domenica 5 febbraio 2012

Il governo Monti, il tabù e la cultura del limite



Il nostro Presidente del Consiglio,
attento a suo modo a procacciare per l’Italia investimenti dall’estero,
ma scarsamente preoccupato di estendere i diritti di civiltà nel suo Paese
(non esiste crescita economica senza un’estensione dei diritti sociali:
non han forza il Salva Italia e il Cresci Italia senza il Migliora Italia),
da liberale vero (inganno ad arte, al contrario, fu la “rivoluzione liberale” di SB),
e, per fortuna di tutti, specie a sinistra, un liberale con le carte in regola,
anche se, purtroppo, non privo di “virtù” italiche,
intende ora sgranare i limiti di legge al potere di licenziamento,
con gran fatica negli anni conquistati,
con un ritornello per niente tecnico e liberale: l’art. 18 non è un tabù.
Maledizione: ma è lingua da tecnici questa? Dov’è la chiarezza?
Personalmente non ho alcuna motivazione inconscia nel difendere,
non un tabù, ma semplicemente, sia pur datato, un esito,
qual è l’art.18, di un sofferto, ruvido, percorso storico. E di lotte.
L’art.18 giunge, nel 1970, a disciplinare le modalità
per la “reintegrazione nel posto di lavoro
del lavoratore ingiustamente licenziato, nel rispetto di una legge del 1966.
Fino al 1966, all’approvazione cioè della legge 604,
da parte di un Parlamento zeppo di rivoluzionari
(democristiani, repubblicani, socialisti),
il potere di licenziamento del lavoratore da parte del datore di lavoro
era assoluto, arbitrario senza controlli di legge, “ad nutum”.
Il padrone, così una volta ci si esprimeva, aveva un potere illimitato
nel togliere al lavoratore “il posto di lavoro e il pane”.
E si arrivò a quel 1966, con gran ritardo rispetto ad altri Paesi europei,
grazie all’impegno, civile innanzitutto, di un contadino sindacalista del Sud
(ma non riferite la notizia delle origini ai leghisti), un tal Di Vittorio,
il quale gridò  l’arretratezza della norma del licenziamento “ad nutum”,
e invitò a porre un “limite” al potere incontrollato di licenziamento
attraverso la nozione di “giusta causa”.
Perché, dunque, con la scusa dell’inesistente tabù, si vuol tornare indietro?
Esiste, forse, nascosta dietro il tabù, 
una “giusta causa” ad hoc per ridurre i diritti?
Se Monti continuerà a sgranare i limiti di legge al potere di licenziamento,
la cultura del limite da liberale si farà socialista.
O no?
Severo Laleo

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