domenica 11 marzo 2012

Sorteggio e voto popolare


Bossi è stato Ministro della nostra Repubblica!  Ripeto: M i n i s t r o!
Ed ora, segretamente, aspirano, smaltita la sbornia di serietà di Monti,
a governare il Paese, o solo la Padania, i suoi fedelissimi,
tanto un’alleanza, a serietà digerita, si quaglia sempre.
Riflettiamo un attimo: il futuro del nostro Paese è stato 
nelle mani di Bossi, persona in sé degna di rispetto, ma pericolosa se, 
pur di governare, inventa, per i tanti, l’Ampolla del Po 
e, per i pochi, il Cerchio Magico. E nelle mani di Silvio Berlusconi, 
persona in sé rispettabile, ma pericolosa se,
pur di governare, inventa, in politica, la pratica degli acquisti,
tipo campionato di calcio, e adotta, pur di resistere al potere,
il danarismo avvilente. E’ terribile!
Ma ricordiamo qual era, ed è ancora, l’argomento/litania per la legittimità
del governare, a prescindere anche dalla Costituzione: il voto popolare.
Certo, in democrazia, basta controllare/ottenere il voto popolare 
per governare. E per ottenere/controllare il voto popolare i partiti, tutti, 
si azzuffano, nel mercato politico, oltre i limiti della decenza. 
E senza badare a spese, tanto qualcuno si trova sempre da spremere.
Anzi, non sono tanto i partiti a darsi battaglia nell’agone politico,
quanto i leader dei singoli partiti; e quel che è peggio, ogni leader,
dovunque collocato, con gradazioni diverse di autoritarismo,
tende ad assumere i connotati del “padrone”, da Grillo, 
sembra incredibile, a Berlusconi, da Scilipoti 
(sì, pare abbia un “suo” partito!)  a, che so io, Pionati. 
Com’è stato possibile tutto questo?
Forse, se al voto popolare per scegliere i nominati dai leader dei partiti
si sostituisse il sorteggio per scegliere i nostri rappresentati 
nel Parlamento, senza dubbio una migliore fortuna 
potrebbe capitare al nostro Paese.
O no?
Severo Laleo

P.S.
L’idea non è proprio peregrina se sul Sole 24 Ore di qualche tempo fa,
era possibile leggere questo articolo di Gianfranco Papi:
E se i politici li estraessimo a sorte?
 Può sempre aver ragione Churchill, secondo cui la democrazia è il peggiore sistema di governo eccetto tutti gli altri, ma resta il fatto che negli ultimi anni il sistema rappresentativo si è trovato di fronte ad una crisi strisciante, ma sempre più evidente. E non solo in Italia, se questa può essere una consolazione. Un primo elemento che merita essere messo in luce nell’analisi del politologo americano Bernard Manin (Principi del governo rappresentativo, ed Il Mulino, pagg. 294, € 30) è infatti proprio quello che l’Italia non è un’anomalia. Ha un elemento in più. Il fatto di un imprenditore mediatico, come Silvio Berlusconi, che assume una posizione dominante all’interno delle logiche di potere. Ma c’è una tendenza di fondo che è comune a molte altre realtà. Il crollo nella fiducia nei partiti, sempre più incapaci di costituire un collegamento tra la società e le istituzioni. E la trasformazione dei cittadini da protagonisti a spettatori “di una scena politica sempre più spettacolarizzata”, come scrive Ilvo Diamanti nell’introduzione.
La democrazia, pur in forme diverse e sempre meno incisive, continua tuttavia ad esistere: ci sono libere elezioni, una sostanziale libertà di informazione e di dibattito politico, una possibilità di critica verso le decisioni del “potere”, c’è un ruolo dei partiti anche se stentano a trovare una nuova dimensione dopo gli anni della Prima repubblica. Senza sottovalutare le indicazioni sempre più evidenti di una progressiva presa di distanza che per ora ha il suo punto di maggiore evidenza nell’ampliamento dell’area delle astensioni con la mancata partecipazione al voto: lo hanno dimostrato le ultime elezioni così come lo dimostrano i sondaggi che ormai costituiscono il punto di riferimento quotidiano del dibattito politico.
Ma il fatto che il declino della democrazia sia una realtà comune, pur con diversi aspetti, ai maggiori paesi, e soprattutto in quelli di grandi tradizioni, non può certo lasciare tranquilli. Anche perché dovrebbe essere proprio un compito della politica quello di difendere se stessa migliorando gli stessi strumenti della rappresentanza. Una legge elettorale come quella italiana, con le liste bloccate dai partiti e l’impossibilità di qualunque scelta personale che non sia quella espressa nel leader, sembra per esempio fatta apposta per fare in modo che per la classe politica l’unica volontà sia quella di auto legittimarsi.
Può sembrare una provocazione astratta, ma non va in questa prospettiva sottovalutata la possibilità rilanciata da Bernard Manin di affiancare ai classici, ma scricchiolanti metodi di selezione della classe dirigente anche quello in uso nella polis ateniese  ai tempi di Pericle: l’estrazione a sorte. Un metodo che gli stessi Montesquieu e Rousseau hanno in più occasioni rivalutato. Un metodo che peraltro, come ha ricordato il bel film “Il sorteggio” nei giorni scorsi, è ancora previsto pur se solo nell’ambito molto particolare dei giudici popolari.
All’origine del sorteggio ateniese c’era anche al fondo un pensiero religioso: il fatto che gli dei avrebbero guidato le scelte. Ma c’era soprattutto il principio della rotazione delle cariche, cioè della necessità che ogni cittadino potesse avere sia il dovere di essere governato, sia il diritto di governare. “In altre parole – afferma Manin – la libertà democratica consisteva non nell’obbedire solo a se stessi, ma nell’obbedire oggi a qualcuno al cui posto ci si poteva trovare domani”.
Da quell’Atene non ci separano solo 2.500 anni. Ci separa il fatto che ci si è sempre più allontanati dalla logica di uno Stato in cui la prima forma di democrazia è quella di essere al servizio di tutti i cittadini.
Pubblicato sul Sole 24 Ore del 31 ottobre 2010

giovedì 8 marzo 2012

“Schifo” è l’avarizia del giocar da soli



Il Ministro Andrea Riccardi, per unanime opinione, persona mite
e di grande disponibilità al dialogo, con meraviglia di tutti,
e sua anche, ha, in un momento di contrarietà, usato la parola “schifo
per definire, a suo giudizio, un certo modo di far politica.
Il suo riferimento era alla decisione/comportamento del segretario del Pdl
di far saltare, con la sua assenza, il vertice di maggioranza a Palazzo Chigi.
"Vogliono solo strumentalizzare. E' la cosa -ha detto colloquialmente
il ministro- che più mi fa schifo della politica".
L’espressione non è felice, d’accordo, ma è solo un’interpretazione soggettiva
di un comportamento di altri nella gestione degli accordi politici.
Ma è legittima. Indica, almeno pare, il rifiuto di ogni atteggiamento
di “fuga” e di “diniego” dinanzi alla responsabilità di decidere
nell’interesse generale del Paese. Insieme, senza egoismi.
Nel caso specifico, di decidere di Rai e Giustizia.
Ora, non si comprende perché, mentre l’art. 18, in tutte le salse,
non è, e non deve essere, per il Pdl, un “tabù”
e, quindi, anche per il governo dell’economia e dei conti a posto,
al contrario, il discutere di Rai e di Giustizia è, per il Pdl, e deve essere, un tabù
anche per il governo tecnico e liberale di Monti,
perché Rai e Giustizia, a seguire il Pdl, sono, e devono essere,
fuori dell’economia e degli interessi generali del Paese,
perché toccano quegli interessi personali del padrone del Pdl 
comunque da difendere, anche a costo di giocar da soli.
A qualcuno, anche a Riccardi, questo modo di far politica fa “schifo”.
Ed è difficile non essere d’accordo, specie se si ha un’idea della politica,
ad esempio, di altra origine e natura:
Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio.
Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”.*
O no?
Severo Laleo

*Da Lettera a una professoressa, di don Lorenzo Milani

L’isteria è degli uomini (in politica)



Per un caso, oggi, ormai sera dell’8 Marzo 2012,
nel giorno della e per la donna,
e per l’affermazione della sua universale dignità di persona,
ancora offesa, purtroppo, nei tanti luoghi
a dominio sociale e culturale maschile,
e nei tanti rivoli, dovunque sparsi, del fiume carsico
di un pensiero maschile violento,
proprio oggi, per un caso, trovo, nel mio disordine di lettore,
queste, appresso trascritte, parole:
Berlioz non gridò, ma intorno a lui,
con disperate urla femminili, urlò tutta la strada …
le grida isteriche delle donne si calmarono”*.
D’accordo, si tratta di parole vecchie un secolo o quasi,
e oggi, semplicemente, sono un segno dei tempi,
eppure, proprio oggi, nel 2012, dinanzi a balletti inverecondi,
sì, da schifarsi, almeno a sentire un ministro della moderazione,
di urlato e di isterico c’è solo la politica degli uomini.
O no?
Severo Laleo

*da Il Maestro e Margherita di Bulgakov

lunedì 5 marzo 2012

I segretari d’Italia… in cucina e a tavola



E’ vero, non sarà stata un’espressione di felice grazia,
anzi ha tutto il sapore verace della popolanità compagnona,
ma il nostro ex Premier, proprietario, per ora, almeno, del Pdl,
quando ha deciso di chiarire, precisando, il suo messaggio,
dopo aver lanciato la sua solita incompresa dichiarazione,
ha così colpito le lavoratrici  e i lavoratori della stampa:
“Alfano e’ bravissimo: e’ una persona colta, intelligente e leale
e quanto a segretari o sottosegretari, a colazione, a pranzo e a cena
si mangia tutti gli altri segretari d’Italia”. E giù sorridendo beato.
L’espressione, nei suoi accenti di simpatica smargiassata,
è stata comunque nei titoli di tutti i giornali. Perché?
Perché, per stile, “appetibile”, appunto, non certamente
per un qualsivoglia utile giudizio politico di merito:
Alfano [il leale Alfano!] si mangia tutti gli altri segretari d’Italia!”
Eppure la dichiarazione e il suo rilievo sulla stampa svelano insieme
quel che conta davvero in politica, e non solo nei pressi del PDL:
la “potenza” del leader, a prescindere. E la sua capacità di cucinarsi,
in un modo o nell’altro, i suoi rivali, senza soffrir limiti,
tanto, soprattutto in Italia, si può.
Tutta la lotta politica da noi pare chiusa nella ricerca ossesiva di Leader.
E, purtroppo, di questi tempi, in cucina, c’è un affannarsi di soli uomini,
pronti a cucinarsi e a mangiarsi a vicenda. A tavola.
E, forse dietro queste espressioni di infantile cannibalismo c’è la storia lunga
del maschilismo militante nostrano con le sue ademocratiche conseguenze.
O no?
Severo Laleo  


sabato 3 marzo 2012

Dignità delle persone: il reddito minimo garantito diritto di civiltà

L’introduzione di un reddito minimo garantito
(in linea con la risoluzione del Parlamento europeo che chiede agli Stati membri 
di inserire questa misura pari al 60% del reddito mediano nazionale)
è uno dei modi più efficaci per contrastare la povertà,
promuovere l’integrazione sociale
e garantire una qualità di vita adeguata alla dignità delle persone.
Un reddito minimo garantisce l’autonomia e la libertà di scelta,
toglie dalla ricattabilità del lavoro nero e dello schiavismo,
permette a una generazione di compiere scelte
non dettate dalla condizione economica della propria famiglia
e di avviare un percorso di crescita formativa, professionale e di vita
con una minima rete di protezione sociale.
Il reddito è il perno di un nuovo modello di Stato sociale,
basato su forti diritti di cittadinanza e su un rinnovato diritto al lavoro.”

Per ora, è il testo di un manifesto*, ma se tutte le persone giovani,
al di là delle collocazioni contingenti nella geografia dei partiti,
alleate contro gli sprechi per la velocità delle merci
a favore di un investimento per la serenità delle persone,
si battessero, subito e con continuità, per conquistare
il reddito minimo garantito,
la realizzazione dell’homo dignus aprirebbe a una nuova civiltà.
O no?
Severo Laleo

*Ieri la precarietà ora la vita. Manifesto contro la precarietà, a cura di SEL.


Dignità nel nascere, dignità nel vivere



Art. 1 della Dichiarazione Universale(1948):
"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti..." 
E' l'esordio, nella storia del mondo, dell'homo dignus.

Forse è tempo, ora, di costruire le condizioni reali, nel mondo,
perché l’homo dignus, per nascita, possa anche condurre
la sua vita in dignità, primo diritto di civiltà.
O no?
Severo Laleo.

giovedì 1 marzo 2012

Il “limite” nella “paga” e la mitezza sociale: dal manager di Stato al reddito di cittadinanza

Riporto dal Corriere della Sera:
“Le commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera hanno detto sì a larga maggioranza all'introduzione del tetto agli stipendi dei manager della Pubblica amministrazione …Il tetto è stato fissato a circa 300 mila euro, pari allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione e vale per i dipendenti pubblici che rivestono posizioni di vertice. La Lega ha votato contro, mentre il ministro … 
Filippo Patroni Griffi, ha detto: «Andremo fino in fondo su questa linea».”
Il governo Monti ha un procedere davvero diverso dai tanti governi
della storia repubblicana. E’ terribile, riesce, da una parte, a infliggere,
sbagliando di grosso e per l’ideologia dei conti,
sofferenze reali a troppe persone senza tutele;
e, dall’altra, riesce a seguire una linea di “civiltà”, a volte,
oltre i valori liberali. E’ il caso del limite, a 300 mila euro,
per gli stipendi dei manager di Stato.
Bravo governo Monti/Bertinotti! Sì, perché, se non erro,
solo Rifondazione Comunista, anni addietro, riuscì a raccogliere firme
per una legge di iniziativa popolare in questa direzione;
a memoria, il limite era dato, allora, da un tetto stipendiale non superiore
di dieci volte il salario minimo di Stato. Ma potrei sbagliare.
Per la mission (si fa per dire!) di questo blog,
la notizia è di grande rilievo, non in sé, ma per il suo indotto pedagogico.
Dal grido “più soldi per tutti”, comunque, anche navigando in cricca,
al più mite “un tetto per tutti” (per la gioia degli homeless!).
Una rivoluzione!
Eppure, per dare un senso alla cultura del “limite”, è d’obbligo
avere un altro punto di riferimento, verso il basso.
Se è lecito, ed è lecito, fissare un limite alla “ricchezza” di una retribuzione,
appare al pari lecito, ed è lecito, fissare un limite alla povertà/assenza
di retribuzione: per realizzare mitezza sociale il governo Monti
dovrà presentare, subito, una proposta, in proporzione,
 di reddito minimo garantito o di cittadinanza.
O no?
Severo Laleo