sabato 20 settembre 2014

Art. 18? Una questione di dignità



Gli economisti e gli studiosi di diritto del lavoro di formazione
liberale e di comportamento conservatore, che oggi si dicono riformisti 
solo per realizzare riforme sì, ma di ritorno al passato, 
a prima cioè dello Statuto dei Lavoratori, tentano con numeri e tabelle 
di spingere il governo di centrosinistra a realizzare appunto la “riforma” 
del lavoro per risolvere la crisi economica e occupazionale; 
e il nostro Premier, socialista, ha già da tempo scelto questa strada, 
a suo dire, moderna, egualitaria, senza vincoli frenanti, convinto 
di un radioso futuro per l’Italia; e non ha remore a superare quell’antico 
disegno, pur socialista, degli anni settanta di restituire/garantire dignità 
a ogni lavoratore/lavoratrice, oggi diventato un freno per la crescita 
occupazionale. Le convinzioni son convinzioni e non distinguono 
tra destra e sinistra!

Gli economisti e gli studiosi di diritto del lavoro di formazione 
per così dire di “sinistra” e di comportamento sindacal-progressista, 
votati a difendere le conquiste del passato in quanto conquiste 
di libertà e dignità, pur trattando tabelle e numeri, non riescono 
più a convincere il governo amico di centrosinistra a estendere, 
senza riduzioni di sorta, proprio quelle garanzie di dignità e libertà 
di un tempo a ogni nuovo lavoratore/lavoratrice del nuovo Millennio, 
soprattutto a partire dal superamento del precariato, quale segno vivo 
–il superamento- di civiltà e di inveramento della democrazia.
Ma a bloccare la strada per una vera eguaglianza di diritti e condizioni 
nel lavoro è il cedimento verso l'ideologia della Libera Crescita.


Intanto il gioco di botta e risposta, misto di informazione e propaganda, 
più abile e subdolo da parte del governo, e più scontato e ingenuo 
da parte sindacale, già minaccia la democrazia della trasparenza 
e della partecipazione.  E in questo gioco le persone in carne ed ossa, 
tutte giovani persone, Luigi, Anna, Francesco, Maria, Peppe perdono 
la propria identità, chiusi nei vagoni irrespirabili della precarietà.
Non servono numeri e tabelle per dire quanto la precarietà 
di queste giovani persone abbia aggravato la crisi: Mario, ad esempio, 
complice la solitudine della precarietà, non si è sposato, non ha/vuole figli, 
non compra casa, non affitta un appartamento tutto per sé, 
non ha un progetto definibile/definito, non gli interessa la macchina, 
sopporta a stento le istituzioni, giusto per educazione democratica, 
incassa anche, lascia fare, gli ottanta euro, insieme a qualche spicciolo 
genitoriale, ma per resistere non parla del suo lavoro a tempo 
perché non gli appartiene, non parla del suo salario, perché è misero, 
è stanco di lottare, e frequenta coetanei/e negli apericena e nei viaggi, 
tanto per guardar lontano, affondando ora tra tavolini di plastica 
ora tra e cielo e mare l’opprimente precarietà.  
Ma per risolvere la crisi –ormai gridan tutti- la flessibilità/precarietà, 
ampia e ancora ampia in entrata, è d’obbligo, fondamentale 
per la ripresa economica, e la residua tutela dell’art.18 è un ostacolo 
da abbattere lungo la strada felice della futura piena occupazione.
E per questo obiettivo, senza il minimo dubbio, uomini e donne di governo 
risuscitano un’antica retorica, un po’ rozza e di mitezza assente: 
andiamo avanti”, “tireremo diritto”, “non molliamo”, 
manca solo “chi si ferma è perduto” e la guerra è servita.

Si va alla guerra comunque. E la guerra ha già i suoi due fronti: 
da una parte i fautori della libertà di assumere e licenziare 
(qualcuno, nonostante la presenza socialista, potrebbe dire, finalmente 
chiara è la parte destra), dall’altra i fautori del diritto di lavoratori/lavoratrici 
di non essere mai licenziati senza una giusta causa 
(e qualcuno potrebbe dire, finalmente chiara è la parte sinistra).
Eppure anche contro questa guerra  esistono e si battono i pacifisti 
(anche se hanno nomea di essere di sinistra!), che insistono sul dovere 
del dialogo e dell’accordo anche tra le parti in reale conflitto, 
tutti i datori di lavoro, italiani, stranieri e delocalizzati,  e tutti i lavoratori, 
stabili, precari e alla ricerca di occupazione, nel discreto e generoso supporto 
del Governo e nell’attenzione competente e risolutiva del Parlamento.
Perché il punto “limite”, oltre il quale a nessuno è consentito andare, 
soprattutto quando in gioco è la vita delle persone,
è sempre il rispetto dell’ homo dignus, anche nel lavoro.
Sia per l’estensione della civiltà, sia per suggerimento etico-giuridico 
dell’art.1 della Dichiarazione dei DU.

O no?

Severo Laleo

Nessun commento:

Posta un commento