Grazie alla Gilda,
leggo su Fb quest’articolo di Fabrizio
Forquet
su Il Sole
24ore. Un articolo perfetto, almeno per comprendere
la “violenza”
di un revival di un’ideologia di una destra illiberale,
desiderosa di comandare
e controllare, contraria alla libertà dell’insegnamento,
e con la pretesa, indiscussa,
di costruirsi una scuola a suo esclusivo servizio.
Ed è illuminante per comprendere il conflitto
politico e culturale
in atto oggi tra questo Governo di centrosinistra
(e i suoi aperti sostenitori
di destra) e il mondo della scuola in rivolta.
Merita una lettura integrale il testo del Forquet, con, tra parentesi, in
corsivo,
qualche osservazione. Per un contraddittorio.
Esordisce il Forquet
con l’anafora. “Chi ha paura del merito?
(si apre con
la retorica della paura per una volgare propaganda;
la paura è
dei codardi, sempre, ma il merito con la paura non c’entra;
eppure una
società basata sul “merito” -ammesso si trovi un accordo
sul
significato inesauribile di “merito”- è una società “violenta”,
perché
trascura e condanna all’indegnità i “non meritevoli”,
quasi sempre
“bisognosi”).
Chi ha paura della valutazione? (si ripete la retorica della paura
per una
volgare propaganda; la paura è dei codardi, sempre,
e la
valutazione con la paura non c’entra; perché la valutazione
è solo un
utile strumento per i più disparati interventi di politica scolastica,
non
esiste una valutazione e basta, di per sé risolutrice
di tutto).
Chi ha paura di una governance che
privilegi la qualità
dell’insegnamento e l’efficienza organizzativa? (continua la retorica
della paura per una
volgare propaganda; la paura è dei codardi, sempre,
e la
governance con la paura non c’entra; il problema è discutere,
senza
ideologismi, quale sia, nel luogo delle relazioni per eccellenza,
la scuola, la più utile
governance per garantire il “successo formativo”;
“qualità dell’insegnamento e
efficienza organizzativa”, senza la definizione
di un fine,
sono pura ideologia). La sfida portata ieri in piazza
dai sindacati della scuola è molto più di una
protesta sindacale.
C’è in gioco il futuro che vogliamo (chi?), il discrimine tra chi si attarda
nella rivendicazione corporativa del mondo che fu e chi prova a cambiare
almeno
un po’ (ancora la retorica dell’opposizione
nuovo/vecchio
per una volgare propaganda; e torna il nemico
“i
sindacati”, sempre “corporativi”, per ideologia; ma ieri in piazza
non c’era il
“sindacato”, ma solo persone in protesta civile).
Ci sono migliaia di insegnanti in Italia, forse la
maggioranza,
che vogliono una scuola che cominci finalmente a
premiare
i migliori docenti (torna l’ossessione ideologica, infantile,
del
premio/castigo, con la sicurezza, per ideologia, di avere il metodo
sicuro per
separare i “migliori” dagli altri), che insegni quello che più serve
a un
ragazzo (sicuramente non suo figlio)
che dovrà trovare
un buon lavoro (e qui l’ideologia dà il meglio di sé e si scopre
con
chiarezza fino in fondo: la scuola è al servizio del “buon lavoro”,
non deve
fare altro) che faccia della qualità dell’istruzione, misurata
attraverso
una valutazione, la sua ragion d’essere (ormai
senza più remore:
l’ideologia sceglie l’istruzione “misurabile” quale “ragion
d’essere”
della scuola, altro non è dato; la formazione avrà un senso? la
coscienza
critica sarà misurabile e valutabile? Per la destra non liberale
è il massimo
del successo). C’è poi un blocco sindacale che guarda
con diffidenza a tutto questo, che trasforma un
diffuso – e più
che legittimo (grazie!)–
malcontento in un potere forte
di conservazione e spirito di rivendicazione, che
fa male
alla scuola italiana e agli studenti che la
abitano (tornano i luoghi comuni
dell’ideologia già sopra marcati).
Il disegno di legge del governo si inserisce
esattamente in questa tensione.
Prova a cambiare (ancora il mito del “cambiamento”, mentre, a leggere
la storia, è solo un
ritorno al “vecchio”). Prova a farlo spingendo in favore
dell’autonomia (l’autonomia è solo un importante strumento,
non altro)
e dei poteri (i poteri, ecco
il fulcro della “nuova” ideologia) dei presidi,
prova a premiare il merito (non si diffonda in giro l’entità del premio:
la nostra dignità di paese europeo potrebbe essere seriamente scalfita)
dei
docenti e a rafforzare i criteri di valutazione, prova a mettere al centro,
sul
modello tedesco, l’alternanza tra scuola e lavoro (il fine ultimo
della buona scuola).
Su questa linea, coraggiosa (il coraggio di tornare al “vecchio”),
la #buonascuola di Matteo Renzi rischia però
continuamente
di perdere pezzi sotto la pressione delle
resistenze sindacali
e di una parte dello stesso Pd (i cattivi sono individuati: il mondo
della scuola
in protesta è inesistente). Per ultima, nei giorni scorsi,
è stata limitata proprio l’autonomia dei presidi,
uno degli aspetti migliori
della riforma (non
era un caso, dunque: e forse un intervento esterno
nella scrittura del ddl è
sospettabile). Il preside non elaborerà più il piano
dell’offerta
formativa, ma dovrà condividerlo con il collegio dei docenti
e con il consiglio di
istituto (che noia!).
Anche nella
scelta dei docenti da premiare il dirigente dovrà convivere
strettamente con il
consiglio di istituto e il comitato di valutazione (che noia!).
Rispunta, così, una mentalità collegiale nella gestione dell’istruzione
che ha fatto fin
troppi danni da quando si è affermata negli anni 70
(finalmente è detto: bisogna cancellare il ’68, desiderio già dell’ottima
Gelmini; si registra qui il dolore
sincero dell’ideologia del Forquet;
e purtroppo, qui, il buon docente, abituato
all’empatia, sconosciuta
al Forquet, alla fine partecipaal suo
dolore).
Sulla scuola, poi, si ritorna a investire. È un
bene.
Ma ancora una volta si investe troppo in stabilizzazioni e nuove
assunzioni
(il
precariato, si sa, è una risorsa), piuttosto che in laboratori
e nel potenziamento di informatica e inglese (l’ideologia delle “i”:
a volta
ritorna). I premi al merito, che la riforma meritoriamente introduce,
dovevano assorbire il 70% delle risorse destinate
agli aumenti retributivi, invece ne assorbiranno
solo il 40%,
il resto sarà destinato agli scatti di anzianità (e qui il suo dolore
è ancora più
risentito).
Se c’è quindi un rischio da evitare è quello che
gli obiettivi
della riforma vengano via via vanificati nel suo
percorso parlamentare.
Il periodo
elettorale in cui ci si ritrova a discutere
di scuola in Parlamento, con gli insegnanti in
piazza, rende questo pericolo
ancora più acuto (mannaggia!).
Ma Renzi (ecco
la ripresa) ha già dimostrato, quando si è trattato di portare
a casa il
Jobs Act, di saper sopportare un livello di scontro elevato
con il sindacato. Dopo aver vinto sul lavoro, non si può cedere proprio
sulla scuola, la riforma
simbolo di un governo che vuole il cambiamento
(il dolore, alla fine, dura poco, e torna subito il fuoco battagliero
della lotta
dura contro i sindacati insieme all’elogio delle doti da vincitore
del Premier
per il cambiamento: e qui il rifiuto dell’agire in spirito
di democrazia
è pericolosamente chiaro).
Un’ultima considerazione va fatta sulla data
scelta dai sindacati
per lo sciopero. Che credibilità può avere domani
in classe
un docente che si trova a spiegare ai suoi
studenti che i test Invalsi
– le prove attraverso cui lo Stato ha cominciato a
valutare i livelli
di apprendimento e dunque la qualità dell’insegnamento –
ieri non
si sono fatti perché proprio in questa data è
stato fissato lo sciopero
degli insegnanti? Se l’etica dei comportamenti (eh, no, l’etica no, non ammorbi
questo suo finale di articolo, caro Forquet,
con un elogio, diretto, dell’etica,
mai citata prima per la qualità
dell’insegnamento, ma indiretto di questa logica:
“maestro”, stai a posto tuo,
da “dipendente”, non puoi permetterti
di
scioperare se ci sono le prove Invalsi! Incredibile!) è il primo valore
che
un “maestro” è chiamato a trasmettere ai suoi alunni, come è possibile
che nella scuola italiana non è
partita una rivolta contro la decisione di fissare
lo sciopero proprio
in questa giornata? (com’è possibile? forse
la sua idea/conoscenza
del mondo della scuola non risponde
alla realtà.
O no?).
Severo
Laleo