martedì 30 settembre 2014

Se è (stato) possibile, una ragione c’è



Noi italiani siamo creativi, si sa. In ogni campo.
E inventare il “nuovo”, con una appassionante ammuina
e confusione di percorsi, è sempre stata la nostra forza. 
E la nostra speranza. In una parola il nostro successo.
E rovina.

Nella moda siamo (stati) giganti: il “nuovo” era spesso
italiano. Almeno così si è sempre creduto.
E non da meno siamo stati nell’arte della politica;
l’abbiamo inventata con Machiavelli, ed era scienza, 
ma proprietari siam diventati del marchio del Fascismo
la dittatura all’italiana. E del marchio abbiamo avuto persino imitatori.
In verità fu Mussolini, da socialista, a inventare il Fascismo.
E insieme la rivoluzione fascista. Tutto nuovo
Gli italiani acclamarono soltanto, almeno sino a quando
trovarono convenienza. Anche gli intellettuali giurarono
nelle Università, con qualche, per fortuna, rifiuto,
grazie al quale s’è tenuta viva la lucerna della dignità.
Un grande dono del coerente resistere di una minoranza.

Nel campo delle rivoluzioni poi siamo maestri:
la più vicina a noi è stata la “rivoluzione liberale”,
quella targata Berlusconi, gran maestro e gran caposcuola,
già sostenitore del socialismo italiano.
I risultati sono noti a tutti. E ancora hanno effetti. 
Addirittura oggi in corso non c’è solo una rivoluzione;
si contano rivoluzioni a bizzeffe in ogni settore della vita sociale
e politica, soprattutto grazie all’accordo privato tra Renzi,
il socialista europeo, e Berlusconi, il gran maestro, oggi espulso
dal Senato per indegnità. E i risultati, già annunciati,
saranno presto noti. Anzi, la nuova rivoluzione socialista
(il Pd è parte forte del PSE), ad esempio, nel campo della riforma lavoro, 
a breve abolirà l’art. 18 e il suo simbolo, senza tempo,
di dignità della persona, non prigioniera di un contesto storico.
E l’argomentazione convincente è già nota, più o meno: l’art. 18
ha quaranta anni e più, è vecchio, ha fatto il suo tempo,
oggi è inutile, frena la velocità della crescita, blocca l’occupazione
e gli investimenti, riguarda un numero esiguo di lavoratori,
è causa di divisione tra lavoratori di serie A e di serie B
(il calcio continua a essere un must nella conversazione politica,
anche in questa nuova partita!), e, per finire, lascia nelle mani
dei giudici la strategia imprenditoriale (sic!). Argomenti tutti
con il timbro del “nuovo”. Che dire!
  
Ma perché la retorica della rivoluzione/cambiamento
è oggi così tanto diffusa e praticata, a destra e a sinistra,
da fare invidia persino agli irriducibili veterani del ’68, 
rivoluzionari senza potere? Anche se grazie a quel ’68
la società tutta subì una trasformazione culturale reale. 
Forse il vero spartiacque tra i due periodi della nostra breve
storia repubblicana, al di là dell’89, non è stato il dramma
di tangentopoli (evento per gli opportunisti sempre all’erta),
ma la caduta della tensione pedagogica dell’antifascismo,
nel senso universale e non semplicemente storico del termine.
La caduta della tensione democratica antifascista
il vero forte collante per una democrazia dei Partiti, 
e insieme l’insostenibile prassi affaristica del finanziamento 
proprio di quei Partiti, favorirono l’ascesa politica di figure 
dell’antipolitica dal “carisma” (in verità carisma è termine improprio) 
popolare e segnarono una rottura con il passato, con la complicità 
di un intero Paese completamente privo di cultura liberale. 
E di educazione civica. Anche per colpa della scuola. Solo un dato: 
se si analizzano le mille pagine della storia del pensiero del '900 
di uno dei testi più diffusi nei licei italiani, si trova il liberale Gobetti
nelle mille pagine, citato una sola volta, e solo nel titolo di un libro!
I popoli senza cultura liberale sono ancora nel guado,
si arrabbiano tanto, ma presto si innamorano dei “capi”.

E questi “capi”, figli delle crisi, hanno un solo metodo per gestire
la rabbia: la retorica nazionale (o antinazionale e localistica),  
e insieme l’individuazione di un nemico, di un bersaglio, 
anche solo di nome, magari immaginario. Sono gli ingredienti 
sempre presenti nella pentola delle nostrane rivoluzioni.
E i capi stessi di queste rivoluzioni sono sempre stati uomini 
(anche nel senso di “maschi” forti e decisi, duri, non abituati a mollare!) 
abili agitatori di popolo. E di interessi altri. Antipolitica vera.

Bossi, il primo “nuovo”, dopo l’era dell’arco costituzionale,
inventò  la Padania contro Roma Ladrona. Ed ebbe successo 
incredibile. Anche con l’ampolla del Po tra le mani nuovo simbolo 
per il salto verso una nuova era per i suoi proseliti.
Padani soprattutto. Che dire! La sua antipolitica colpiva al cuore
la bandiera italiana.

Berlusconi, l’altro “nuovo”, inventò l’entusiasmo nazionale
di “Forza Italia” contro i “Comunisti” impegnati  a “prendere
il potere nella scuola, nell’università, nei giornali e nella giustizia”.
Ed ebbe successo incredibile. Anche con la nipote di Mubarack 
nelle sue stanze. Che dire! La sua antipolitica colpiva al cuore
i mestieranti della politica (perché non hanno mai lavorato).

Grillo, il “nuovo” urlante nelle piazze, già aspirante, scartato,
alla carica di Segretario del Pd, inventò il Vaffa, metodo per eccellenza 
per guidare la rabbia contro la politica, e il conseguente rifiuto 
di ogni dialogo politico. Ed ebbe successo incredibile.
Anche quando flirta con Farage. Che dire! La sua antipolitica
colpiva al cuore, senza distinzione tra persone e istituzioni,
la Casta Politica.

Renzi, il “nuovo” ultimo, inventò la Rottamazione contro la vecchia 
guardia e il MonologoFiloDiretto con il popolo. E il decisionismo “violento” 
contro ogni ostacolo/rivale (solo Letta? E i sindacati?
E la magistratura? E i costituzionalisti? E i professoroni?
E i lavoratori di seria A?), ma sempre con un occhio di riguardo, 
continuo e durevole, per i suoi sodali e “maestri” per eccellenza.
Tanto la gente è con me”. E torna la gente!
Il tutto ancora con una nuova retorica nazionale: il popolo italiano
è il migliore dei popoli, è un popolo di grandi energie e creatività, 
già pronto a guidare/cambiare l’Europa. Ed ebbe successo incredibile. 
Ripetuto. Anche se stringe patti con il Grande Frodatore
del Fisco Italiano. Che dire! La sua antipolitica colpisce al cuore, 
dall’interno, la storia del suo Partito.

Ma perché il popolo italiano è sempre pronto a seguire
chi ha il piglio forte del “comandante” e spregia chi la mitezza
paziente del “servitore”? Forse la nostra facilità di infatuazione 
per un “capo” è sostenuta dalla nostra pigrizia mentale, 
da un’assenza di responsabilità civile partecipativa, 
da un difetto di cultura liberale, da una consuetudine 
all’arrangiarsi, in una parola da un endemico “illiberalismo”.

Per fortuna, a tener viva la lucerna del pensiero critico
e indipendente e della partecipazione paritaria in carne ed ossa
delle persone alla vita democratica del Paese, c’è il popolo
dei referendum, e il ricordo corre al 13 Giugno 2011,
quando un popolo libero e gioioso, a domande precise,
rispose con riflessione, e senza rabbia contro un nemico,
con la propria testa di persona senza orgoglio nazionale,
per il cambiamento reale, tetragono a qualsiasi invito 
di qualche “capo”  ad andare al mare. 

 O no?
Severo Laleo 

P.S. Esiste un’abitudine linguistica, sicuramente nel Sud, di antica origine e colta, quando si parla di un’autorità, 
di un “capo”, seguito dai suoi fedelissimi (per i quali, chissà perché, funziona sempre, il senno del poi!); quel Capo
secondo quell’abitudine linguistica- perde l’identità e diventa un’immagine astratta, anche se visibile,
di una modalità di gestione/direzione, uguale in ogni luogo e tempo, e non ha più un nome e un cognome, 
diventa semplicemente “Is(so)”. Così nel dialogo tra i seguaci/dipendenti/soci, se un ultimo arrivato,
ingenuo e voglioso di capire, chiede: “Perché si deve fare così?”, il fedelissimo convinto (forse) risponde: 
L’ha detto “issoE il discorso non va avanti, non cresce e si chiude,  spesso con rassegnata saggezza, 
perché, si sa, tanto non cambiaSuccede sempre così!

lunedì 29 settembre 2014

Il nuovo dipendente pacco



Dichiara pressappoco Renzi da Fazio: “Un'azienda è libera 
di licenziare un suo dipendente, ma lo Stato se ne farà carico”. 
Questo il senso del messaggio.
Perché il dipendente dovrebbe lamentarsi? Acquista sicurezza.
E ha pure le sue tutele in questo passaggio di mano.
L’Azienda è libera di liberarsi di un dipendente, 
come e quando vuole, senza altre spiegazioni, 
e il nostro Stato sarà libero, come e per quanto vuole,
di accollarsi quel dipendente. Tutto torna. 
Civiltà e welfare sono garantite. 
E senza parola il dipendente diventa un pacco.
In silenzio, muto, in balia di mani altrui.

O no?
Severo Laleo

venerdì 26 settembre 2014

Il nuovo deve ancora venire (anche se una volta è apparso)



De Magistris, già magistrato e ora Sindaco di Napoli,
una vita tra leggi e sentenze, tra regolamenti e delibere,
una vita a difendere la legalità, dall’interno delle istituzioni,
eppure non riesce a trovare le parole giuste
e i comportamenti corretti di uomo delle istituzioni
per la sua condanna in primo grado per abuso d’ufficio.
Fino a prova contraria, è ancora un innocente.
Ma la ribellione contro i giudici, nel nostro paese, soprattutto
da parte di chi ha un pezzo di potere, è sempre la stessa.
E il difficile rapporto/scontro tra giudici e politica continua.
Anche oggi. Nulla è cambiato, nonostante la diversità
abissale dei contendenti, simili comunque nel volto
di individualismo insolente. Qualche citazione?

Berlusconi, da Presidente del Consiglio, nel suo ventennio di battaglia 
contro i giudici, stabilendo il record dell’insolenza,
sbotta: “… i giudici sono … matti! Per fare quel lavoro devi esser 
mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno
quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto
della razza umana”.
Renzi, da Presidente del Consiglio, ma figlio del ventennio,
nel rispondere alle riserve espresse dall’Associazione Magistrati
sul progetto di “riforma della giustizia” chiude i suoi argomenti,
in stile velocità, con un insolente: “brr… che paura“.
De Magistris, da Sindaco di Napoli, e protagonista
del ventennio, non è da meno, e tuona insolentemente
contro i complotti: “Qualcuno mi dice che dovrei dimettermi.
Io credo che i giudici di quel Tribunale dovrebbero dimettersi …
facendo il magistrato mi sono reso conto con gli anni che la collusione,
la corruzione, il sistema criminale non appartengono solo
ai delinquenti di strada, né a pezzi della politica, ma la situazione
è molto più grave. L’altro giorno vedevo casualmente
che questa legge vorrebbero applicare viene fatta dalla Severino,
ministro della Giustizia, guarda caso difensore di una delle controparti 
nel processo di Roma, guarda caso la legge viene fatta proprio
durante il processo di Roma. Io comunque vada farò il sindaco
fino alla metà del 2016. Non ci faremo piegare da questa melassa
putrida che mette insieme pezzi di Stato che non hanno il coraggio
di venirti davanti e dirti io ti voglio abbattere”.

Che dire? L’educazione politica in questo paese è assente,
perché non sono stati mai interiorizzati, a ogni livello
della società, nemmeno se si è prestati al servizio istituzionale,
i principi basilari del liberalismo e del rispetto delle istituzioni,
a prescindere dalla collocazione partitica a destra o a sinistra.


Il nuovo è lontano e deve ancora venire, anche se è apparso
una volta nella storia del nostro Paese, con il suo volto
di collettività cosciente, quel 13 Giugno 2011, nella tornata referendaria, 
quando con il voto libero di milioni
di persone si scelse per il bene pubblico e per l’uguaglianza
di tutti, senza eccezioni, dinanzi alla legge.
E se è apparso, forse tornerà.

O no?

Severo Laleo

mercoledì 24 settembre 2014

Un’idea di Leader e di democrazia oltre De Bortoli e Renzi



L'editoriale del direttore del Corriere della Sera, De Bortoli,
ha avuto un'eco immediata e straordinaria. Un po’ stranamente. 
E' citato dappertutto. Anche con qualche soddisfazione,
e senza gelosie giornalistiche.
Eppure esprime, al di là se vere o false, evidenti ovvietà 
sulla personalità del Premier, note da tempo ai più. 
Specie se avversari.
La notizia dunque è solo nel fatto
che un intellettuale moderato abbia voluto dar spazio
alla sua ritrovata sincerità rifiutando il gioco dell’ipocrisia,
se non della piaggeria, diffuso nella stampa italiana. 
Eppure è possibile partire da De Bortoli, dalle sue parole,
per andare oltre nella riflessione politica, ad di là di Renzi
e della sua personalità. Oltre la contingenza.

Ma prima della riflessione, dato il peso politico dell’intervento
di De Bortoli, che non è nel suo giudizio sul carattere del Premier,
vorrei esprimere un accordo pieno sulla sua richiesta, sacrosanta,
e normale per un paese democratico e civile, di conoscere
tutti i contenuti del Patto del Nazareno.
Non è possibile che il Segretario del Pd e uomo delle istituzioni
in quanto Premier, possa concordare con chicchessia,
e specie con un ex senatore espulso dal Senato per indegnità,
e già tessera P2, una serie di passaggi politici all'insaputa,
non dico degli iscritti a quel partito, ma di tutti i liberi cittadini
(ogni iscritto al Pd dovrebbe pretendere, pronto a ritirare
in caso negativo l’iscrizione, di conoscere tutti i dettagli del Patto,
specie se il suo Segretario ha sventolato con convinzione
la bandiera della trasparenza, bene fondamentale per una democrazia
matura solo se non è nella disponibilità di qualcuno).
In realtà, il Patto del Nazareno, proprio perché determina 
un programma, dovrebbe essere online.

Chiarito questo punto politico riguardante la trasparenza, 
obbligatoria sempre in politica, specie quando si tratta di riforme, 
ecco per punti la riflessione a partire dalle parole di De Bortoli .
1. Scrive De Bortoli, e non credo solo per fare un complimento 
a questo Premier: “Una personalità egocentrica è irrinunciabile
per un leader”. Ritiene cioè il direttore che l’egocentrismo
sia una qualità del Leader. Anzi essenziale per un Leader.
Si può non essere d’accordo, anche se intorno si sente diffusa
e comune l’idea della necessità per un Leader di avere “forza
di comando” e di decisione “senza guardare in faccia nessuno”,
virtù dalle quali scaturirebbe la capacità di governare il cambiamento,
a prescindere dal tipo di cambiamento.
Eppure se si riflettesse sulla storia del potere e sulle sue modalità
di gestione, si potrebbe concludere che se ancora abbiamo 
istituzioni con un Leader “da solo al comando” 
(anche per De Bortoli il leader da solo al comando è una sciagura), 
e che se attribuiamo al Leader egocentrismo, forza di comando, 
decisionismo, è solo perché il monocratismo, al quale siamo abituati 
da sempre, altro non è che l’esito storico del maschilismo.
Senza millenni di maschilismo non avremmo un “Leader
solo al comando” né penseremmo mai di attribuire
al Leader la virtù dell’egocentrismo con tutti i suoi derivati.
Forse le cose sarebbero più avanti per la democrazia
se al monocratismo si sostituisse il bicratismo di genere:
a dirigere il governo (e i Partiti, ad esempio)
non “un uomo solo al comando”, il monocrate, ma una coppia,
un uomo e una donna, ciascuno/a con le sue qualità personali,
ma obbligati a dialogare/confrontarsi prima di avviare 
i processi della decisione.
E l’idea del Leader per forza egocentrico crollerebbe subito
con gran vantaggio per la crescita democratica della società
e per una sicura apertura a un futuro diverso. Le conseguenze
a cascata in ogni campo sarebbero notevoli. E s’aprirebbe
una strada per la democrazia mite e conviviale. Forse.

2. Il giudizio di De Bortoli: Renzinon può fallire perché 
falliremmo anche noi” non è condivisibile 
perché non ha sostanza logica, e non ha sostanza politica, 
non è argomentato, è senza dati osservabili, 
è solo quindi un’espressione insieme di pensiero desiderante 
e di pensiero temente, è un voler dire per forza
tra desiderio/augurio e timore/catastrofe. 
Altri, sempre senza logica e fuori arte della politica, 
potrebbero esprimere un contrario giudizio e cioè: 
Renzideve fallire, se vogliamo salvarci”.
In breve, chiacchiere morte.

O no?
Severo Laleo



martedì 23 settembre 2014

Scuola, il Presidente Napolitano cambia registro



Anche il nostro Presidente della Repubblica, pur saggio d'età,
e di storia, cambia registro e verso nei suoi discorsi.
Almeno quando parla di scuola. E' diventato diretto, rapido, 
persino battagliero; vuol suonare adatto ai nuovi tempi.
Parla ai giovani, perché colgano, con entusiamo le opportunità,
diano spazio alla creatività, si aprano alle tecnologie
di avanguardia, valorizzino le eccellenze. Si rivolge ai singoli
non all’insieme del mondo della scuola.
Divide e non tiene all’unità, anche per la sua strana,
e inutilmente aspra, vaghezza nell’attaccare nemici invisibili
e senza nome. 

Nel 2013 il discorso del Presidente Napolitano, in occasione 
dell'apertura dell'anno scolastico, è stato complesso e incisivo
soprattutto per le persone di scuola e contava ca. 2000 parole;
quest'anno –si sa, viviamo tempi di rapidità- il suo discorso  
conta solo 1000 parole e per scelta non pare voglia essere
incisivo in campo scolastico. Anzi pare voler colpire,
e badare ad altro.

Nel 2013 il Presidente parla di scuola con grande attenzione
e convinzione. E scrive: “Imparare è importante per l'intero sistema paese.
Ma cosa serve perché a scuola si impari meglio? I risultati di varie ricerche ci dicono
che più di altri fattori conta l'apporto degli insegnanti. E quindi ci si deve impegnare
a investire - in risorse e iniziative - come il Governo ha iniziato a fare, 
perché la già notevole professionalità dei nostri docenti si rafforzi … 
si ottengono buoni insegnanti non solo con un'accurata formazione e con opportuni 
aggiornamenti, ma anche e molto promuovendo la trasmissione e lo scambio
nella capacità di insegnare. Non bisogna mai smettere di imparare gli uni dagli altri, 
anche dai giovani, e scambiare quel che si è imparato. Sappiamo quante buone pratiche 
vanno spesso disperse”. A ben leggere, è un Presidente ben dentro il fare scuola, 
attento a sottolineare l’importanza della solidarietà di una comunità educante. 
E non solo tra docenti: “Quello che vale per gli insegnanti
vale anche per gli studenti. La pratica dell'aiuto agli studi dato dai più bravi
a chi resta indietro o dagli studenti più adulti ai più piccoli è un altro bell'esempio
di - chiamiamola così - redistribuzione dei talenti. Invito perciò gli studenti migliori
a essere generosi e attivi nel condividere quanto hanno imparato”.
Davvero un invito alla coesione solidale a partire dalla scuola.
Un manifesto di unità sociale.  Un discorso coinvolgente.
In una parola, da Presidente.
E non tralascia, anche nel 2013, il discorso sul lavoro, ma l’affronta
con stile e parole precise, senza piglio battagliero, senza inutili ismi, 
e sempre indirizzando le parole alle persone della scuola
e non a altri. “A voi ragazze e ragazzi, dico nel modo più semplice e convinto:
la sola risposta certa che si può dare alle vostre preoccupazioni per il futuro,
e sappiamo quali sono queste preoccupazioni, su che cosa ci si interroga :
"avremo lavoro e quale, qualificato e soddisfacente oppure no, potremo avere
un posto riconosciuto nella società?", ebbene, la risposta certa a queste vostre 
domande è una sola: formatevi e preparatevi nel miglior modo possibile.
Ve ne deve essere data, certo, la possibilità, dal sistema d'istruzione,
dalle strutture scolastiche, dalle politiche pubbliche. Ma almeno in parte,
in buona parte, queste possibilità oggi esistono in Italia”. Sembra dire:
le possibilità esistono, basta solo coglierle, la “rivoluzione”
non è urgente. E volando alto cita le parole pronunciate all’Onu
dalla giovane pakistana Malala Yousafzai vittima di un attentato talebano: 
"Il terrorismo, la guerra e i conflitti impediscono ai bambini
di andare a scuola. Dobbiamo condurre una gloriosa lotta contro l'analfabetismo,
la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, sono le armi
più potenti. Un bambino" - sentite queste parole! - "un insegnante, un libro
e una penna possono cambiare il mondo".
E’ stile poetico, lento e profondo, ma di grande interesse:
il cambiamento è la crescita collettiva di una società che studia.
E’ un discorso per e non contro.

Ma quest’anno il Presidente perde ogni afflato poetico 
e sembra preoccupato non tanto di parlare al mondo della scuola, 
quanto ad altri soggetti, mai nominati espressamente. 
E al discorso preciso e chiaro del 2013, comprensibile a docenti e studenti, 
oppone ora, nel 2014, un discorso non adeguato, in più parti, 
a studenti e docenti. E, quasi arrabbiato, dice: “Oggi non solo l'Italia, 
ma tutta l'Europa sono alle prese con una profonda crisi finanziaria, economica, 
sociale: e fanno fatica ad uscirne. Possono uscirne, Italia ed Europa, solo insieme, 
con politiche nuove e coraggiose per la crescita e l'occupazione, dirette soprattutto 
e più efficacemente ai giovani. … Ebbene, sia chiaro che per farcela ci si deve 
non già chiudere in vecchi recinti nazionali, e sbraitare contro l'Europa, 
ma stringerci ancor più in uno sforzo comune, integrare ancor più le nostre energie, 
in spirito di solidarietà, nella grande Europa unita che abbiamo via via costruito 
in oltre sessant'anni”. E diventa urgente la “rivoluzione”: 
Insieme dobbiamo rinnovarci, metterci al passo con i tempi
e con le sfide della competizione mondiale. Specialmente in Italia 
dobbiamo rinnovare decisamente le nostre istituzioni, le nostre strutture sociali,
 i nostri comportamenti collettivi: in questo paese che amiamo, non possiamo
più restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”.

Caro Presidente, forse le persone presenti al suo discorso, soprattutto
gli studenti, questa volta non credo abbiano ben compreso le sue parole,
perché il senso del suo invito al cambiamento è diventato vago e oscuro.
E insieme di "violenta" liberazione. In breve, ha cambiato registro. E verso.


O no?
Severo Laleo




lunedì 22 settembre 2014

Conversazioni sociali

So di scrivere, per ora, solo sensazioni e impressioni,
e lascio quindi ad altro momento la possibilità di riflettere
intorno alle cause reali. Sempre tante, comunque.
E di diversa natura.

Viviamo tempi di modernità, sicuramente di crisi,
di comunicazione onnipresente, di velocità, di impegni
a darsi da fare, di speranze per un futuro migliore per tutti,
e insieme anche di fastidio per ogni possibile intralcio
lungo il nostro cammino, anche quando a intralciare i nostri passi
sono altre persone. Sembra quasi un esercizio a individuare
il nemico per dire basta.
E Firenze persino, città, per storia e tradizione,
di solidarietà, s’adegua con i tempi.
Tre piccoli episodi, tutti nella stessa giornata, una domenica,
e in sedi diverse.
Fortezza da Basso, mercatino. Gente serena in giro tra le bancarelle,
a guardare curiosa, sempre pronta a domandare, 
a chiedere informazione, a scambiare chiacchiere, 
magari sulla vita dei tarli nei mobili antichi, a comprare, 
a gioire per un ritrovamento inaspettato.
Eppure una donna di buona età, e vispa, e chiara
di voce, perché tutti si senta, a un “nonitaliano”,
seduto sul bordo del prato a vendere la sua valigia di merce,
rimprovera di occupare il suolo pubblico senza aver pagato 
il dovuto. Così: “Venite a fare i furbi in Italia, tornatene 
di dove siete venuti!”.
E il tuo giro per le bancarelle incrocia la lotta tra poveri.

Centro, chiesa del ‘700. Cappelle di storia e di carità.
E’ finita la messa, si va in pace. Nei pressi dell’uscita,
ancora dentro la chiesa,  un mendicante, forse abituale, chiede 
e ottiene un’elemosina. “Non gli dovete dare niente a questi
–sussurra un uomo di Chiesa- già prendono un sussidio di 30 € 
al giorno (sic!). Li prende lei 30 € al giorno?”.
E il tuo segno di croce di saluto d’uscita diventa pesante.

Sempre Centro, tavolini di un bar. Un bicchiere di birra artigiana.
Una giovane donna, per tutti noi zingara, senza altre distinzioni, 
gira tra i tavoli a chieder un aiuto, anzi recita proprio un “aiutatemi”.
Un'altra giovane donna, senza alcun problema, lascia scivolare 
centesimi nella sua mano. “Che fai –ammonisce la signora del bar,
senza chiedersi minimamente se l’è lecito- questa è una ladra 
non va aiutata. E’ sempre qui a rompere”.
E la tua mano, pur libera, si chiude gelata e paziente nella tasca.

Forse qualcosa sta davvero cambiando e non è nel verso giusto.
O no?
Severo Laleo


sabato 20 settembre 2014

Art. 18? Una questione di dignità



Gli economisti e gli studiosi di diritto del lavoro di formazione
liberale e di comportamento conservatore, che oggi si dicono riformisti 
solo per realizzare riforme sì, ma di ritorno al passato, 
a prima cioè dello Statuto dei Lavoratori, tentano con numeri e tabelle 
di spingere il governo di centrosinistra a realizzare appunto la “riforma” 
del lavoro per risolvere la crisi economica e occupazionale; 
e il nostro Premier, socialista, ha già da tempo scelto questa strada, 
a suo dire, moderna, egualitaria, senza vincoli frenanti, convinto 
di un radioso futuro per l’Italia; e non ha remore a superare quell’antico 
disegno, pur socialista, degli anni settanta di restituire/garantire dignità 
a ogni lavoratore/lavoratrice, oggi diventato un freno per la crescita 
occupazionale. Le convinzioni son convinzioni e non distinguono 
tra destra e sinistra!

Gli economisti e gli studiosi di diritto del lavoro di formazione 
per così dire di “sinistra” e di comportamento sindacal-progressista, 
votati a difendere le conquiste del passato in quanto conquiste 
di libertà e dignità, pur trattando tabelle e numeri, non riescono 
più a convincere il governo amico di centrosinistra a estendere, 
senza riduzioni di sorta, proprio quelle garanzie di dignità e libertà 
di un tempo a ogni nuovo lavoratore/lavoratrice del nuovo Millennio, 
soprattutto a partire dal superamento del precariato, quale segno vivo 
–il superamento- di civiltà e di inveramento della democrazia.
Ma a bloccare la strada per una vera eguaglianza di diritti e condizioni 
nel lavoro è il cedimento verso l'ideologia della Libera Crescita.


Intanto il gioco di botta e risposta, misto di informazione e propaganda, 
più abile e subdolo da parte del governo, e più scontato e ingenuo 
da parte sindacale, già minaccia la democrazia della trasparenza 
e della partecipazione.  E in questo gioco le persone in carne ed ossa, 
tutte giovani persone, Luigi, Anna, Francesco, Maria, Peppe perdono 
la propria identità, chiusi nei vagoni irrespirabili della precarietà.
Non servono numeri e tabelle per dire quanto la precarietà 
di queste giovani persone abbia aggravato la crisi: Mario, ad esempio, 
complice la solitudine della precarietà, non si è sposato, non ha/vuole figli, 
non compra casa, non affitta un appartamento tutto per sé, 
non ha un progetto definibile/definito, non gli interessa la macchina, 
sopporta a stento le istituzioni, giusto per educazione democratica, 
incassa anche, lascia fare, gli ottanta euro, insieme a qualche spicciolo 
genitoriale, ma per resistere non parla del suo lavoro a tempo 
perché non gli appartiene, non parla del suo salario, perché è misero, 
è stanco di lottare, e frequenta coetanei/e negli apericena e nei viaggi, 
tanto per guardar lontano, affondando ora tra tavolini di plastica 
ora tra e cielo e mare l’opprimente precarietà.  
Ma per risolvere la crisi –ormai gridan tutti- la flessibilità/precarietà, 
ampia e ancora ampia in entrata, è d’obbligo, fondamentale 
per la ripresa economica, e la residua tutela dell’art.18 è un ostacolo 
da abbattere lungo la strada felice della futura piena occupazione.
E per questo obiettivo, senza il minimo dubbio, uomini e donne di governo 
risuscitano un’antica retorica, un po’ rozza e di mitezza assente: 
andiamo avanti”, “tireremo diritto”, “non molliamo”, 
manca solo “chi si ferma è perduto” e la guerra è servita.

Si va alla guerra comunque. E la guerra ha già i suoi due fronti: 
da una parte i fautori della libertà di assumere e licenziare 
(qualcuno, nonostante la presenza socialista, potrebbe dire, finalmente 
chiara è la parte destra), dall’altra i fautori del diritto di lavoratori/lavoratrici 
di non essere mai licenziati senza una giusta causa 
(e qualcuno potrebbe dire, finalmente chiara è la parte sinistra).
Eppure anche contro questa guerra  esistono e si battono i pacifisti 
(anche se hanno nomea di essere di sinistra!), che insistono sul dovere 
del dialogo e dell’accordo anche tra le parti in reale conflitto, 
tutti i datori di lavoro, italiani, stranieri e delocalizzati,  e tutti i lavoratori, 
stabili, precari e alla ricerca di occupazione, nel discreto e generoso supporto 
del Governo e nell’attenzione competente e risolutiva del Parlamento.
Perché il punto “limite”, oltre il quale a nessuno è consentito andare, 
soprattutto quando in gioco è la vita delle persone,
è sempre il rispetto dell’ homo dignus, anche nel lavoro.
Sia per l’estensione della civiltà, sia per suggerimento etico-giuridico 
dell’art.1 della Dichiarazione dei DU.

O no?

Severo Laleo