venerdì 9 dicembre 2016

Un “nuovo” segno dei tempi: D’Alimonte, la scienza e l’ideologia





Roberto D’Alimonte e Vincenzo Emanuele, due scienziati 
della Politica, visto il risultato elettorale del referendum, 
scrivono un articolomolto interessante pieno di dati 
e di valutazioni. Ogni valutazione è giustificata dall’analisi 
dei dati. Un articolo utile da leggere e da commentare.
Eppure un lettore sereno non immaginerebbe, 
dopo aver seguito con interesse la sequenza dei dati, 
la conclusione degli autori scienziati. Eccola, per chiarezza 
(da notare il passaggio lessicale, in crescendo,
da Pd a Premier a Renzi) la lucida conclusione dell’analisi scientifica dei dati: “In conclusione, con il senno di poi 
si può dire che questo è stato un referendum che difficilmente 
il Pd poteva vincere. Troppi fattori hanno giocato 
contro il premier. Ma resta il fatto che 13 milioni di voti 
sono tanti. E da qui può ripartire la sfida di Renzi”.
Non è possibile! Se la scienza della Politica, dopo aver snocciolato
dati e, aver tra le righe, compreso, volenti o nolenti, il gran disagio
delle periferie e dei disoccupati, si preoccupa, prendendo parte malamente, di concedere un trampolino di lancio “per far ripartire la sfida di Renzi”. In verità non si tratta più di una sfida, la sfida 
è stata già consumata. Per il prof. Scapece, semplice osservatore, ma attento lettore dei fatti, si tratta al contrario solo di puro azzardo. Forse questo tipo di scienza della Politica è davvero 
un segno di questi tempi “nuovi”.
O no?
 
Severo Laleo

lunedì 5 dicembre 2016

Il leader solo, Agnese e la “nuova” Politica



E’ tarda serata. Il Leader è solo davanti al suo palco.
E continua a parlare da Leader, proprio nel giorno nel quale si celebra,
senza ombra di dubbio, la sconfitta (non si illudano gli altri Leader!)
del leaderismo italiano, inventato, all’improvviso, grazie a un vuoto della Politica,
nel centrodestra, da Berlusconi,  e ora, appunto, condotto a termine,
nel centrosinistra, da Renzi. Insieme, Berlusconi e Renzi,
cumulando sulla propria persona di “Capo” ogni “attenzione
hanno introdotto nella politica la categoria dell’amore/odio
per il Capo. E la parola “capo”, nel suo antico significato,
ha trovato persino la sua spendibilità linguistica, non a caso,
proprio nell’Italicum (art. 2, comma 8).  
Il senso diventa: o con me o contro di me, la negazione, 
cioè, nel profondo, dell’agire politico in sé.
E, per imitazione del berlusconismo, durante tutti questi anni,
si è visto un pullular di leader dappertutto, in ogni forza (si fa per dire!)
politica, purtroppo anche a sinistra, nella sinistra delle “persone”.
Il 4 dicembre segna la fine definitiva di un ciclo.

E’ possibile, ed è necessario, cambiare, perché il cambiamento
ha ora una sua data di inizio. E’ davanti a noi, e, soprattutto, nasce dal basso.
E contiene, è vero, insieme ad altre strumentali ragioni, a volte indifendibili,
il segno forte di un attaccamento sincero alla Costituzione del 1948,
a prescindere da vecchi e nuovi leader. Nella cabina conta solo 
la propria coscienza e non l'apparteneza a un leader. 
L'amore per la libertà è più diffuso di quanto si immagina.
Il cambiamento è costruire una comunità a sovranità conviviale,
una democrazia tra pari, in dialogo continuo tra le parti,
nel rispetto di una cultura del limite, con una leadrship di servizio 
e di coordinamento, precondizioni fondamentali per garantire il dovere 
di deliberare. L’impegno è di gran fatica e non tollera scorciatoie.
E non può essere affidato a una persona sola e a un solo sentire.
E in più il campo è pieno di faccendieri, sempre attivi.
Basta con schiere di sudditi plaudenti. E molto interessati.
In Campania, al De Luca delle fritture, il 68% delle persone ha detto
un No di “cambiamento”, a difesa di libertà e dignità.
E dignità e libertà passano per un lavoro non precario,
per un’occupazione piena, per un reddito sicuro per ogni persona
(e la sinistra ha una lunga storia, ora muta, a questo riguardo),
per un sistema fiscale adatto a una più equa redistribuzione di reddito,
per un sistema di regole per l’estensione della democrazia,
per un sistema sociale inclusivo, di cura e di sostegno,
per una scuola democratica già nella sua organizzazione,
per un investimento importante nella ricerca da aprire largamente
a persone giovani con reali prospettive di vita,
per un sistema di regole, infine, per la parità piena, senza quote,
di uomini e donne in ogni sede di decisione pubblica.

Il Leader è solo davanti al suo palco e apre il suo discorso alle dimissioni,
ancora reclamando, commosso, con enfasi, una sua personale diversità.
Una diversità non del tutto vera, se appena si guarda,
con una qualche attenzione ai dati, alla storia dei Governi in Italia.
Pienamente vera, al contrario, appare la sua personale soddisfazione
per leggi non note al grande pubblico, ma socialmente incisive
nel cammino della civilizzazione di un Paese. E ha ragione.

Eppure, proprio il leader-solo-al-comando esce di scena
aprendo con i suoi atti un nuovo ciclo politico. Almeno a chi sa intendere.
Il suo uscire dalla scena pubblica è  un entrare, con un abbraccio alla sua donna,
nella sfera del privato, dell’accoglienza pronta e piena,
è un passaggio dall’arroganza del comando, alla condivisione dell’amore,
dal palco del leader solitario, al rifugio di una condivisione d’affetti,
in un rapporto alla pari con la persona del suo mondo reale,
e finalmente, almeno nel privato, l’Io diventa un Noi.
Ora se anche i decisionisti dinamici tengono e curano il proprio rifugio,
e comprendono la parità della relazione, e la sua necessità,
qualche insegnamento in Politica si può ricavare, specie se la Politica 
è ancora relazione corretta tra persone e non rottamazione.
Non è forse l’essenza della Politica il garantire un “rifugio
a chi ne ha bisogno, chiunque sia, dovunque si trovi?

La scena è davanti a tutti.
In un angolo Agnese (e chiedo scusa se sembro usare il nome
con una confidenza indebita, ma qui Agnese è un simbolo),
silente e serena, con un suo sorriso tenue di dignità,
disegna, nella sua presenza/espressione, l’immagine della civiltà,
del grado di maturità di un processo di civilizzazione,
fuori da ogni campo di battaglia, e di pretesa di vittoria,
e, insieme, disegna il superamento definitivo del monocratismo,
dell’uomo solo al comando, del leaderismo maschio,
in nome di un’altra Politica, senza muscoli e senza l’ossessione
della vittoria. Perché alla fine la fragilità è per tutti.

Il Paese non cambierà se inseguirà un nuovo Capo,
il Paese cambia davvero se crescerà insieme nella responsabilità
imparando liberamente a “contare” sempre più nell’esercizio
del dialogo democratico. Meno capi e più scuola, più istruzione,
più educazione e, perché no?,  una “patente” con severo esame,
per amministratori pubblici. Guidare un Paese è più importante
di guidare un’auto. Forse il nuovo ciclo politico per una democrazia tra pari
avrà il volto/monito civilissimo di Agnese.
O no?

Severo Laleo

P.S. Si trascrive qui di seguito una utile nota trovata nel libro 
di Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, a pag 93: "E' stato spesso 
osservato che le donne svolgono una funzione catartica e quasi terapeutica 
di regolazione della vita emotiva degli uomini: calmano la loro collera, 
aiutano ad accettare le ingiustizie o le difficoltà della vita ecc. 
(cfr. per esempio N.H.Henley, Body Politics, Power,
Sex and Non-verbal Communication...

sabato 3 dicembre 2016

Calabresi, le macerie e i populismi isterici

Gentilissimo Direttore Calabresi,
pur apparendo Lei, a mio parere, in ogni occasione, persona educata, garbata,
quasi mai di parte (almeno non faziosa), ascoltabile con serenità,
con l’editoriale di oggi, pur insieme a una veritiera condivisibile analisi
sulle macerie della sinistra (anche se da analista, per capire un futuro
di concordia, avrebbe potuto aggiungere qualche parola sull’origine
di tanta determinata, rozza e amara rottura), Lei, ripeto, con l’editoriale di oggi,
butta all’aria, a mio leggere, la sua garbata educazione,  la sua “neutralità
di mestiere (la persona non è mai “neutrale”) e soprattutto la sua
ascoltabilità” serena.

D’accordo, dunque, sulle macerie della sinistra e sulla sua dispersione,
sul suo smarrimento. Ma quali le ragioni?
Se si è persa la coesione sociale e la capacità di progettare il futuro 
non è per un destino cinico e baro; è stata, da ultimo, la conseguenza di una scelta
politica di rottura chiara fin dall’inizio (il riferimento è alla galassia del centro
sinistra). Vede, gentilissimo direttore, quando un aspirante al Potere 
guarda le altre “persone” (so che dà al termine persona il suo pregno 
significato filosofico e giuridico), sia pure avversari, sotto la luce 
della “rottamazione” e dell’”asfaltatura”, non c’è da essere sereni (infatti!).
E la stampa, a suo modo, lodò questo approccio in qualche modo violento 
e populista al Potere. E non solo la stampa: la lode giunse anche da tanti delusi, 
giustamente, di una politica fuor di senno, lontana dai problemi reali delle persone.
Ma chi ama rottamare e asfaltare (non parlo di Renzi, la “persona” 
Renzi non c’entra, c’entra la “Politica”) per il bene pubblico è una rovina, 
è la perdita del dialogo legittimante, è un cedere alla forza, sino ad alimentare 
un’idea di “eliminazione” politica. Anche con "imboscate" (ma Prodi perdona!)
A rovinare la campagna elettorale non è stata quindi la materia del bicameralismo 
(non bisogna aspettare tempo per veder bene), ma proprio il carico aggiunto 
di “significati altri”; ed è qui che bisogna fermarsi e esercitare il pensiero 
critico per capire il perché di una divisione di una comunità, della freddezza triste 
tra amici, di discussioni antipaticamente litigiose in famiglia. E l’estensione 
dell’analisi è utile, specie se si crede nella possibilità di ricucire il Paese, 
soprattutto con l’obiettivo di evitare che l'idea stessa di futuro possa essere 
declinata in nome di un interesse personale e mai al plurale”.
E fin qui, gentilissimo direttore, la sua ascoltabilità è garantita, parzialmente 
condivisibile ma ancora serena. Eppure all’improvviso il suo tono cambia, non è più
di analisi, ma diventa quasi di invettiva e il suo garbo e la sua neutralità vanno
in pezzi. E scrive, dimenticando le “persone” in carne ed ossa, di “retorica 
della resa dei conti, dei tavoli da rovesciare, dei palazzi da abbattere” 
che “ha annebbiato le menti e conquistato le viscere. Una retorica che 
andrebbe respinta con fermezza, con razionalità e con cui non è possibile 
flirtare, anche perché è una bestia (sic!) che non si fa addomesticare 
ma sbrana (sic!) chi prova a giocarci”. 
Direttore!
E continua: “Se a sinistra non si mette mano a tutto questo, il rischio 
è di consegnare l'Italia alla sfida tra due populismi, uno più propriamente 
di destra - con la scommessa di Matteo Salvini di conquistare l'intero 
campo conservatore grazie alle primarie - e uno post ideologico 
rappresentato dal movimento di Beppe Grillo. Due populismi isterici (sic!)…”
Anche qui forse avrà qualche ragione di preoccupazione, perché la diffusa rabbia 
è cattiva consigliera, ma dimentica che in Italia i populismi sono tre:
il primo, di governo, praticato per tre anni da una maggioranza non nata 
da una scelta democratica del popolo, insegue la buona amministrazione 
alla De Luca;
il secondo, per ora urlato dalla Lega, con gravi atteggiamenti contraddittori 
contro l’idea universale di “persona” per proteggere altre “persone” 
sulla base di un territorio, insegue la chiusura della sicurezza;
il terzo, irridente nelle piazze con il vaffa, ha generato a Torino 
l’Appendino e a Roma la Raggi (e non sembrano per ora “sbranare” nessuno).

Perché una società possa “tenere” in termini di coesione sociale e di rispetto
reciproco tra persone, il dialogo deve essere tra tutti, perché, per usare 
le parole di Guido Calogero,  “l´unità della democrazia è l´unità degli uomini 
che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda 
e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze.”

Per questo non perda la sua “neutralità” di mestiere con ritenere 
il SI preferibile al NO, solo perché il NO, ammonisce, “se lo intesterà tutto Grillo,
pronto a lanciare la sua sfida finale al Pd, e non ci si illuda che possa essere
un momento catartico di rifondazione di una nuova sinistra ideale”.
Forse, gentilissimo direttore, la democrazia è l’essenza di questa sfida 
(sempre se nel rispetto di una cultura del limite nonviolenta).
O no?
Severo Laleo

giovedì 1 dicembre 2016

“Nuova” democrazia: l’elìte dei pochi non gradisce il clic dei molti



La stampa online riporta queste parole di Giorgio Napolitano:
In questo momento storico abbiamo bisogno di alta professionalità 
e non di scegliere persone e dettare gli indirizzi attraverso un clic...
Non capisco come si possa abbracciare questo pseudometodo 
di coinvolgimento popolare. Bisogna reagire a questa ondata 
semplificatrice e in sostanza mistificatrice: non esiste politica 
senza professionalità come non esiste mondo senza elìte”.
Pensiero chiarissimo. E anche il riferimento, sempre irrispettoso, 
soprattutto con quel parlare di mistificazione.
E spiega infine il perché del suo convinto e partecipe e paterno SI
al referendum. Per Napolitano con il SI al referendum finalmente
il sistema politico italiano avrà più facili, e senza troppi ostacoli/orpelli,
modalità per chiamare all’opera (di governo) persone di alta professionalità
e così il nostro piccolo mondo (sociale) potrà riconoscere la sua elìte!
Il prof. Scapece, so con certezza, pur essendo stato con il Giorgio nel PCI,
non sarebbe d’accordo con l’ex Presidente Napolitano. 
Il prof. Scapece è convinto, sin da tempi insospettabili,
e prima dell’irrompere del M5S, che per le decisioni pubbliche
uno vale uno” (essenzialmente principio della filosofia personalista:
ogni persona “vale” ed è irripetibile) e addirittura auspica,
per una democrazia senza sospetti e tra pari,
l’introduzione del sorteggio nella scelta delle persone a ruoli
di responsabilità politica, perché solo il sorteggio, insieme alla parità di genere,
è strumento determinante per frenare l’ambizione violenta della corsa
verso l’agguantare il Potere, sempre più oggi nel mondo appannaggio
di personaggi di ben altraprofessionalità”, sempre membri di un’elìte,
ma che con un clic, quasi certamente, non sarebbero mai passati.

Forse  Giorgio Napolitano con le sue chiarissime parole,
si fa per scherzare, dai, ha voluto  rendere omaggio a un famoso
Marchese del cinema italiano, esprimendo con parole eleganti
(ogni mondo ha la sua elìte) la sua continuità con il pensiero politico
del Marchese del Grillo. E tutto torna.
O no?

Severo Laleo