parole per una "cultura del limite" a cura di Severo Laleo ... de tous temps penseurs, sages ou philosophes, ont cherché les moyens à s'opposer à la démesure (hybris) ... les convivialistes
lunedì 29 settembre 2014
Il nuovo dipendente pacco
Dichiara pressappoco Renzi da Fazio: “Un'azienda è libera
di licenziare un suo dipendente, ma lo Stato se ne farà carico”.
Questo il senso del messaggio.
Perché il dipendente dovrebbe lamentarsi? Acquista sicurezza.
E ha pure le sue tutele in questo passaggio di mano.
L’Azienda è libera di liberarsi di un dipendente,
come e quando vuole, senza altre spiegazioni,
e il nostro Stato sarà libero, come e per quanto vuole,
di accollarsi quel dipendente. Tutto torna.
Civiltà e welfare sono garantite.
E senza parola il dipendente diventa un pacco.
In silenzio, muto, in balia di mani altrui.
O no?
Severo Laleo
venerdì 26 settembre 2014
Il nuovo deve ancora venire (anche se una volta è apparso)
De
Magistris, già magistrato e ora Sindaco di Napoli,
una vita tra leggi e sentenze, tra
regolamenti e delibere,
una vita a difendere la legalità, dall’interno
delle istituzioni,
eppure non riesce a trovare le parole giuste
e i comportamenti corretti di uomo delle
istituzioni
per la sua condanna in primo grado per
abuso d’ufficio.
Fino a prova contraria, è ancora un
innocente.
Ma la ribellione contro i giudici, nel nostro
paese, soprattutto
da parte di chi ha un pezzo di potere, è
sempre la stessa.
E il difficile rapporto/scontro tra giudici
e politica continua.
Anche oggi. Nulla è cambiato, nonostante la
diversità
abissale dei contendenti, simili comunque nel
volto
di individualismo
insolente. Qualche citazione?
Berlusconi,
da Presidente del Consiglio, nel suo ventennio di battaglia
contro i giudici, stabilendo
il record dell’insolenza,
sbotta: “… i giudici sono … matti! Per
fare quel lavoro devi esser
mentalmente disturbato, devi avere delle turbe
psichiche. Se fanno
quel lavoro è perché sono antropologicamente
diversi dal resto
della razza umana”.
Renzi,
da Presidente del Consiglio, ma figlio del ventennio,
nel rispondere alle riserve espresse dall’Associazione
Magistrati
sul progetto di “riforma della giustizia”
chiude i suoi argomenti,
in stile velocità, con un insolente: “brr…
che paura“.
De
Magistris, da Sindaco di Napoli, e protagonista
del ventennio, non è da meno, e tuona insolentemente
contro i complotti: “Qualcuno mi dice
che dovrei dimettermi.
Io credo che i giudici di quel Tribunale
dovrebbero dimettersi …
facendo il magistrato mi sono reso conto
con gli anni che la collusione,
la corruzione, il sistema criminale non appartengono solo
ai delinquenti di strada, né a pezzi
della politica, ma la situazione
è molto più grave. L’altro giorno vedevo
casualmente
che questa legge vorrebbero applicare
viene fatta dalla Severino,
ministro della Giustizia, guarda caso
difensore di una delle controparti
nel processo di Roma, guarda caso la legge viene fatta proprio
durante il processo di Roma. Io comunque
vada farò il sindaco
fino alla metà del 2016. Non ci faremo
piegare da questa melassa
putrida che mette insieme pezzi di Stato che non hanno il
coraggio
di venirti davanti e dirti io ti voglio
abbattere”.
Che dire? L’educazione politica in questo
paese è assente,
perché non sono stati mai interiorizzati, a
ogni livello
della società, nemmeno se si è prestati al
servizio istituzionale,
i principi basilari del liberalismo e del
rispetto delle istituzioni,
a prescindere dalla collocazione partitica a
destra o a sinistra.
Il nuovo
è lontano e deve ancora venire, anche se è apparso
una volta nella storia del nostro Paese, con
il suo volto
di collettività
cosciente, quel 13 Giugno 2011,
nella tornata referendaria,
quando con il voto libero di milioni
di persone si scelse per il bene pubblico e
per l’uguaglianza
di tutti, senza eccezioni, dinanzi alla
legge.
E se è apparso, forse tornerà.
O no?
Severo Laleo
mercoledì 24 settembre 2014
Un’idea di Leader e di democrazia oltre De Bortoli e Renzi
L'editoriale del direttore del
Corriere della Sera, De Bortoli,
ha avuto un'eco immediata e
straordinaria. Un po’ stranamente.
E' citato dappertutto. Anche con qualche soddisfazione,
e senza gelosie
giornalistiche.
Eppure esprime, al di là se vere o false, evidenti ovvietà
sulla personalità del Premier, note da tempo ai più.
Specie se avversari.
La notizia
dunque è solo nel fatto
che un intellettuale moderato abbia
voluto dar spazio
alla sua ritrovata sincerità rifiutando il gioco
dell’ipocrisia,
se non della piaggeria, diffuso
nella stampa italiana.
Eppure è possibile partire da De
Bortoli, dalle sue parole,
per andare oltre nella riflessione
politica, ad di là di Renzi
e della sua personalità. Oltre la
contingenza.
Ma prima della riflessione, dato il
peso politico dell’intervento
di De Bortoli, che non è nel suo
giudizio sul carattere del Premier,
vorrei esprimere un accordo pieno
sulla sua richiesta, sacrosanta,
e normale per un paese democratico e
civile, di conoscere
tutti i contenuti del Patto del Nazareno.
Non è possibile che il Segretario
del Pd e uomo delle istituzioni
in quanto Premier, possa concordare
con chicchessia,
e specie con un ex senatore espulso
dal Senato per indegnità,
e già tessera P2, una serie di
passaggi politici all'insaputa,
non dico degli iscritti a quel
partito, ma di tutti i liberi cittadini
(ogni iscritto al Pd dovrebbe
pretendere, pronto a ritirare
in caso negativo l’iscrizione, di
conoscere tutti i dettagli del Patto,
specie se il suo Segretario ha
sventolato con convinzione
la bandiera della trasparenza, bene
fondamentale per una democrazia
matura solo se non è nella disponibilità di
qualcuno).
In realtà, il Patto del Nazareno,
proprio perché determina
un programma, dovrebbe essere online.
Chiarito questo punto politico
riguardante la trasparenza,
obbligatoria sempre in politica, specie quando si
tratta di riforme,
ecco per punti la riflessione a partire dalle parole di De
Bortoli .
1. Scrive De Bortoli, e non credo
solo per fare un complimento
a questo Premier: “Una personalità egocentrica è irrinunciabile
per
un leader”. Ritiene cioè il direttore che l’egocentrismo
sia una qualità del Leader. Anzi
essenziale per un Leader.
Si può non essere d’accordo, anche
se intorno si sente diffusa
e comune l’idea della necessità per
un Leader di avere “forza
di
comando” e di decisione “senza
guardare in faccia nessuno”,
virtù dalle quali scaturirebbe la
capacità di governare il cambiamento,
a prescindere dal tipo di cambiamento.
Eppure se si riflettesse sulla
storia del potere e sulle sue modalità
di gestione, si potrebbe concludere
che se ancora abbiamo
istituzioni con un Leader “da solo al comando”
(anche per De Bortoli il leader da solo al
comando è una sciagura),
e che se attribuiamo al Leader egocentrismo, forza di
comando,
decisionismo, è solo perché il monocratismo, al
quale siamo abituati
da sempre, altro non è che l’esito storico del
maschilismo.
Senza millenni di maschilismo non
avremmo un “Leader
solo
al comando” né penseremmo mai di attribuire
al Leader la virtù dell’egocentrismo con tutti i suoi derivati.
Forse le cose sarebbero più avanti
per la democrazia
se al monocratismo si sostituisse il
bicratismo di genere:
a dirigere il governo (e i Partiti,
ad esempio)
non “un uomo solo al comando”, il monocrate, ma una coppia,
un uomo e una donna, ciascuno/a con
le sue qualità personali,
ma obbligati a dialogare/confrontarsi
prima di avviare
i processi della decisione.
E l’idea del Leader per forza
egocentrico crollerebbe subito
con gran vantaggio per la crescita
democratica della società
e per una sicura apertura a un
futuro diverso. Le conseguenze
a cascata in ogni campo sarebbero
notevoli. E s’aprirebbe
una strada per la democrazia mite e conviviale. Forse.
2. Il giudizio di De Bortoli: Renzi
“non può fallire perché
falliremmo anche
noi” non è condivisibile
perché non ha sostanza logica, e non ha sostanza politica,
non è
argomentato, è senza dati osservabili,
è solo quindi un’espressione insieme di
pensiero desiderante
e di pensiero temente, è un voler dire per forza
tra desiderio/augurio e
timore/catastrofe.
Altri, sempre senza logica e fuori arte della politica,
potrebbero esprimere un contrario giudizio e cioè:
Renzi “deve fallire, se vogliamo salvarci”.
In breve, chiacchiere morte.
O no?
Severo Laleo
martedì 23 settembre 2014
Scuola, il Presidente Napolitano cambia registro
Anche il nostro Presidente della
Repubblica, pur saggio d'età,
e di storia, cambia registro e verso nei suoi
discorsi.
Almeno quando parla di scuola. E' diventato
diretto, rapido,
persino battagliero; vuol suonare adatto ai nuovi tempi.
Parla ai giovani, perché colgano, con entusiamo le opportunità,
diano spazio alla creatività, si aprano alle tecnologie
di
avanguardia, valorizzino le eccellenze.
Si rivolge ai singoli
non all’insieme del mondo della scuola.
Divide e non tiene all’unità, anche per la
sua strana,
e inutilmente aspra, vaghezza nell’attaccare
nemici invisibili
e senza nome.
Nel 2013 il discorso del Presidente Napolitano, in occasione
dell'apertura
dell'anno scolastico, è stato complesso e incisivo
soprattutto per le persone di scuola e
contava ca. 2000 parole;
quest'anno –si sa, viviamo tempi di
rapidità- il suo discorso
conta solo 1000 parole e per scelta non pare
voglia essere
incisivo in campo scolastico. Anzi pare voler
colpire,
e badare ad altro.
Nel 2013 il Presidente parla di scuola con grande
attenzione
e convinzione. E scrive: “Imparare è
importante per l'intero sistema paese.
Ma cosa serve perché a scuola si impari meglio? I
risultati di varie ricerche ci dicono
che più di altri fattori conta l'apporto degli
insegnanti. E quindi ci si deve impegnare
a investire - in risorse e iniziative - come il
Governo ha iniziato a fare,
perché la già notevole professionalità dei nostri
docenti si rafforzi …
si ottengono buoni insegnanti non solo con un'accurata formazione e con opportuni
aggiornamenti, ma anche e molto promuovendo la trasmissione e lo scambio
nella
capacità di insegnare. Non bisogna mai smettere di imparare gli uni dagli altri,
anche
dai giovani, e scambiare quel che si è imparato. Sappiamo quante buone pratiche
vanno spesso disperse”. A ben leggere, è un Presidente ben dentro
il fare scuola,
attento a sottolineare l’importanza della
solidarietà di una comunità educante.
E non solo tra docenti: “Quello che
vale per gli insegnanti
vale anche per gli studenti. La pratica dell'aiuto
agli studi dato dai più bravi
a chi resta indietro o dagli studenti più adulti ai
più piccoli è un altro bell'esempio
di - chiamiamola così - redistribuzione dei talenti.
Invito perciò gli studenti migliori
a essere generosi e attivi nel condividere quanto
hanno imparato”.
Davvero un invito alla coesione solidale a
partire dalla scuola.
Un manifesto di unità sociale. Un discorso coinvolgente.
In una parola, da Presidente.
E non tralascia, anche nel 2013, il
discorso sul lavoro, ma l’affronta
con stile e parole precise, senza piglio
battagliero, senza inutili ismi,
e sempre indirizzando le parole alle persone
della scuola
e non a altri. “A voi ragazze e ragazzi, dico nel modo
più semplice e convinto:
la sola risposta certa che si può dare alle vostre
preoccupazioni per il futuro,
e sappiamo quali sono queste preoccupazioni, su che
cosa ci si interroga :
"avremo
lavoro e quale, qualificato e soddisfacente oppure no, potremo avere
un posto
riconosciuto nella società?", ebbene, la risposta certa a queste
vostre
domande è una sola: formatevi e
preparatevi nel miglior modo possibile.
Ve ne deve essere data, certo, la possibilità, dal
sistema d'istruzione,
dalle strutture scolastiche, dalle politiche
pubbliche. Ma almeno in parte,
in buona
parte, queste possibilità oggi esistono in Italia”. Sembra dire:
le
possibilità esistono, basta solo coglierle, la “rivoluzione”
non
è urgente. E volando alto cita le parole pronunciate all’Onu
dalla giovane pakistana Malala Yousafzai vittima di un
attentato talebano:
"Il terrorismo, la guerra e i conflitti
impediscono ai bambini
di andare a scuola. Dobbiamo condurre una gloriosa
lotta contro l'analfabetismo,
la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i
libri e le penne, sono le armi
più potenti. Un
bambino" - sentite queste parole! - "un insegnante, un libro
e una penna
possono cambiare il mondo".
E’ stile poetico, lento e profondo, ma di
grande interesse:
il cambiamento è la crescita collettiva di
una società che studia.
E’ un discorso per e non contro.
Ma quest’anno il Presidente perde ogni afflato poetico
e sembra preoccupato non
tanto di parlare al mondo della scuola,
quanto ad altri soggetti, mai nominati espressamente.
E al discorso preciso e chiaro del 2013, comprensibile a docenti e studenti,
oppone ora, nel 2014, un discorso non adeguato, in più parti,
a studenti e
docenti. E, quasi arrabbiato, dice: “Oggi non solo l'Italia,
ma tutta l'Europa sono alle
prese con una profonda crisi finanziaria, economica,
sociale: e fanno fatica ad
uscirne. Possono uscirne, Italia ed Europa, solo insieme,
con politiche nuove e
coraggiose per la crescita e l'occupazione, dirette soprattutto
e più
efficacemente ai giovani. … Ebbene, sia chiaro che per farcela ci si deve
non
già chiudere in vecchi recinti nazionali, e sbraitare contro l'Europa,
ma stringerci ancor più
in uno sforzo comune, integrare ancor più le nostre energie,
in spirito di solidarietà,
nella grande Europa unita che abbiamo via via costruito
in oltre sessant'anni”. E diventa urgente la “rivoluzione”:
“Insieme dobbiamo rinnovarci, metterci al passo con i
tempi
e con le
sfide della competizione mondiale. Specialmente in Italia
dobbiamo rinnovare
decisamente le nostre istituzioni, le nostre strutture sociali,
i nostri
comportamenti collettivi: in questo paese che amiamo, non possiamo
più
restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”.
Caro Presidente,
forse le persone presenti al suo discorso, soprattutto
gli
studenti, questa volta non credo abbiano ben compreso le sue parole,
perché il
senso del suo invito al cambiamento è diventato vago e oscuro.
E insieme di "violenta" liberazione. In breve, ha cambiato registro. E verso.
O no?
Severo Laleo
lunedì 22 settembre 2014
Conversazioni sociali
So di scrivere, per ora, solo sensazioni e
impressioni,
e lascio quindi ad altro momento la possibilità di riflettere
intorno alle cause reali. Sempre tante, comunque.
E di diversa natura.
e lascio quindi ad altro momento la possibilità di riflettere
intorno alle cause reali. Sempre tante, comunque.
E di diversa natura.
Viviamo
tempi di modernità, sicuramente di crisi,
di comunicazione onnipresente, di velocità, di impegni
a darsi da fare, di speranze per un futuro migliore per tutti,
e insieme anche di fastidio per ogni possibile intralcio
lungo il nostro cammino, anche quando a intralciare i nostri passi
sono altre persone. Sembra quasi un esercizio a individuare
il nemico per dire basta.
E Firenze persino, città, per storia e tradizione,
di solidarietà, s’adegua con i tempi.
di comunicazione onnipresente, di velocità, di impegni
a darsi da fare, di speranze per un futuro migliore per tutti,
e insieme anche di fastidio per ogni possibile intralcio
lungo il nostro cammino, anche quando a intralciare i nostri passi
sono altre persone. Sembra quasi un esercizio a individuare
il nemico per dire basta.
E Firenze persino, città, per storia e tradizione,
di solidarietà, s’adegua con i tempi.
Tre
piccoli episodi, tutti nella stessa giornata, una domenica,
e in sedi diverse.
Fortezza da Basso, mercatino. Gente serena in giro tra le bancarelle,
a guardare curiosa, sempre pronta a domandare,
e in sedi diverse.
Fortezza da Basso, mercatino. Gente serena in giro tra le bancarelle,
a guardare curiosa, sempre pronta a domandare,
a chiedere informazione, a scambiare chiacchiere,
magari sulla vita dei tarli nei mobili antichi, a comprare,
a gioire per un ritrovamento inaspettato.
Eppure una
donna di buona età, e vispa, e chiara
di voce, perché tutti si senta, a un “nonitaliano”,
seduto sul bordo del prato a vendere la sua valigia di merce,
rimprovera di occupare il suolo pubblico senza aver pagato
di voce, perché tutti si senta, a un “nonitaliano”,
seduto sul bordo del prato a vendere la sua valigia di merce,
rimprovera di occupare il suolo pubblico senza aver pagato
il dovuto. Così: “Venite a fare i furbi in
Italia, tornatene
di dove siete venuti!”.
E il tuo giro per le bancarelle incrocia la lotta tra poveri.
E il tuo giro per le bancarelle incrocia la lotta tra poveri.
Centro,
chiesa del ‘700. Cappelle di storia e di carità.
E’ finita la messa, si va in pace. Nei pressi dell’uscita,
ancora dentro la chiesa, un mendicante, forse abituale, chiede
E’ finita la messa, si va in pace. Nei pressi dell’uscita,
ancora dentro la chiesa, un mendicante, forse abituale, chiede
e ottiene un’elemosina. “Non gli
dovete dare niente a questi
–sussurra un uomo di Chiesa- già prendono un sussidio di 30 €
al giorno (sic!). Li prende lei 30 € al giorno?”.
E il tuo segno di croce di saluto d’uscita diventa pesante.
–sussurra un uomo di Chiesa- già prendono un sussidio di 30 €
al giorno (sic!). Li prende lei 30 € al giorno?”.
E il tuo segno di croce di saluto d’uscita diventa pesante.
Sempre
Centro, tavolini di un bar. Un bicchiere di birra artigiana.
Una giovane donna, per tutti noi zingara, senza altre distinzioni,
Una giovane donna, per tutti noi zingara, senza altre distinzioni,
gira tra i tavoli a chieder un aiuto, anzi recita proprio un “aiutatemi”.
Un'altra giovane donna, senza alcun problema, lascia scivolare
Un'altra giovane donna, senza alcun problema, lascia scivolare
centesimi nella sua mano. “Che fai –ammonisce la signora del bar,
senza chiedersi minimamente se l’è lecito- questa è una ladra
senza chiedersi minimamente se l’è lecito- questa è una ladra
non va aiutata. E’ sempre qui a rompere”.
E la tua mano, pur libera, si chiude gelata e paziente nella tasca.
E la tua mano, pur libera, si chiude gelata e paziente nella tasca.
Forse
qualcosa sta davvero cambiando e non è nel verso giusto.
O no?
Severo Laleo
Severo Laleo
sabato 20 settembre 2014
Art. 18? Una questione di dignità
Gli economisti e gli studiosi di diritto
del lavoro di formazione
liberale e di comportamento conservatore,
che oggi si dicono riformisti
solo per realizzare riforme sì, ma di ritorno
al passato,
a prima cioè dello Statuto dei Lavoratori, tentano con numeri e
tabelle
di spingere il governo di centrosinistra a realizzare appunto la “riforma”
del lavoro per risolvere la crisi economica e occupazionale;
e il nostro Premier,
socialista, ha già da tempo scelto questa strada,
a suo dire, moderna, egualitaria,
senza vincoli frenanti, convinto
di un radioso futuro per l’Italia; e non ha
remore a superare quell’antico
disegno, pur socialista, degli anni settanta di
restituire/garantire dignità
a ogni lavoratore/lavoratrice, oggi diventato un freno
per la crescita
occupazionale. Le convinzioni son convinzioni e non distinguono
tra destra e sinistra!
Gli economisti e gli studiosi di diritto
del lavoro di formazione
per così dire di “sinistra” e di comportamento sindacal-progressista,
votati a difendere le conquiste del passato in quanto conquiste
di libertà e
dignità, pur trattando tabelle e numeri, non riescono
più a convincere il
governo amico di centrosinistra a estendere,
senza riduzioni di sorta, proprio quelle garanzie di dignità e
libertà
di un tempo a ogni nuovo lavoratore/lavoratrice del nuovo Millennio,
soprattutto a partire dal superamento del precariato, quale segno vivo
–il superamento- di
civiltà e di inveramento della democrazia.
Ma a bloccare la strada per una vera eguaglianza di diritti e condizioni
nel lavoro è il cedimento verso l'ideologia della Libera Crescita.
Intanto il gioco di botta e risposta, misto di informazione
e propaganda,
più abile e subdolo da parte del governo, e più scontato e ingenuo
da parte sindacale, già minaccia la democrazia della trasparenza
e della
partecipazione. E in questo gioco le persone in carne ed
ossa,
tutte giovani persone, Luigi, Anna, Francesco, Maria, Peppe perdono
la
propria identità, chiusi nei vagoni irrespirabili della precarietà.
Non servono numeri e tabelle per dire
quanto la precarietà
di queste giovani persone abbia aggravato la crisi: Mario,
ad esempio,
complice la solitudine della precarietà, non si è sposato, non
ha/vuole figli,
non compra casa, non affitta un appartamento tutto per sé,
non
ha un progetto definibile/definito, non gli interessa la macchina,
sopporta a
stento le istituzioni, giusto per educazione democratica,
incassa anche, lascia
fare, gli ottanta euro, insieme a qualche spicciolo
genitoriale, ma per
resistere non parla del suo lavoro a tempo
perché non gli appartiene, non parla
del suo salario, perché è misero,
è stanco di lottare, e frequenta coetanei/e
negli apericena e nei viaggi,
tanto per guardar lontano, affondando ora tra tavolini di plastica
ora tra e cielo e mare l’opprimente precarietà.
Ma per risolvere la crisi –ormai gridan
tutti- la flessibilità/precarietà,
ampia e ancora ampia in entrata, è
d’obbligo, fondamentale
per la ripresa economica, e la residua tutela dell’art.18 è un
ostacolo
da abbattere lungo la strada felice della futura piena occupazione.
E per questo obiettivo, senza il minimo dubbio,
uomini e donne di governo
risuscitano un’antica retorica, un po’ rozza e di
mitezza assente:
“andiamo avanti”, “tireremo diritto”, “non molliamo”,
manca solo “chi
si ferma è perduto” e la guerra è servita.
Si va alla guerra comunque. E la guerra ha
già i suoi due fronti:
da una parte i fautori della libertà di assumere e
licenziare
(qualcuno, nonostante la presenza socialista, potrebbe dire,
finalmente
chiara è la parte destra), dall’altra i fautori del diritto di
lavoratori/lavoratrici
di non essere mai licenziati senza una giusta causa
(e
qualcuno potrebbe dire, finalmente chiara è la parte sinistra).
Eppure anche contro questa guerra esistono e si battono i pacifisti
(anche se
hanno nomea di essere di sinistra!), che insistono sul dovere
del dialogo e
dell’accordo anche tra le parti in reale conflitto,
tutti i datori di
lavoro, italiani, stranieri e delocalizzati, e tutti i lavoratori,
stabili, precari e alla
ricerca di occupazione, nel discreto e generoso supporto
del Governo e
nell’attenzione competente e risolutiva del Parlamento.
Perché il punto “limite”, oltre il quale a nessuno è consentito andare,
soprattutto
quando in gioco è la vita delle persone,
è sempre il rispetto dell’ homo
dignus, anche nel lavoro.
Sia per l’estensione della civiltà, sia per
suggerimento etico-giuridico
dell’art.1 della Dichiarazione dei DU.
O no?
Severo Laleo
martedì 12 agosto 2014
L’intelligenza liberale, l’oligarchia e il referendum
Ilvo
Diamanti e Eugenio Scalfari, pur
non credendo
alle mire autoritarie del nostro Premier, e quindi al pericolo
dell’autoritarismo
–in verità il discorso non riguarda il Premier
e le sue mire, ma l’oggettivo,
osservabile, misurabile danno in senso
autoritario provocabile dalla riforma
costituzionale in itinere- definiscono comunque
il giovane Premier,
con un tuffo nel
passato, giù fino ai tempi della Grande
Riforma
(era d’obbligo allora la
maiuscola!), un “nuovo” Craxi, e escogitano
per l’occasione una
terminologia ad hoc: per Ilvo Diamanti il disegno
del Premier è una “democrazia
personale”, per Eugenio Scalfari
il tratto del Premier sa di “egemonia
individuale”.
L’intelligenza liberale di Diamanti e Scalfari, per noi tutti
un alto stimolo per ogni discorso critico
sulla società,
appare questa volta strabica, perché
bloccata da un’analisi
ad
personam, quasi succuba di una visione esclusivamente leaderistica
della
politica; colpisce, e quasi stordisce, questo
lor trovarsi d’accordo nell’attribuire alle
mire di una persona
(sempre un uomo da noi e non è un caso: quando una Merkel* anche in Italia?)
quanto è
oggettivamente solo una conseguenza
sia della fragilità politica, in termini di
personale responsabilità, trasversalmente,
di una classe dirigente, sia la
diffusa assenza
di cultura liberale in un Paese facile agli
innamoramenti.
Craxi
a suo tempo non andò mai oltre il 15%, perché le persone
allora nella cabina
elettorale non semplicemente sceglievano
un partito o un leader, ma versavano
nell’urna una scheda
piena di vita reale e orgogliosa di
un’appartenenza forte.
Anche quando sbagliata, per costrizione
clientelare.
Non è più così.
La discesa in campo di Berlusconi, ammiratore di Craxi,
contribuì a sbaragliare le appartenenze con
la sua retorica bombardante
dell’”Io”,
e la democrazia, nel bene e nel male,
dei partiti si trasformò, complice il voto,
in “democrazia personale”
o in “egemonia
individuale”. Nacque allora il capo, il padrone,
impropriamente il leader. E quel passaggio,
alimentato acriticamente a destra,
al centro e a sinistra (e qui con gravi conseguenze ancora oggi visibili)
da troppi imitatori, ha oggi ripreso vigore, dopo il tentativo non
riuscito
di Bersani di “uccidere”
il leaderismo smargiasso, in nome di una democrazia
a più ampia partecipazione, e senza
inganni.
Berlusconi
è stato sì sconfitto nelle urne dal centrosinistra
di Bersani
–sa Iddio quanto ha inciso il Presidente Napolitano
nel liquidare il tandem Bersani/Letta!- e da un corpo
elettorale deciso
a chiudere una brutta pagina della storia d’Italia,
ma la sua sconfitta non ha segnato
un’inversione di rotta
nella modalità del “far politica”.
Anzi quella modalità si è trasferita inopinatamente
nel “nuovo” Pd.
Il Berlusconi
catturato ha catturato l’Italia furbesca,
allegra, manovriera
e maschilista, l’Italia
di “una mano lava l’altra”,
di “chiudi
un occhio”, di “basta con lacci e lacciuoli”,
di “ora
si diventa tutti ricchi”. In altre parole l’Italia comunque,
certo tra gli altri, di Razzi e Scilipoti.
Capita così di vedere oggi il “nuovo” della sinistra protetto
dal “vecchio”
della destra. In una terribile intesa cordiale.
Questo è il dato.
Non c’entra quindi nulla con il rischio di
autoritarismo
la “democrazia
personale” del Premier né
c’entra la sua “egemonia individuale”,
c’entra al contrario la cultura politica senza etica
e senza personale e critica responsabilità
di un gran numero
di addetti alla politica. Una cultura accomodante,
insieme supina
e feroce, pronta a ferire le persone (e di
questo Letta ha un’esperienza
diretta),
ma soprattutto una cultura senza memoria.
Chi ha vinto le elezioni nel 2013? Con
quale programma?
Chi ha diviso il centrosinistra tra
maggioranza e opposizione
contro il volere degli elettori? Chi
utilizza una legge elettorale incostituzionale,
il Porcellum, per riformare la Costituzione?
Quali elettori hanno consentito al Pd di avere un’ampia maggioranza alla
Camera?
L’intelligenza liberale può anche ragionare
di “democrazia personale”
e di “egemonia individuale”, e preferire
l’oligarchia, anche se degli eletti,
ma solo il referendum, attraverso una
decisione diretta,
dirà della qualità della nostra democrazia.
A prescindere dalle interpretazioni di un Premier.
E’ già successo, nel giugno 2011, grazie
anche a una sinistra
con le idee chiare. E succederà ancora.
E il ciclo originato da Berlusconi e perdurante nei suoi
epigoni
avrà la sua fine. Una volta per tutte.
O no?
Severo Laleo
* Forse gli anni
della Merkel al potere, alla fine, al
di là di ogni altra valutazione,
grazie alla “serietà”,
sul piano etico-politico, della persona, regaleranno alla Germania,
alle nuove generazioni, una limpida educazione nella
direzione della parità di genere, e quindi
della democrazia del dialogo tra pari, più di quanto un
pur sistematico progetto educativo
possa offrire.
Al contrario, da noi i guasti del
berlusconismo sono già chiari a tutti
e continueranno purtroppo a pesare ancora a lungo,
perché parte di un’intera generazione
ha subito per un qualche aspetto il suo “fascino” di
prepotenza semplificatoria. Anche nell’agire politico.
venerdì 8 agosto 2014
Nessuno fermerà il cambiamento … dei “gentiluomini”
Mentre tutto intorno sembra di corsa cambiare,
almeno questo è il ritornello, e già s’agita
il “nuovo” dell’avvenire,
per l’astuzia della storia,
tornano i “gentiluomini” con i riti segreti degli antichi patti.
E sì, ormai è chiaro a tutti, l’Italia e il
suo futuro assetto costituzionale
sono semplicemente, d’ora in avanti, sempre
più,
nelle mani dei “gentiluomini”. Naturalmente maschi.
E i “gentiluomini”,
a dire del capogruppo di Forza Italia in Senato,
anch'egli gentiluomo, i “gentiluomini”, appunto, sono Renzi
e Berlusconi.
E’ solo grazie a questi due “gentiluomini” se il ddl Boschi di riforma costituzionale
è
stato approvato. Tutto il resto è contorno insipido,
coreografia pomposa,
sceneggiata urlata. A partire dal
Presidente del Senato. Peccato!
Tutto il resto non serve: i “gentiluomini” hanno forza per
decidere da soli.
In questo senso non mancano le dichiarazioni
di soddisfazione.
Soprattutto nella destra berlusconiana
(in verità nel Pd qualche motivato sussulto di “libertà
di voto” ha aperto
un qualche spiraglio contro il conformismo di sempre: almeno non si
potrà più,
grazie ai dissidenti Pd, continuare a dire, con Gobetti,
che gli italiani hanno animo di schiavi).
Ed ecco le dichiarazioni. Inizia il gentiluomo Paolo Romani:
“Il voto di oggi è la dimostrazione che Forza Italia è
protagonista
e fondamentale, senza di noi non ci sarebbe stata la maggioranza“.
E continua, trionfante: “Mi auguro che l’asse con il Pd terrà
anche sull’Italicum perché
il patto fra Renzi e Berlusconi
è un accordo fra gentiluomini”.
Proprio
così.
E la soddisfazione di Forza Italia continua anche nell’animo del
nostro Premier,
ormai sicuro, grazie
a 183 senatori, tra i più “vecchi” del Senato
– i senatori “nuovi” non hanno votato-, di non trovare più ostacoli
sulla strada
di cambiare l’Italia e pazienza se gli arnesi sono i più vecchi
possibili.
E anche il metodo.
Eppure
l’affermazione del nostro Premier
"nessuno
può più fermare il cambiamento"
è il segno evidente di una latente,
per ora, sconfitta politica.
In realtà la via del cambiamento è senza tracciato
sicuro,
perché il destino dell’Italia non dipende più dal dialogo istituzionale
libero
e aperto di un Parlamento, non dipende più da una condivisione giocata
con la nobile arte della politica, coinvolgente anche quando i voti sono
divaricanti, non dipende più dalla forza
di argomentazioni convincenti, ma dal
patto con Silvio Berlusconi.
E segna
una frattura insanabile. Forse ora, nell'attimo, gradita ai più,
perché solletica
la rabbia con l’invenzione della semplificazione.
Ma il controllo del voto non
può durare all'infinito.
E gli infingardi di comodo dell’oggi saranno gli
infingardi di comodo domani.
Chissà, forse il “nuovo” giunge già vecchio
e oscuro, se per “cambiare”
il Paese c’è bisogno solo dell’accordo tra due “gentiluomini”.
Come una volta, con una stretta di mani. magari democratica.
O no?
Severo Laleo
P.S. La senatrice a vita Elena Cattaneo ha motivato la sua astensione
individuando con
serena lucidità tre aspetti critici del percorso legislativo:
"il contesto generale di scarso ascolto e il
linguaggio inadatto",
"un dibattito troppo condizionato da strategie di
governo e di partito",
un progetto "tecnicamente pasticciato e
frettoloso, non in grado di indicare l'esito,
l'assetto, l'equilibrio, la
visione del nuovo assetto costituzionale".
E ha aggiunto: "Non mi convince la non elettività
dei senatori, non mi convince
la modalità di elezione del presidente della
Repubblica”.
Da condividere in pieno.
O no?
mercoledì 6 agosto 2014
L’inciucio non cambia “verso” anche se avanza il “nuovo”
C’è qualcosa di sempre, di immodificabile, quindi di
vecchio, quasi a “verso”
obbligato, qualcosa di stantio muffigno, e ora persino maleodorante,
nei ripetuti incontri tra gli statisti Renzi e Berlusconi.
E’ la costante del maschilismo puro e duro, per nulla
scalfito da obblighi
di quote rosa o da impegni per la parità di genere,
strombazzate,
queste ultime novità, a ogni piè sospinto, solo là dove la
gestione del servizio
del potere è trasparente, in qualche modo, e
controllabile e aperto a tutti.
Ma, quando si tratta di combinare accordi, pur non richiesti
dal “popolo”,
per il futuro assetto costituzionale dell’Italia, e magari per
gli interessi elettorali
e privati di una ditta con nome e cognome, nel più eclatante
dei conflitti
di interesse e nel più disonorevole dei contratti, se disonorevole
è la fedina
penale, la più disonorevole possibile per credibilità pubblica, di almeno
un contraente, fedina sciacquata e pulita, a dire anche dei “nuovi” statisti,
dal voto degli italiani, allora, proprio quando si tratta di combinare accordi,
il cerchio si chiude, immancabilmente, intorno a pantaloni di grisaglia “classici”,
a riga perfetta, e a blue
jeans scanzonati, senza riga.
Nell'assenza totale, non registrata dalla stampa “democratica”,
non contestata
dal “democratico” Pd, dell’occhio indiscreto, e forse
inaffidabile a quel livello
di statisti, di una qualche donna. Nemmeno una Serracchiani!
E così ti capita di vedere vecchi mal vissuti, quelli comunque da rottamare
in qualsiasi altra
situazione di/per propaganda, diventare padri di una Patria,
ma, forse per
vergogna, solo nel segreto di un colloquio.
Berlusconi e Letta, ultrasettantenni, già generazione
da boom,
sorretti dal “giovane” Verdini,
da una parte, e la generazione “nuova”
dei quarantenni, figli comunque
del ’68, ma, per ironia della
storia,
a travolgente ambizione di potere, dall'altra: e l’Italia di sempre
torna vittoriosa
nel canto dei galli senza un minimo cambiamento.
Il dominio maschile è immarcescibile. E non cambia “verso”.
Chissà, forse un incontro, anche senza streaming, tra Rosy Bindi
e Berlusconi non avrebbe generato sospetti di inciucio.
O no?
Severo Laleo
domenica 13 aprile 2014
Annunziata e l'elogio (antico) del monocratismo
Scrive Annunziata a proposito e della infinita discussione intorno alle quote
rosa e della decisione di Renzi (e del PD?) di candidare, in testa alle cinque
liste per le elezioni europee, cinque donne: “Si fa esattamente così:
altro che quote rosa. Un giorno il Premier si sveglia e dice
“capolista tutte donne“, e il giorno dopo ancora “ai vertici
delle più grandi aziende pubbliche tante donne””.
rosa e della decisione di Renzi (e del PD?) di candidare, in testa alle cinque
liste per le elezioni europee, cinque donne: “Si fa esattamente così:
altro che quote rosa. Un giorno il Premier si sveglia e dice
“capolista tutte donne“, e il giorno dopo ancora “ai vertici
delle più grandi aziende pubbliche tante donne””.
No, invece, non si fa così. Una democrazia avanzata e matura,
tra persone alla pari, esige regole, e se le regole non si scrivono,
con chiarezza e trasparenza, a partire da una legge per la Riforma
dei Partiti (è la riforma delle riforme, senza la quale tutto il resto,
nuovo o vecchio, può solo diventare imbroglio), la democrazia resta
casuale. Nelle mani di un/a capo/a.
dei Partiti (è la riforma delle riforme, senza la quale tutto il resto,
nuovo o vecchio, può solo diventare imbroglio), la democrazia resta
casuale. Nelle mani di un/a capo/a.
La parità uomini/donne non può essere la scelta di una persona
in solitudine, una scelta cioè dipendente dalla volontà
di un Premier. Illuminata/o o no. Anche Hollande, rispettando
la promessa elettorale, aprì il suo esecutivo a donne e uomini
in numero pari. Ma pur resta la sua “apertura” una “graziosa” concessione.
E’ tempo di andare oltre.
La parità uomo/donna non può legarsi nella sua realizzazione
alla decisione personale e “illuminata” di un “organo monocratico”,
a prescindere dal suo “genere” maschile/femminile.
a prescindere dal suo “genere” maschile/femminile.
La parità, in breve, non può più dipendere dalla soggettività
di un Premier: deve diventare una norma.
Deve diventare normalità.
Se non irrompe, la parità uomo/donna, anche nel livello
“monocratico” di ogni “governo”, la nostra società continuerà
a restare imbrigliata nelle antiche strutture di potere
di esclusiva produzione maschile. Il monocratismo dovrà cedere
al bicratismo, al governo duale, di un uomo e una donna insieme.
Anche la scalata alla parità uomo/donna attraverso le quote rosa
non riuscirà mai a scalfire la struttura maschilista
della nostra organizzazione sociale, se non spezza il monocratismo.
Per aprire una via possibile al cambiamento della società,
anche nella direzione dell’estensione della democrazia
e della trasparenza, e soprattutto della formazione di una decisione
pubblica non più condizionata/dominata da una cultura di genere maschile,
in tutte le “sedi/luoghi” di natura decisoria, soprattutto
di pubblica utilità, la presenza uomo/donna non può non essere pari, anzi,
dovrà essere pari.
dovrà essere pari.
Altro che il “tante donne” grazie alla sensibilità del Capo!
In realtà, il monocratismo, il potere/dominio, cioè, di uno solo,
anche per via democratica, è proprio l’esito peggiore del maschilismo,
con tutte le sue degenerazioni, dal leaderismo carismatico all’uomo
della Provvidenza. E non merita elogio.
con tutte le sue degenerazioni, dal leaderismo carismatico all’uomo
della Provvidenza. E non merita elogio.
Il maschilismo cade solo insieme al monocratismo.
La pratica della parità non può continuare a essere nelle mani
di un “monocrate”. Forse solo il bicratismo perfetto potrà segnare
una nuova stagione di cambiamento.
O no?
Severo Laleo
domenica 6 aprile 2014
Scalfari, Creonte e la sovranità conviviale
Ecco, anche se tardiva, qualche opinione personale di Scalfari
sul Presidente del Consiglio: “Renzi è un populista che combatte
il populismo in casa d’altri ma lo applica in casa propria.
Dicono gli osservatori che circa cinque ore al giorno sugli schermi
delle varie trasmissioni televisive appare lui con la sua facondia,
la sua capacità di ispirare simpatia, il fascino seduttivo che emana dal suo
viso, dai suoi gesti, dalla sua figura. Renzi persegue l’obiettivo di guadagnare
consensi e stravincere alle prossime europee. La tecnica seduttiva
non si impara, ci si nasce.
Poi con il tempo e l’esperienza la si affina e se ne fa uno strumento
di potere a favore del partito di cui si ha la guida, e se l’operazione funziona
porta al possesso di quel partito. Questo è Renzi. Con le caratteristiche
di Berlusconi senza i vizi e i crimini di Berlusconi. È il figlio buono e bravo
di Silvio e infatti lo dice e ne è alleato e lo sosterrà, pronto però a pugnalarlo
alle spalle se dovrà in qualche modo evitare la sconfitta alle europee….
Nella storia moderna il populismo, i partiti personalizzati, le leadership
assolute e il decisionismo sono diventati conseguenze inevitabili
del suffragio universale, perciò il livello della politica e la qualità del bene
comune sono precipitati in basso. A noi piacerebbe risollevarli, usare
la critica responsabilmente tutte le volte che ci sembri necessario,
sostenendo anche ciò che non ci piace se non vi sono alternative disponibili.
Ma le alternative – se non ci sono – bisogna comunque prepararle.
Ecco un ruolo che possiamo e dobbiamo assumerci con il massimo impegno.
Informare la gente e aiutarla a capire educandola alla democrazia.
Non è facile ma è ciò che abbiamo tentato di fare per tutta la vita”
(la Repubblica, 6 Aprile 2014).
Siamo d’accordo e apprezziamo il ruolo di Scalfari di volere
“educare alla democrazia“. Ma non basta. Bisogna imparare a praticarla,
la democrazia. Con forme e regole nuove. Insieme alle persone.
Alla pari. Non solo attivando ogni tipo di marchingegno per vincere
nel mercato dei voti. La democrazia non può reggersi solo
sulla “sovranità elettorale“; la sovranità elettorale, il semplice esercizio
del voto, può produrre e produce il populismo. E l’astensionismo.
E premia il leader più seducente. E non ha limiti, se continua a votare
un berlusconi di tanta fama. O un Grillo o un Renzi, novelli interpreti
del bene comune.
Ma il bene comune non appartiene a “uno solo“. E’ un concetto chiaro
già dall’antichità. Nella tragedia di Sofocle, Antigone, c’è un passaggio
nel dialogo tra il re Creonte e il figlioEmone, illuminante.
Dice Emone al padre re Creonte: “Città non è quella ove uno solo può“.
E Creonte risponde, piccato: “Ché! Non è del sovrano la città?”
Ecco la verità della democrazia, con meraviglia del Creonte di allora
e di tutti i creonti passati e futuri:
la città dove “uno solo può” non è “città“.
Il nuovo compito della democrazia è appunto costruire la città.
Ed è il compito della sinistra democratica.
Costruire, con più partito e senza creonti, la “sovranità conviviale“.
Nella Grecia di oggi, se la sinistra ha trovato una linea politica comune
e insieme i voti, è perché nella crisi e nelle difficoltà delle persone
non ha inventato, scimmiottando la destra, un nuovo leader pigliatutto,
un suo creonte, ma ha praticato, dal basso, solidarietà e partecipazione,
ricostruendo un tessuto sociale distrutto dalla crisi e dai tagli, e ha affidato
a un leader, sì giovane (Tsipras), non il compito di catturare voti
seducendo gli elettori, ma il più profondo compito di tradurre in proposte
politiche di solidarietà il dolore delle persone. Per opporsi alla deriva populista,
ora anche del Pd, è necessario, a sinistra, praticare una via diversa,
visibilmente e immediatamente diversa, anche nell'organizzazione
delle regole di democrazia interna, ed è la via non dell’applauso
ma della condivisione, non del monologo ma del dialogo,
non dell’arroganza ma della prudenza,
non dell’ambizione personale ma della responsabilità sociale,
non della “sovranità elettorale” ma della “sovranità conviviale”,
attraverso la quale è possibile forse generare democrazia.
O no?
Severo Laleo
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