martedì 8 maggio 2012

L’urlo violento della crisi e la sordità "tecnica" del Governo



Il Presidente del Consiglio Monti, parlando dei suicidi legati 
alle conseguenze della crisi economica, ha dichiarato:
 Le conseguenze umane della crisi dovrebbero far riflettere
chi ha portato l’economia in questo stato
e non chi da quello stato sta cercando di farla uscire”.
In teoria, non ha tutti i torti il Presidente del Consiglio
(la crisi non è sua, viene da lontano), e non ha, il Presidente,
responsabilità diretta nella mala gestione dell'economia 
di ventata berlusconiana, aggravata dalla sfrenata corsa, 
corruttiva e ignorante, al danaro dei suoi alleati e servi liberi,
eppure parla solo da tecnico, anzi da professore, 
pronto a rimproverare altri e incapace  di offrire risposte immediate a chi è nel bisogno.
Quanto decisionista e rapido è nell’imporre, sul piano economico, 
i “tagli”, tanto perplesso e lento è nel trovare, sul piano umano, 
i nuovi “orditi”.
Se, con tempismo, è riuscito a reperire e nominare alti Supertecnici
pronti subito, con urgenza, a risolvere problemi di “conti”,
perché il nostro Presidente ancora non riesce a scovare,
per risolvere problemi di “persone”, altri Supertecnici,
magari solo per aprire un Centro d’Ascolto,
per dare una speranza a tutte le persone “in grave crisi”?
Forse perché il “servizio” e, a volte, il “dono” 
non sono affar di governo.
O no?
Severo Laleo

domenica 6 maggio 2012

Solitudine, disperazione, suicidio e Centro d’Ascolto (o che so io)




Caro Presidente Monti,
non è il caso questa volta di trovare le giuste parole per chiedere un Suo intervento. La situazione è drammatica, ora,
e molto pericolosa diventerà, per il futuro, per l’effetto trascinante, verso l’estrema soluzione, definitiva, per i più fragili.
Non so se esistono studi circa l’incidenza delle crisi economico-sociali sul numero dei suicidi, né so di studi circa le misure per bloccare il fenomeno.
Ma so quante sono ad oggi le persone suicide per crisi,
un numero inaccettabile per una società civile, e non solo,
e sono imprenditori, lavoratori autonomi, dipendenti, disoccupati.
Al Nord e a Sud. Senza differenze d’età. E sono (forse) tutti uomini, “maschi”.
Questi semplici dati segnano, tragicamente, 
1.      la fine di una pratica culturale antica dell’italianità, l’arte di arrangiarsi; 
2.      la solitudine del “maschio” (è maschile l’idea di risolvere il problema in solitario orgoglio), incapace di trovare sostegno di donna, alla pari.
Trova, finalmente, questo Paese, purtroppo nella maniera più tragica, la dignità dell’esistere. E conferma insieme l’esistenza di “maschi” fragili e chiusi in sé, nell’impotenza della solitudine, a prescindere, per cultura.
Lei, da poco, con tempismo, da economista, da professore, ha trovato e nominato Supertecnici per risolvere problemi 
di “far di conto”, utili, per carità, al Paese tutto, 
ma, per le persone disperate, La prego, scovi subito, 
da uomo di cultura,  da padre di famiglia, altri Supertecnici 
per aprire un Centro d’Ascolto (è solo per aprire una possibile, tra tante, strada di speranza), per dare risposte utili a tutte le persone “in grave crisi”.
Con quell’affetto imprescindibile a viver l'empatia,
La saluto caramente,
Severo Laleo

martedì 1 maggio 2012

L’incapacità opaca del maschio e la libertà lucente della donna



Il maschio cresce, ancora oggi, con l’idea, d’antica tradizione culturale,
di diventare “capo” e “padrone”, abile/pronto a decidere
per il “bene” suo e degli “altri”, in autonoma solitudine,
e non sopporta conflitti e contraddizioni al “suo” volere,
specie nel fragile campo dei sentimenti  (quando anche a scuola 
si aprirà un qualche spazio all’educazione sentimentale!),
e non è per niente abituato, se non espressamente educato, alla codecisione,
alla pari, specie con l’altro sesso.
E la violenza, facile, entra a dirimere i contrasti.
Ma la società tutta, ancora oggi, in Italia e non solo, è strutturata
sull’idea di “mondo” costruita e organizzata dal maschio,
con la “sua” visione, con i “suoi” riti, con la “sua” concorrenza,
senza limiti.
Ed è questo il peso più insopportabile del maschilismo,
e della sua intrinseca violenza,
anche quando a interpretare/esercitare strutture “maschili” è una donna.
Il maschio, anche se ben educato, ha ancora un’opaca incapacità
a costruire rapporti alla pari con persona diversa dalla “sua” identità:
non esistono, così, rapporti alla pari tra ricchi e poveri, tra uomini e donne,
tra “capi” e “sudditi”, tra “normali” e “diversi”.
Anche se l’idea di “persona” esiste da un po’ di tempo!
Siamo il paese, del resto, unico al mondo, dei “servi liberi”,
di chi, cioè, “libero” decide di farsi “schiavo”; è come dire:
se una donna diventa “serva libera” di un uomo/capo/padrone,
tutto s’aggiusta e cessa anche ogni violenza.
Ma per fortuna la libertà delle donne è lucente
e forse illuminerà il mondo nuovo.
O no?
Severo Laleo

Anche per questo accolgo l’appello/invito contro il femminicidio


Cinquantaquattro. L’Italia rincorre primati: sono cinquantaquattro, dall’inizio di questo 2012, le donne morte per mano di uomo. L’ultima vittima si chiama Vanessa, 20 anni, siciliana, strangolata e ritrovata sotto il ponte di una strada statale. I nomi, l’età, le città cambiano, le storie invece si ripetono: sono gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità. E’ ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l’orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell’indifferenza. Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi FEMMINICIDI. E’ tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà.
E ancora una volta come abbiamo già fatto un anno fa, il 13 febbraio, chiediamo agli uomini di camminare e mobilitarsi con noi, per cercare insieme forme e parole nuove capaci di porre fine a quest’orrore. Le ragazze sulla rete scrivono: con il sorriso di Vanessa viene meno un pezzo d’Italia. Un paese che consente la morte delle donne è un paese che si allontana dall’Europa e dalla civiltà.
Vogliamo che l’Italia si distingua per come sceglie di combattere la violenza contro le donne e non per l’inerzia con la quale, tacendo, sceglie di assecondarla.

1° Maggio 2012. Festa dei lavoratori



...basta, riprendiamoci la parola, 
e la vita:
quest'anno la festa ai lavoratori
gliel'hanno già fatta!
O no?

Severo Laleo

domenica 29 aprile 2012

Per un’ ”economia al servizio delle persone”


 
Trascrivo qui di seguito, dal sito http://www.syloslabini.info/online/,  il
Manifesto per la libertà del pensiero economico.
Contro la dittatura della teoria dominante e per una nuova etica”,
per una riflessione critica,  lungimirante, prudente, circa le scelte
di politica economica del nostro governo, pur di “professori”.

 1. La teoria dominante è in crisi
Oggi dopo anni di atrofizzazione si affaccia un nuovo sentire al quale la scienza economica deve saper dare una risposta. La crisi globale in atto segna un punto di svolta epocale. Come in tanti hanno rilevato, oggi entrano in crisi le teorie economiche dominanti e il fondamentalismo liberista che da esse traeva legittimazione e vigore. Queste teorie non avevano colto la fragilità del regime di accumulazione neoliberista. Esse hanno anzi partecipato alla edificazione di quel regime, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento nella distribuzione dei redditi e l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno contribuito a determinare le condizioni della crisi. E’ necessario ricondurre l’economia ai fondamenti etici che avevano ispirato il pensiero dei classici.
2. E’ urgente riaprire il dibattito economico
E’ urgente riaprire il dibattito sulle fondamenta delle diverse impostazioni teoriche presenti nel campo economico. Occorre respingere l’idea – una giustificazione di comodo per tanti economisti e commentatori economici mainstream – che esista una sola verità nella scienza economica. Occorre dare spazio alle teorie alternative – keynesiana, classica, istituzionalista, evolutiva, storico-critica nella ricchezza delle loro varianti – nell’insegnamento e nella ricerca. Occorre adeguare ai tempi i nostri strumenti, assumendo l’analisi di genere nei nostri studi. E’ necessario dare “diritto di tribuna” ad ogni nuova idea economica nel segno della libertà e del libero confronto. Le concentrazioni di potere (nelle università, nei centri di ricerca nazionali e internazionali, nelle istituzioni economiche nazionali e internazionali, nei media), come quelle che hanno favorito nella fase più recente l’accettazione acritica del fondamentalismo liberista, debbono essere combattute.
3. Un’economia al servizio delle persone
La scienza economica dev’essere intesa in modo ampio, senza definizioni unilaterali e con piena apertura all’interscambio con le altre scienze sociali. L’obiettivo della ricerca dovrebbe consistere nella comprensione della realtà sociale che ci circonda, come premessa per scelte politiche dirette a migliorare la condizione di vita delle persone e il bene comune.
4. Un metodo non più fine a se stesso
A questo fine va indirizzato l’utilizzo delle tecniche disponibili, dall’analisi storiografica a quella econometrica, dall’analisi delle istituzioni alla costruzione di modelli matematici, senza preclusione verso alcuna tecnica ma allo stesso tempo senza che la raffinatezza tecnica dell’analisi divenga un obiettivo autoreferenziale, fonte di conformismo e di appiattimento nella formazione delle giovani leve di economisti. Per questo, va favorito un confronto critico tra impostazioni e analisi diverse.
5. Una nuova agenda
Suggeriamo cinque temi – su cui promuovere studi e iniziative – che ci sembrano di particolare rilievo nella fase attuale:
Mercato, stato e società. Dopo decenni in cui il mercato e la sua presunta “mano invisibile” hanno invaso gli spazi dell’azione pubblica e delle relazioni sociali, è necessario pensare nuove forme di integrazione tra mercato, stato e società, con attenzione per i temi della democrazia, della giustizia, dell’etica, in un quadro di sostenibilità ambientale dello sviluppo;
Una globalizzazione dal volto umano. Dopo una mondializzazione dei mercati trainata dalla finanza e priva di regole, è necessario pensare a un’integrazione internazionale tra i popoli che sia democraticamente governata, che alimenti i flussi di conoscenze e di persone accanto a quelli di merci, e che promuova la cooperazione sociale anziché la feroce competizione globale.
Un nuovo umanesimo del lavoro. E’ necessario ripensare il ruolo del lavoro nelle società moderne, come fonte di reddito dignitoso per tutti, di conoscenze, di relazioni sociali e come strumento di formazione ed emancipazione civile dei cittadini.
La riduzione delle disuguaglianze. Le differenze di reddito e di potere, tra paesi e – al loro interno – tra gruppi sociali e persone sono cresciute in modo inaccettabile ed è necessario quindi pensare ad un modello di organizzazione delle relazioni che punti realmente a ridurre le disuguaglianze sociali, territoriali, tra uomini e donne e tra le singole persone. Questo è necessario anche per individuare una credibile via d’uscita dalla crisi, che richiede un rilancio dei consumi individuali e collettivi e degli investimenti pubblici, e l’emergere di una nuova domanda da parte di paesi e gruppi che in passato erano rimasti al margine dello sviluppo e del benessere sociale. Senza tali cambiamenti il rischio concreto è che si punti a ripristinare il regime di accumulazione neoliberista fondato sulla speculazione finanziaria, e che si alimentino per questa via crisi ulteriori ed ancora più gravi dell’attuale.
Uno sviluppo più equilibrato. Va favorita la transizione da una crescita quantitativa senza limiti verso uno sviluppo più equilibrato basato sulla qualità. Occorre impegnarsi per costruire degli indici alternativi al prodotto interno lordo che è inservibile e fuorviante dal momento che non riesce a rappresentare diverse attività economiche, i costi ambientali e il reale benessere della popolazione.”

In ogni caso, la “cultura del limite” è un eccellente antidoto 
per ogni fondamentalismo, anche per il fondamentalismo liberista.
O no?
Severo Laleo

sabato 28 aprile 2012

Il “Manifesto per un soggetto politico nuovo”, la convivialità, e il coraggio di SEL



Vorrei chiarire subito la mia posizione, per libertà di discorso.
Condivido molti passaggi del “manifesto”, anche i “nodi radicali di rottura”,
da cui partire per “cambiare la politica” (e ho trovato splendido,
in un documento politico, l’elogio della “mitezza”,
virtù fondamentale anche per interiorizzare la “cultura del limite”),
eppure preferirei ancora, per realizzare, appunto, una “nuova politica”,
l’impegno duro e difficile in un partito,
all’idea di tentare una “mobilitazione diffusa e connessa”,
lasciando quasi solo al caso e alla buona volontà delle persone,
la “mobile” costruzione di una nuova soggettività politica.
Il  “Manifesto per un soggetto politico nuovo”  
non è solo “scrittura” di intellettuali,
è anche “impegno” politico diretto di quegli stessi intellettuali.
A mio modo di vedere, è proprio questo il limite di fondo
del “Manifesto per un soggetto politico nuovo”,
la riduzione, cioè, dell’intellettuale a politico,
e,  insieme, la riduzione della funzione intellettuale di critica della società
a funzione di direzione politica.
Ora, se l’intellettuale rinuncia alla sua azione autonoma
di  libertà di critica della società,
e, diffidente verso i partiti, assume su di sé il compito,
comunque “condizionato”, di direzione politica,
il risultato sarà l’esautoramento definitivo, almeno a sinistra,
del ruolo dell’organizzazione politica attraverso i partiti.
E poiché la funzione di critica non potrà mai essere eliminata,
dalla società sorgeranno altri soggetti, intellettuali e non,
pronti a denunciare, nei fatti, l’ibrida confusione,
con danno sicuro per la lotta politica a sinistra.
Per questo motivo continuo a credere nella costruzione,
paziente, di un partito nuovo a sinistra (e la scelta è su SEL)
capace di sperimentare, nei suoi circoli, nei suoi luoghi di politica,
anche virtuali, la relazione umana nell’agire politico,
attraverso la quale, convivialmente, rendere possibile
l’esercizio della libertà di critica, sempre,
e insieme l’esercizio del dovere dell’amministrare.
Ma se SEL, per colpa di antiche, a volte in buona fede,
resistenze strutturali, non riuscirà a praticare al suo interno
una nuova democrazia, aperta e alla pari,
di servizio, per la disponibilità per tutti dei beni comuni,
senza necessità di ricorrere al mito del leader
(esito ancora non riconosciuto di un maschilismo atavico),
se SEL non riuscirà a praticare al suo interno quella “convivialità”,
intrisa di ragione e sentimenti, immaginata per la società tutta,
se SEL non avrà il coraggio di trovare/applicare regole nuove
per la gestione del partito (segreteria doppia uomo/donna,
quota di dirigenti eletti per sorteggio, parità assoluta,
dovunque sia praticabile, senza inutili astrattismi, nelle liste elettorali,
di uomini e donne, trasparenza assoluta quale costume di relazioni interne, etc.),
se SEL non saprà gridare agli altri partiti queste sue novità,
richiedendo atti di legge per una loro trasformazione,
sarà molto difficile incrementare la partecipazione politica delle persone,
e, insieme, estendere la democrazia, con l'obiettivo di dare una possibilità
di realizzazione “alle aspirazioni fondamentali della persona umana …:
la libertà, l’eguaglianza, la dignità degli uomini e delle donne, il benessere, 
la responsabilità e la solidarietà”.*
O no?
Severo Laleo

*Poiché sia al Manifesto di SEL sia al Manifesto per un soggetto politico nuovo
non è capitato, per l’uno o l’altro motivo, dare visibilità al termine “socialismo”,
sarà bene, per evitare il diffuso male della “liquidità” politica dell’oggi, 
e per dare un riferimento chiaro alle parole, riportare un brano tratto dall’art.1 
del Manifesto del Partito Socialista Francese.
O no?

giovedì 26 aprile 2012

Il degrado della politica, l’educazione liberale e la cultura del limite.



L’Italia, almeno a giudicare dal degrado senza limiti della politica,
e dal contare i voti di quei troppi elettori “servi liberi
pronti a seguire un “capo” pur di conseguire avari vantaggi  immediati,
è ancora un paese privo di educazione “liberale”,
di quell’educazione/cultura “liberale” fondamentale
per costruire una democrazia moderna e civile,
a prescindere dal colore delle azioni di governo.

In Italia abbiamo dato il nostro consenso alla “discesa in campo
di tanti politici nuovi, di chiunque abbia voluto fare politica,
spesso a destra, ma anche a sinistra,
senza chieder loro di superare l’esame di “cultura liberale”.
Ed è stata la vittoria dell’antipolitica, comunque camuffata.
Il grillismo, al confronto, è quasi una richiesta di decenza “liberale”.

Essere “liberali” è la precondizione per impegnarsi in politica,
sia a destra sia sinistra. Tra pari. In ogni senso.
Il mito del “capo” non è “liberale”,
è il misero esito nostrano del maschilismo.

Ieri, poiché, in assenza di rigore intellettuale, definirsi “liberali”
è stato facile, abbiamo visto trionfare in politica, appunto,
i nuovi “liberali”, conservatori e rivoluzionari (ognuno a suo modo!),
insieme, senza un minimo di “cultura liberale”,
solo uniti a “occupare” il potere, anche oltre i limiti del possibile.

Oggi, al governo, a  rispettare i limiti, abbiamo tecnici “liberali”,
espressione di moderatismo politico.

E’ stato scritto da un sincero “liberale” quale Valerio Zanone:
la cultura del limite induce al moderatismo politico”.
Non so se è sempre possibile.
Certo, quando in un paese civile le differenze tra ricchi e poveri
superano ogni sopportabile limite, ristabilire l’equità,
ridefinendo un limite per la ricchezza e un limite per la povertà,
difficilmente potrà essere un’operazione di moderatismo politico,
comunque da non affidare a dei, pur illuminati, tecnici.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 25 aprile 2012

Il cattolicesimo di Formigoni s’affloscia nel salame




Ieri sera, a Matrix, l’integerrimo, dalla vita specchiata,
Presidente della Regione Lombardia,
il cattolico di Comunione e Liberazione Formigoni,
orgoglioso dell’eccellenza del suo servizio sanitario,
e attentissimo a separare la sua azione pubblica di governo
dalle sue vacanze private di gruppo,
a proposito del San Raffaele, ospedale dalla mala gestione,
ma dall’eccellente, appunto, servizio,
tira fuori, un po’ a sorpresa, la metafora del salumaio, e afferma,
più o meno: “A me non interessa chi è il salumaio,
come gestisce il suo negozio, se è un delinquente o no,
a me interessa se è buono il suo servizio, il suo prodotto.
A  me interessa il suo salame”.
Proprio così! Gusto letterario a parte.
Appare evidente a tutti che il ragionamento in sé è sul piano politico,
e sociale, e della civiltà del diritto, molto discutibile e pericoloso
(su questa linea è possibile giustificare anche comportamenti mafiosi),
ma è ancora più grave che a esprimere ragionamenti (si fa per dire!) del genere,
di stravolgimento di una visione etica e religiosa, sia un cattolico praticante.
In verità, per un cattolico semplice, non Presidente di Regione,
tutto ciò che viene da un “buon” salumaio è buono, sempre,
anche a prescindere dalla qualità del suo salame:
omnia munda mundis;
ma se il salumaio serve un buon salame, ed è insieme un poco di buono,
forse bisognerà stare attenti anche al salame.
O no?
Severo Laleo