, guarda un po’, per dimostrazione d’affetto, e solidarietà,
tutti i suoi “onorevoli”, di Camera e Senato, “suoi” davvero,
grazie al Porcellum, sono pronti a consegnare, nelle sue mani
di evasore fiscale, le proprie dimissioni. Così i “servi liberi”,
alla Ferrara, giunti al punto, scelgono la servitù.
E tra le istituzioni e il proprio capo/padrone, gli “onorevoli
del Pdl, tutti, anche le gentili signore, spesso in politica
più riflessive, scelgono il proprio padrone.
Per la cultura liberaldemocratica del nostro Paese è il disastro.
E’ un punto di non ritorno. Non negoziabile.
Né da Letta, né da altri, anche se è il Presidente della Repubblica.
Non è più possibile sorridere, non è più tempo di burlesque,
e non è più possibile, nemmeno per un napoletano,
anche se saggio e stimato, pronunciare, di grazia,
un “vabbuò, ja”!

Di fronte alla più fascista delle visioni della politica
(la scelta, cioè, di rispondere/ubbidire, a un capo
e non alle libere istituzioni, costituzionalmente garantite),
la nostra democrazia liberale, attraverso i rari partiti a struttura democratica, 
ha un solo dovere, subito, da domani,
senza perdere tempo a discutere con maestri di ricatto:
una nuova legge elettorale, per restituire tutta la sovranità
alle persone, e subito nuove elezioni.
E forse con settant’anni di ritardo il fascismo chiuderà
la sua avventura illiberale. E sarà il più grande grazie
a Berlusconi.

O no?

Severo Laleo

venerdì 2 agosto 2013

La Cassazione cancella il Porcellum



Berlusconi è stato condannato per frode fiscale.
Questa, oggi, è la verità processuale.
E per un patto civile, almeno fino a nuovi rivolgimenti rivoluzionari e violenti, chissà, la verità processuale,
con tutti i suoi limiti, diventa la verità di riferimento
per il rispetto/applicazione di conseguenti norme,
per altro già definite da altre leggi in vigore.
Non c’è più spazio, davvero, per nuove leggi
o per nuovi marchingegni ad personam.

Oggi, questa condanna, per l’Italia e per la persona Berlusconi,
rappresenta, oggettivamente, al di là delle personali professioni
di innocenza, sempre legittime, un trauma e una ferita.
Anche se, per la fortuna di tutti, e della democrazia,
si tratta di un trauma/ferita a chiara diagnosi.
Non c’è più spazio, davvero, per fumus persecutionis
o per nuove pratiche di vittimismo.

Il compito di una democrazia civile è, ora, intervenire
sia per dominare/lenire il dolore della persona,
sia per evitare una cancrena della società.
E, per questo, e insieme per continuare a tenere saldo
il lastricato sociale della convivenza civile, esiste
una sola strada, partendo da un punto fermo e irrinunciabile:
il rispetto della sentenza, da parte di ogni soggetto,
senza “confondere”, nel senso originario del termine
di “fondere insieme”, le vicende di responsabilità penali,
sempre personali, con vicende di responsabilità politica.
Non c’è più spazio, davvero, per nuovi scontri,
o scene di scontri, all’ultimo sangue.

Ma Silvio Berlusconi -sento dire da commentatori attenti
alla sua arte imbonitrice- è “tenace”, “non molla”,
resta in campo”, e nel suo discorso, a caldo,
non protesta amaro semplicemente la sua innocenza,
al contrario, continua a definire assoluta la sua “verità”,
e a caricare i suoi seguaci con illiberali proclami,
oltre il limite, contro una “parte” della magistratura.  
E così passa per tenacia, anche ammirevole, la sua interessata
ignoranza dei principi liberali. Per colpa di troppi.
E purtroppo non c’è amico in quel suo partito di “amici
–dov’è il moderato e colto Letta Gianni?- pronto a ribellarsi
di fronte alle sue ormai ventennali uscite di eversione.
Non c’è più spazio, davvero, per ritorni a slogan
consumati e defunti.


Un’ultima cosa. Il discorso di Berlusconi meriterebbe,
per la serenità di ogni cittadino tendenzialmente onesto,
sia un intervento, a chiara e calibrata difesa dei principi
della Costituzione, da parte del Presidente Napolitano,
giusto per evitare disorientamenti di massa,
sia l’abrogazione, con procedura d’urgenza, immediata,
del Porcellum, perché un Paese a civile democrazia
non potrebbe reggere di fronte all’insulto di veder nominate, 
complice il nostro voto libero, in Parlamento,
persone scelte ad libitum da un evasore fiscale.

O no?

Severo Laleo

giovedì 1 agosto 2013

Un giorno sarà democrazia civile senza Cassazione



Se siamo in tanti in trepidante e preoccupata attesa della sentenza
della Cassazione,  e se molti di questi tanti sono sordi tifosi
e partigiani irragionevoli, e se la vittoria dell’un fronte contro l’altro
è gravida di conseguenze istituzionali, la conclusione è terribile:
la democrazia civile in Italia non esiste, se molto ancora dipende
dal destino processuale di un uomo solo. E dalla Cassazione.

Sarà anche il traguardo finale del berlusconismo, anzi è,
ma il berlusconismo per vent’anni ha vinto, anche se non sempre nelle urne,
ma sicuramente, in continuità e in profondità, nell’immaginario 
e nei comportamenti di milioni di persone, consapevoli di tutto o di tutto ignare.

Una volta, quando l’”onore politico” era ancora importante,
un semplice avviso di garanzia, a volte anche ingiustamente,
era in grado di chiudere la “carriera” di un uomo politico.
E la logica istituzionale era semplice: chi sbaglia deve pagare.
Come dappertutto nei Paesi a civile democrazia.

Oggi (ma i segni di cambiamento per il futuro sembrano promettenti)  
la logica è diventata un’altra: chi sbaglia merita
un premio! E sì, perché noi, in Italia, abbiamo consentito
a “capi” e “capetti”, di ogni genere e specie, di “premiare
gli “erranti”, senza dar conto in trasparenza e probità.

E così, solo per citare qualche nobile fattore della nostra moderna inciviltà 
democratica, è stato possibile, nel nostro paese, accettare,
in silenzio, e con ambigue complicità di Stato, di:
1.      nominare Bossi, promotore del tricolore a carta igienica,
a Ministro della Repubblica;
2.      assistere alla nascita delle orgogliose truppe dei “servi liberi
a servizio di un carismatico Cavaliere (ma molto più
del carisma poté  il danarismo avvilente);
3.      subire una battaglia per la meritocrazia da parte di una classe dirigente “eletta” fuori di ogni valutazione di “merito”;
4.      contare trecentoquattordici “onorevoli” disposti a votare
con gli occhi della libertà della propria mente completamente chiusi 
per viltà (se si scriverà una storia dell’ignominia parlamentare,
la bufala Ruby avrà il “merito” -segno dei tempi- di occupare il podio più alto);
5.      sopportare, senza un minimo di ribellione civile, da parte soprattutto dei suoi colleghi, la presenza in Senato
di un tal Calderoli, autore spesso di “porcate”;
6.      aver votato più volte con un sistema elettorale incostituzionale,
allegramente e colpevolmente accolto dai “padroni” dei posti
in Parlamento, dovunque schierati, senza aver ideato, noi,
un civile sciopero del voto.

Ma  a cambiare le cose non basterà una qualunque sentenza
in Cassazione. L’onore politico è già morto da tempo.

Eppure, fiduciosi, continuiamo a sperare, almeno sul piano civile,
in una “rivoluzione liberale”, in una generale interiorizzazione, cioè, 
dei fondamentali principi liberali moderni, magari bipartisan,
a partire dai principi della nostra Costituzione
e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,
da insegnare/praticare a scuola, sin dall’infanzia;
e forse tra qualche generazione la politica diventerà davvero
un servizio alla collettività, senza quell’assurdo e puerile
e impolitico e incivile e provvisorio bisogno di “un”  leader,
ma semplicemente in trasparenza, e tra pari, e a organizzazione bicratica
cioè senza più un leader monocratico, spesso sempre maschio, 
ma con leadership di coppia, un uomo e una donna.
I rapporti nei numeri uomini/donne e la civiltà pretendono questo.
Per una sovranità conviviale.

O no?
Severo Laleo