sabato 2 giugno 2018

Il Limonov di Carrère: un affare!




Caro prof. Scapece,
è un po’ che non ci si sente. Come va? E il tuo ginocchio?
Che vuoi, dopo i 65 anni, con la pensione, cominciano i piccoli guai,
quando va bene. Meno male che si legge ancora.

Sai ho finito di leggere l’altro giorno il “Limonov” di Emmanuel Carrère.
Vuoi sapere? In verità, una qualche delusione m’è rimasta addosso,
specie a lettura inoltrata, fino a quasi pentirmi di aver partecipato
alla giostra del suo successo letterario. Non posso tornare indietro.

Carrère inventa apposta il “suo” Limonov, almeno s'avverte,
e attraverso il racconto della di lui vita
costruisce un testo in molte pagine godibile, a volte ben informato,
ma sempre giocato sul versante di un linguaggio/mondo
ai limiti di una disfunzionale volgarità generale. (p. 124)
Carrère ha voluto scrivere un libro da successo di vendite; 
Limonov gli è servito e basta; e peccato non sia stato il suo eroe 
ammazzato da Putin come Litvinekenko, così il libro avrebbe venduto 
non dieci, ma cento volte di più in tutto il mondo”. (p.355)
E a Limonov il “servizio” di Carrère ha regalato una fama enorme.
Convenienze reciproche tra un maschio scrittore di buona famiglia,
attento al successo (la logica del fallito/non fallito domina il suo mondo)
e un maschio povero poeta di periferia, ansioso di “andare lontano”.

Per capire il contesto culturale e personale dell’interesse di Carrère
per Limonov basta leggere quanto l’autore scrive a p. 125,
dove chiaro è l’obiettivo fondamentale della vita sua e di Limonov:
non ridursi a “comparsa”. Un libro autobiografico
a coprire una strumentale biografia.

Naturalmente so quanto tu sei più equilibrato nel valutare i testi,
ma qui voglio comunicarti brevemente solo le mie impressioni.
Che vuoi che ti dica: ho trovato sparso per ogni pagina 
un maschilismo infantile (spesso falso, ma autentico quando inespresso),
espressa un’idea di guerra oltre ogni limite anche ieri (p.125),
reale il disprezzo sentito per “l’informe massa dei perdenti” (p.140),
cosificate le presenze femminili, e inesistente un’idea di intelligenza
senza pietà (“Un cattivo figlio? Forse, ma intelligente, e quindi senza pietà.
La pietà rammollisce, la pietà avvilisce...p. 208).
E il tutto in un continuo tentativo, a volte proprio noioso,
di piegare il suo stile a "colpire" il lettore.

Un libro scritto ad arte per fare un affare. Ed è stato anche insignito
del Prix Renaudot: mah!
Forse noi della generazione del ‘68, non comprendiamo
tutta questa esaltazione dell’”energia”, delle “avventure straordinarie,
scandalose, sordide”, in una parola, tutto questo straparlare dell’ego,
perché abbiamo coltivato altri sogni e ora siamo (si dice ancora?) out.
O no?
Severo Laleo



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