Gli economisti e gli studiosi di diritto
del lavoro di formazione
liberale e di comportamento conservatore,
che oggi si dicono riformisti
solo per realizzare riforme sì, ma di ritorno
al passato,
a prima cioè dello Statuto dei Lavoratori, tentano con numeri e
tabelle
di spingere il governo di centrosinistra a realizzare appunto la “riforma”
del lavoro per risolvere la crisi economica e occupazionale;
e il nostro Premier,
socialista, ha già da tempo scelto questa strada,
a suo dire, moderna, egualitaria,
senza vincoli frenanti, convinto
di un radioso futuro per l’Italia; e non ha
remore a superare quell’antico
disegno, pur socialista, degli anni settanta di
restituire/garantire dignità
a ogni lavoratore/lavoratrice, oggi diventato un freno
per la crescita
occupazionale. Le convinzioni son convinzioni e non distinguono
tra destra e sinistra!
Gli economisti e gli studiosi di diritto
del lavoro di formazione
per così dire di “sinistra” e di comportamento sindacal-progressista,
votati a difendere le conquiste del passato in quanto conquiste
di libertà e
dignità, pur trattando tabelle e numeri, non riescono
più a convincere il
governo amico di centrosinistra a estendere,
senza riduzioni di sorta, proprio quelle garanzie di dignità e
libertà
di un tempo a ogni nuovo lavoratore/lavoratrice del nuovo Millennio,
soprattutto a partire dal superamento del precariato, quale segno vivo
–il superamento- di
civiltà e di inveramento della democrazia.
Ma a bloccare la strada per una vera eguaglianza di diritti e condizioni
nel lavoro è il cedimento verso l'ideologia della Libera Crescita.
Intanto il gioco di botta e risposta, misto di informazione
e propaganda,
più abile e subdolo da parte del governo, e più scontato e ingenuo
da parte sindacale, già minaccia la democrazia della trasparenza
e della
partecipazione. E in questo gioco le persone in carne ed
ossa,
tutte giovani persone, Luigi, Anna, Francesco, Maria, Peppe perdono
la
propria identità, chiusi nei vagoni irrespirabili della precarietà.
Non servono numeri e tabelle per dire
quanto la precarietà
di queste giovani persone abbia aggravato la crisi: Mario,
ad esempio,
complice la solitudine della precarietà, non si è sposato, non
ha/vuole figli,
non compra casa, non affitta un appartamento tutto per sé,
non
ha un progetto definibile/definito, non gli interessa la macchina,
sopporta a
stento le istituzioni, giusto per educazione democratica,
incassa anche, lascia
fare, gli ottanta euro, insieme a qualche spicciolo
genitoriale, ma per
resistere non parla del suo lavoro a tempo
perché non gli appartiene, non parla
del suo salario, perché è misero,
è stanco di lottare, e frequenta coetanei/e
negli apericena e nei viaggi,
tanto per guardar lontano, affondando ora tra tavolini di plastica
ora tra e cielo e mare l’opprimente precarietà.
Ma per risolvere la crisi –ormai gridan
tutti- la flessibilità/precarietà,
ampia e ancora ampia in entrata, è
d’obbligo, fondamentale
per la ripresa economica, e la residua tutela dell’art.18 è un
ostacolo
da abbattere lungo la strada felice della futura piena occupazione.
E per questo obiettivo, senza il minimo dubbio,
uomini e donne di governo
risuscitano un’antica retorica, un po’ rozza e di
mitezza assente:
“andiamo avanti”, “tireremo diritto”, “non molliamo”,
manca solo “chi
si ferma è perduto” e la guerra è servita.
Si va alla guerra comunque. E la guerra ha
già i suoi due fronti:
da una parte i fautori della libertà di assumere e
licenziare
(qualcuno, nonostante la presenza socialista, potrebbe dire,
finalmente
chiara è la parte destra), dall’altra i fautori del diritto di
lavoratori/lavoratrici
di non essere mai licenziati senza una giusta causa
(e
qualcuno potrebbe dire, finalmente chiara è la parte sinistra).
Eppure anche contro questa guerra esistono e si battono i pacifisti
(anche se
hanno nomea di essere di sinistra!), che insistono sul dovere
del dialogo e
dell’accordo anche tra le parti in reale conflitto,
tutti i datori di
lavoro, italiani, stranieri e delocalizzati, e tutti i lavoratori,
stabili, precari e alla
ricerca di occupazione, nel discreto e generoso supporto
del Governo e
nell’attenzione competente e risolutiva del Parlamento.
Perché il punto “limite”, oltre il quale a nessuno è consentito andare,
soprattutto
quando in gioco è la vita delle persone,
è sempre il rispetto dell’ homo
dignus, anche nel lavoro.
Sia per l’estensione della civiltà, sia per
suggerimento etico-giuridico
dell’art.1 della Dichiarazione dei DU.
O no?
Severo Laleo
Nessun commento:
Posta un commento