venerdì 28 settembre 2018

Basta diventare un "peso" per uscir di vita?


Caro Scapece,

questa volta ti propongo una riflessione pesante: riguarda il suicidio.
Già so la tua reazione. Non ti preoccupare, puoi anche non rispondermi,
rispetto molto il tuo sforzo di voler gestire le tue letture e i tuoi pensieri
senza inutili turbamenti e con animo sereno e leggero.
Perciò leggi pure con un distacco a tua misura questa mia lettera.

In particolare, la mia riflessione riguarda il suicidio premeditato,
il suicidio cioè che non scaturisce da situazioni di insopportabile sofferenza
e disagio, ma, come dire, da una scelta di vita. Una scelta di “riduzione” della vita.
Sì, perché Paul Lafargue, il suicida, non è un malinconico lagnoso
e depresso, pieno di tutti i mali, ma un giovanotto di sessantanove anni
ancora arzillo, pieno di vita e di progetti e corrisposto in amore
da un’intelligente donna, di sessantasei anni, Laura, figlia di Karl Marx.

Anche Laura muore suicida, ma di lei non si parla quasi mai;
Lafargue stesso, nella biglietto lasciato a giustificazione del suo gesto,
non ha una parola per la sua compagna di una vita: mistero,
o semplicemente il solito ego “eroico” maschilista. (Lafargue muore
per seguire una “sua teoria”, Laura, forse, per seguire il “suo uomo”
anche nella morte.) La differenza è da registrare, anche al fine di comprendere
i diversi “eroismi”.
E leggiamo questo biglietto. Scrive Lafargue:
Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che la vecchiaia impietosa,
che mi tolse a uno a uno i piaceri e le gioie dell'esistenza
e che mi spogliò delle risorse fisiche e intellettuali,
non paralizzi la mia energia e non spezzi la mia volontà
facendomi divenire un peso per me stesso e per gli altri.
Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settanta anni.”
Ecco il lucido timore (e insieme constatazione) di Lafargue
diventare un “peso” per sé e per gli altri, 
per colpa dell'impietosa devastante vecchiaia.

Ora se la scelta personale non può essere giudicata,
al contrario il ragionamento merita una risposta.
Basta, per chiudere con la vita, per uscir di vita,
il semplice diventare un “peso” per sé e per gli altri?
O forse ai vecchi incombe un altro dovere, 
quello di saper “fare il vecchio”, 
di "saper essere vecchio” sul serio?*

Il biglietto comunque si chiude con un grido di gioia e vitalità:
Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro,
la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà.
Viva il Comunismo.
Viva il Socialismo Internazionale!”
Vabbuò, ja!

O no?
Severo Laleo

*R. Simone, La mente al punto

mercoledì 26 settembre 2018

Dovremmo essere tutti femministi … ma insieme

Dovremmo essere tutti femministi è il titolo di un volumetto
-in realtà si tratta di una versione rivista di un intervento preparato
per una conferenza del 2012- di Chimamanda Ngozi Adichie,
una scrittrice nigeriana, nota anche, e non solo, per il fortunato
romanzo L’ibisco viola.

La scrittrice, in questo suo intervento, racconta personali esperienze
della sua vita, significative sul piano della comprensione delle differenze
tra generi, a partire da un episodio, gradevole a leggersi,
capitatole negli anni della scuola elementare in Nigeria.
(Scoprì allora bambina, con gran disappunto, che il capoclasse doveva
per forza essere un maschio, nonostante la sua prova, per la promozione
a capoclasse, secondo le indicazioni della maestra, avesse ottenuto
il miglior risultato!)
Uomini e donne -scrive Chimamandasono diversi...Le donne
sono leggermente più numerose degli uomini (il 52% della popolazione
mondiale è femminile), ma la maggior parte dei posti di potere
e di prestigio è occupata da uomini. Wangari Maathai, attivista keniana
e Nobel per la Pace morta nel 2011, l’ha sintetizzato perfettamente così:
più sali e meno donne trovi.” Vero!

E a conclusione del suo discorso giunge a una sua definizione
di femminista: “la mia definizione di ‘femminista’ è questa:
un uomo e una donna che dice sì, esiste un problema con il genere
così com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio.
Tutti noi, uomini e donne, dobbiamo fare meglio.”

Si può essere d’accordo. Il problema della disuguaglianza reale
di condizioni tra il vivere da uomo e il vivere da donna è innegabile
(è facile dire, soprattutto dalle nostre parti, i tempi sono cambiati!)
in ogni civiltà e paese sia pure in gradazioni molto diverse tra loro,
ed è anche innegabile che potrà essere superato solo con l’impegno
partecipe di uomini e donne insieme.
La parola d’ordine è “insieme”!

Eppure, nonostante l’impegno a superare insieme i condizionamenti culturali
ancora sfavorevoli per le donne, in realtà il fine resta sempre quello
di poter sostituire l’uomo con la donna là dove si esercita il potere, senza
modificare di un millimetro l’attuale struttura dei poteri, tutti o quasi
di struttura monocratica, almeno all’apice, struttura derivante direttamente
dal millenario dominio maschile.
“...gli uomini -continua Chimamanda- governano, nel vero senso della parola,
il mondo. La cosa poteva avere senso mille anni fa, quando gli esseri umani
vivevano in un mondo in cui la forza fisica era la qualità più importante
per sopravvivere. La persona fisicamente più forte aveva più probabilità
di diventare il capo...Oggi viviamo in un mondo profondamente diverso.
La persona più qualificata per comandare non è quella più forte.
E la più intelligente, la più perspicace, la più creativa, la più innovativa…
Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, innovativo,
creativo..”
Forse la soluzione non è chi, da solo, uomo o donna che sia, 
ma chi, insieme, un uomo e una donna. Non il monocratismo, ma il bicratismo.

O no?
Severo Laleo

mercoledì 19 settembre 2018

Lavoro domenicale, Napoleone e la sinistra




A proposito del dibattito sul lavoro domenicale/festivo,
per ora limitato al settore del commercio, intervenne, a suo tempo,
in linea generale, anche Napoleone, esprimendo 
-l’uomo, si sa, ha una sua grandezza!-
la sua visione etico-politica della società.

Così scriveva nel maggio 1807:
Più i miei popoli (ah, quanti leader ancora oggi gridano: il “mio popolo”!)
lavoreranno, meno ci saranno vizi.
(la salute morale dei popoli è sempre stato un vizio dei dittatori!)
Io sono l’autorità [...] e sarei disposto a ordinare che la domenica,
dopo le funzioni religiose, si riaprano le botteghe e le fabbriche,
e gli operai tornino al loro lavoro”.*

Forse, comunque giunga, una riduzione dell’orario di lavoro, 
con la sua conseguente idea politica di stabilire un limite 
all'attuale carico di lavoro, sempre più oppressivo,
a favore di un più ampio esercizio della libertà personale, 
senza dubbio, ha un’anima di sinistra.

O no?
Severo Laleo

* Ho trovato la citazione in Paul Lafargue, Diritto all’ozio; ovviamente
il testo tra parentesi è mio.

venerdì 14 settembre 2018

Lafargue, un rivoluzionario contro gli eccessi a difesa del limite





Paul Lafargue, “di formazione proudhoniana, marxista dagli anni sessanta,
organizzatore delle prime formazioni socialiste in Francia e Spagna,
intellettuale militante e polemista” (il giudizio è di Lanfranco Binni,
curatore del volume “Il diritto all’ozio”, appunto di Paul Lafargue),
così scrive ad inizio d’opera nella Dedica ai suoi collaboratori
del periodico parigino «L’Égalité»: “Cari compagni, con occhi attenti
e la passione in cuore siamo partiti in guerra contro la società capitalista
che schiaccia l’operaio come la mola il grano. I borghesi, nostri padroni,
questi figli degeneri dei Rabelais e dei Diderot, predicano l’astinenza.
La loro morale capitalista, penosa parodia della morale divina,
ha sommerso di anatemi le passioni umane; il loro ideale
è la trasformazione del produttore in una macchina che fornisca lavoro
senza tregua né pietà. Rialziamo la bandiera dei materialisti
del Rinascimento e del XVIII secolo, proclamiamo alla faccia di tutti i bigotti,
di tutti i collitorti della chiesa economica e della chiesa cristiana,
che la terra non deve essere più una valle di lacrime per la classe operaia,
che nella società che costruiremo, «pacificamente se sarà possibile,
altrimenti con la violenza», ogni passione umana sarà libera di esprimersi
perché «tutte sono buone per loro natura, dobbiamo solo evitarne il cattivo uso
e gli eccessi» (Descartes, Le passioni dell’anima). E per evitarne il cattivo uso
e gli eccessi bisogna che trovino un reciproco equilibrio liberandosi tutte.

A volte anche un libertario ateo può trovare sostegno in un filosofo
saggio e (pare) buon cristiano.
O no?

Severo Laleo



giovedì 23 agosto 2018

Kierkegaard, l'amore del prossimo e il commerciante Nathanson



Caro prof. Scapece,
mi capita raramente di essere triste dopo aver letto un libro. Sì, uso per brevità il termine triste, ma la sensazione  di disagio emotivo e intellettuale è più complessa. Forse è solo disturbante.  E questa volta ho voglia di sfogarmi, perciò scusami se ti coinvolgo. Lo so, è solo un mio bisogno, ma sopportami. Almeno avrò la tua comprensione benevola (è la tua specialità!).
Ascolta. Ho letto, sia pure con qualche salto, ma con una motivata curiosità, l'opera di S. Kierkegaard, Atti dell'amore, e vi ho trovato con sincera partecipazione riflessioni profonde soprattutto per chi vuole capire la portata ampia e travolgente dell'amore dal punto di vista cristiano. E mentre leggi, sai, ti viene cara e ammirevole la figura dell'autore, quasi vorresti imparare a sentire e a praticare se non altro il suo rigore etico, specie se hai qualche problema con  la dimensione religiosa. Le pagine sull'amore del prossimo sono convincenti; Kierkegaard pare prenderti per mano e condurti con le sue illuminanti e chiare parole ad amare il prossimo, non quello invisibile, ma il prossimo così come lo si vede nella realtà. E riesce a convincerti. E qui la grandezza dell'uomo ti appare in tutta la sua benignità, in tutta la sua mitezza e ti viene di immaginarlo pieno di umana comprensione ed empatia. In breve incapace di cattiverie. Un uomo buono, aperto, civile. Un uomo di carità.

Macché! Leggendo in appendice una sua polemica verso un suo recensore dilettante, il commerciante Nathanson, "che aveva mostrato di aver letto il libro con simpatia" (a dar ragione a Cornelio Fabro, curatore del volume), t'accorgi di quanto sarcasmo e disprezzo ad personam sia capace il grande filosofo dell'amore cristiano. E senza motivo!
Sono triste, caro Scapece. Sono triste. Non riesco a immaginare come possa tanta  cultura e dottrina d'amore diventar nulla, sparire d'un tratto, a causa di quell'insopprimibile vanità propria del maschio di voler distruggere l'altro in duello, azzerandolo: per Kierkegaard, il commerciante Nathanson, per la sua attività letteraria,  è  uno 0/zero. E il giudizio si estende a toccare la persona.
Altro che amor del prossimo!
Per fortuna, caro Scapece, grazie al dono gratuito della tua mitezza, d'istinto e colta, posso comprendere anche Kierkegaard e insieme prendere qualche distanza.
È difficile praticare l'amore paolino (se non hai l'amore...).
O no?
Severo Laleo

domenica 24 giugno 2018

Macron l'autocrate e il bicratismo



Dichiara a Huffpost la scrittrice francese Annie Ernaux:
"Emmanuel Macron? È un autocrate con il desiderio 
di restaurare la monarchia, c'è qualcosa di molto violento che non viene percepito dagli osservatori e che si sta producendo durante la sua presidenza".

"Qualcosa di molto violento...".
È un  giudizio, per quanto possa capire, convincente.
Una violenza politica non sempre
percepibile/percepita è stata anche ed è ancora la cifra di nostrane recenti leadership, a sinistra (si fa per dire!) e a destra,  tutte segnate, al pari dell'autocrate Macron,  da un monocratismo maschilista.
Se si analizzano i caratteri di fondo di queste leadership, balza agli occhi il tratto del maschilismo: l'ipertrofia dell'io! E insieme un'arrogante, inutile attitudine al duello tipica del maschio Alfa, pur in assenza di un antagonista reale. A prescindere.

Basta. Se a questa riduzione della Politica a braccio di ferro, a urla scomposte, a prove di forza dell'autocrate di turno, non si risponde, almeno a sinistra, in opposizione e a mo' di esempio,
con una guida politica duale, di un uomo e una donna insieme, mite, perché ragionata e condivisa, la democrazia continuerà a soffrire. E molto.
O no?
Severo Laleo



domenica 17 giugno 2018

La libertà è sempre indivisibile



A leggere i sondaggi, oggi in giro, riguardanti l'orientamento 
della "gente" nei confronti della decisione del governo 
di sbarrare la strada a chi fugge da guerre e fame, 
la stragrande maggioranza, oltre il 60%, si dichiara 
favorevole a questa politica di bloccare ogni nuovo arrivo. 
A prescindere.
Per la precisione il 64%!
Praticamente, per il 64% della 'gente' d'Italia, 
è giusto che i paesi civili, e noi tra questi (mah!), si possa 
decidere secondo il nostro volere e interesse 
del destino dei poveri del mondo.
Voglio scrivere subito, anche se solo per poche persone amiche, 
che non sarò mai in quel 64%.
E non perché sono buonista, 
non perché ho una antica formazione cristiana, 
non perché all'origine della nostra cultura occidentale 
è scritto anche il rispetto per ogni straniero, 
non perché sono di sinistra, 
non perché ho letto Bauman, 
non perché sono convivialista, 
non perché per l'estensione dei diritti 
ha speso una vita Stefano Rodotà, 
non perché voglio negare la gravità del problema,
semplicemente perché ritengo che ogni persona, 
per il semplice fatto di essere in vita, 
dovunque sia nato nel mondo, 
qualunque sia il colore della sua pelle, 
qualunque sia la quantità di beni in suo possesso, 
abbia il diritto di scegliere, in sua libertà, 
dove andare, che fare, che pensare, 
con un solo limite: il rispetto della libertà del suo simile, 
della persona dell'altro.
Se il principio è in sé valido, ed è riconosciuto valido, 
ogni organizzazione sociale e stato, singolarmente 
o in "federazione/associazione", ha il dovere 
di predisporre ogni strumento e misura per la realizzazione 
di tanto diritto. 
Per una nuova politica universale dei diritti.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 13 giugno 2018

Italia Francia, gara di civiltà





Vomitevole” l’Italia e “cinica”.
Francia “ipocrita”.
Ecco, in Europa è nata la civiltà. 
E questo scambio è una conferma.

In realtà senza un progetto di civilizzazione,
ogni civiltà ha un destino di morte.
Ed è mai possibile condividere 
un progetto di civilizzazione sull’ ”esclusione”?

Ancora una volta tutto crolla, 
solo perché i poveri del mondo bussano alle porte.


O no?
Severo Laleo

lunedì 11 giugno 2018

Aquarius a Valencia: un nuovo umanesimo socialista




La nave Aquarius, con 629 migranti a bordo, 629 persone,
grazie alla solidarietà umana del socialista spagnolo 
Pedro Sanchez, pare abbia la possibilità 
di navigare verso il porto di Valencia finalmente 
per un approdo d’accoglienza.
Valencia! E’ piccola l’Europa!

Pedro Sanchez apre, con il suo tempestivo e senza calcoli intervento,
la strada a un nuovo umanesimo.
In Europa, da oggi, si dovrà parlare di migranti non più in termini
di chiusure per convenienza, ma in termini di aperture per solidarietà.
E in questa Europa, già sede della fondazione della moderna civiltà,
all’Italia di oggi tocca purtroppo la “voce grossa” del NO
del rifiuto esagitato, giocato sulla pelle di persone in cerca di nuova vita,
alla Spagna la voce piena del SI’, dell’accoglienza operosa,
per l’offerta di un’opportunità.

I 629 migranti, persone migranti, scendendo nel porto di Valencia,
onoreranno, con la propria presenza di povertà estrema
e con il proprio grido d’aiuto, la memoria di J. L. Vives,
a Valencia nato nell’ultimo decennio del 1400.
J. L. Vives, da cittadino d’Europa (e del mondo), di fronte alla moltitudine
impressionante e crescente di persone povere nelle città dell’Europa,
cercò di “capire” la situazione e s’adoperò per trovare una soluzione
a tanta deplorevole invasione di mendicanti di ogni provenienza.

Per J.L.Vives è compito dei governanti trovare le risposte adeguate
ai bisogni dei poveri del mondo, qualunque sia la causa della povertà,
con un piano strategico di accoglienza fondato su assistenza, lavoro,
istruzione. Semplicemente.
Capire e risolvere, nel rispetto della dignità della persona.
I governanti non possono tollerare -scriveva J.L.Vives nel 1526-
che fame e sofferenze opprimano i cittadini anche se forestieri.

Forse a partire da Valencia, nel nome di Vives e Sanchez,
s’accenderà in Europa la scintilla di un nuovo umanesimo socialista,
e Salvini sarà solo un accidente.
O no?
Severo Laleo

giovedì 7 giugno 2018

Piersanti, Piersanti



Del Rio è sempre sembrato, almeno a me, politico senza luce propria, 
soprattutto nell'attuale contesto da continuo spettacolo 
nel quale la Politica si è ridotta.

Eppure quel suo gridare "Piersanti, si chiamava Piersanti
ha riportato la Politica alla sua originaria dignità di relazione 
tra persone in una polis.  
E il suo gridare di sincera commozione ha svegliato 
una  assemblea distratta di "popolo". 
Dal suo animo offeso è scaturita anche una funzione di guida, 
non da "capo",  ma da persona capace di interpretare il sentire 
di tutti nel suo partito.

Il nuovo presidente del consiglio ha una memoria inadeguata 
e una palese assenza di empatia; forse sarà il miglior interprete 
della nuova figura del cambiamento di presidente ostaggio.
Per ora ha dimostrato di avere le migliori doti per questo ruolo.
O no?
Severo Laleo

sabato 2 giugno 2018

Il Limonov di Carrère: un affare!




Caro prof. Scapece,
è un po’ che non ci si sente. Come va? E il tuo ginocchio?
Che vuoi, dopo i 65 anni, con la pensione, cominciano i piccoli guai,
quando va bene. Meno male che si legge ancora.

Sai ho finito di leggere l’altro giorno il “Limonov” di Emmanuel Carrère.
Vuoi sapere? In verità, una qualche delusione m’è rimasta addosso,
specie a lettura inoltrata, fino a quasi pentirmi di aver partecipato
alla giostra del suo successo letterario. Non posso tornare indietro.

Carrère inventa apposta il “suo” Limonov, almeno s'avverte,
e attraverso il racconto della di lui vita
costruisce un testo in molte pagine godibile, a volte ben informato,
ma sempre giocato sul versante di un linguaggio/mondo
ai limiti di una disfunzionale volgarità generale. (p. 124)
Carrère ha voluto scrivere un libro da successo di vendite; 
Limonov gli è servito e basta; e peccato non sia stato il suo eroe 
ammazzato da Putin come Litvinekenko, così il libro avrebbe venduto 
non dieci, ma cento volte di più in tutto il mondo”. (p.355)
E a Limonov il “servizio” di Carrère ha regalato una fama enorme.
Convenienze reciproche tra un maschio scrittore di buona famiglia,
attento al successo (la logica del fallito/non fallito domina il suo mondo)
e un maschio povero poeta di periferia, ansioso di “andare lontano”.

Per capire il contesto culturale e personale dell’interesse di Carrère
per Limonov basta leggere quanto l’autore scrive a p. 125,
dove chiaro è l’obiettivo fondamentale della vita sua e di Limonov:
non ridursi a “comparsa”. Un libro autobiografico
a coprire una strumentale biografia.

Naturalmente so quanto tu sei più equilibrato nel valutare i testi,
ma qui voglio comunicarti brevemente solo le mie impressioni.
Che vuoi che ti dica: ho trovato sparso per ogni pagina 
un maschilismo infantile (spesso falso, ma autentico quando inespresso),
espressa un’idea di guerra oltre ogni limite anche ieri (p.125),
reale il disprezzo sentito per “l’informe massa dei perdenti” (p.140),
cosificate le presenze femminili, e inesistente un’idea di intelligenza
senza pietà (“Un cattivo figlio? Forse, ma intelligente, e quindi senza pietà.
La pietà rammollisce, la pietà avvilisce...p. 208).
E il tutto in un continuo tentativo, a volte proprio noioso,
di piegare il suo stile a "colpire" il lettore.

Un libro scritto ad arte per fare un affare. Ed è stato anche insignito
del Prix Renaudot: mah!
Forse noi della generazione del ‘68, non comprendiamo
tutta questa esaltazione dell’”energia”, delle “avventure straordinarie,
scandalose, sordide”, in una parola, tutto questo straparlare dell’ego,
perché abbiamo coltivato altri sogni e ora siamo (si dice ancora?) out.
O no?
Severo Laleo



martedì 29 maggio 2018

I capipartito (maschi), gli inutili rappresentanti del popolo e la fine del M5S






Non so se è stato già notato, ma in questa corsa al voto,
in questo bisogno di tornare a sentir la voce del popolo sovrano
qualcosa non funziona, molto appare falso e ingannevole 

e comunque non “democratico”.

La cronaca. 
Due maschi capi partito hanno voluto ad arte, 
con piena consapevolezza, in nome del "popolo" italiano,
rompere con la Presidenza
della Repubblica senza minimamente sentire
il dovere democratico di ascoltare i propri parlamentari
circa il rischio di una così pesante frattura istituzionale
e della fine della legislatura.
A che servono deputati e senatori se due maschi capi partito
hanno nelle loro mani, senza consultare gli eletti del popolo
(cioè proprio quei rappresentanti di quel popolo
che si vuole ora di nuovo chiamare alle urne),
il potere assoluto di decidere, come e quando vogliono,
il destino di un intero parlamento?
Donde deriva tanto potere?
E’ legittimo in una democrazia parlamentare?
Poveri i nostri rappresentanti e povera la nostra democrazia!

Negli ultimi anni, almeno a partire da Berlusconi, i rappresentanti 
del popolo hanno perso via via la loro libertà di voto
e insieme il diritto di parlare, anche perché spesso, a causa di leggi 
elettorali incostituzionali, hanno preferito accovacciarsi con comodo 
dietro qualche leader (si fa per dire!)
potente di soldi e/o bravo di chiacchiera.
Scadendo l'idea di democrazia nella cultura personale, ogni leader “nuovo”
ha sempre tentato, attraverso i più diversi strumenti, di ridurre
le sedi e le occasioni di dialogo e discussione e di ampliare 
il potere decisionale sempre più nelle mani del “monocrate” di turno.
Ricordate: per Berlusconi bastava il sì del capogruppo!
la discussione in aula era di troppo, una perdita di tempo.
Se uno ha i "suoi" deputati così ragiona!

E oggi, dopo altri per fortuna tentativi bloccati, si vuole toccare 
la Costituzione proprio là dove la libertà del singolo parlamentare 
è garantita (assenza del vincolo di mandato).

Purtroppo è stata abbandonata definitivamente l’idea
di una democrazia parlamentare, del dibattito, del dialogo,
a parità di genere, e si è consentito a nuovi leader di diventare “capi”
di truppe silenti e acclamanti. 
E questa corsa verso il “capo” di turno ha di nuovo maschilizzato le truppe
in termini di cultura politica, favorendo le personalità forti
in ambizioni, arroganza e aggressione. 
Eppure mitezza e prudenza e cura sono qualità della politica.

Dispiace soprattutto per voi parlamentari del M5S; 
perdere la propria libertà di rappresentanti del popolo 
così senza far sentire la vostra voce in un passaggio fondamentale 
della formazione del governo è davvero deprimente; 
che “uno vale uno” valga almeno tra voi!
Dal silenzio a diventar fantocci il passo è breve. 
Eppure non riesco a immaginare deputate e deputati del M5S
votare per Ruby nipote di Mubarack!
Siete o non siete diversi voi?

Se il nostro Paese è ora in queste condizioni la colpa è anche della vostra 
inettitudine politica, del vostro silenzio, del vostro obbedir cieco. 
Forse è necessario un vostro orgoglioso scatto di libertà, nuovo, onesto, 
da parlamentari, rappresentanti del popolo sovrano. Altrimenti è la fine.
O no?
Severo Laleo

domenica 27 maggio 2018

Costituzione, “capi di partito” e popolo




Si è riusciti, anche a costo di sofferte divisioni 
tra amici e familiari, e "compagni", 
a difendere la Costituzione 
nella normalità di un referendum, 
e ora due "capi di partito", 
già a parole difensori della Costituzione, 
hanno in mente, 
con un atto fuori norma di irremovibilità ignorante
-nel senso neutro del termine-, 
di svuotare di fatto l'art. 92 della Costituzione, 
con il negare al Presidente della Repubblica, 
solo pro tempore Mattarella, 
la facoltà di "nominare" i ministri su "proposta"
del Presidente del Consiglio, 
riconoscendogli solamente una semplice facoltà di "firma", 
confondendo così, con ingannevole forzatura, 
le idee a tanti elettori. 

La sovranità è vero appartiene al popolo, 
ma questa sovranità deve essere esercitata 
nelle forme e nei "limiti" della Costituzione.
E il Presidente della Costituzione è garante
e ha il dovere di un suo rigoroso rispetto
a tutela sì di tutto il popolo!

O no?
Severo Laleo

lunedì 26 febbraio 2018

Tutti (o quasi) per la democrazia. Ma quale?




Per orientarsi al voto (se non si è ancora stufi) esistono tante strade.
Una strada, forse la più semplice e obbligata,
almeno per una persona civile, è di non dare il voto a persone
non degne di rappresentare la Nazione
(ogni tanto il termine si può usare).

Se nel tuo collegio esiste la più remota possibilità
di eleggere, in un modo o in un altro, nell’uninominale o nel plurinominale,
una persona con problemi non risolti con la giustizia,
incompatibili con una funzione pubblica,
(può essere la migliore persona, ma non è obbligata a candidarsi,
e può ben continuare a fare politica fuori dalle istituzioni!),
non dare il tuo contributo alla sua elezione;
e lascia perdere simpatia, chiacchiere e promesse:
la democraziaha bisogno soprattutto di legalità.

Se ti trovi sulla scheda un veterano delle clientele, un imbroglione schedato,
un bugiardo acclarato, un pischello beccato con le mani nella marmellata
(l’uso del solo maschile è qui giustificato dalla statistica), non sbagliare,
scegli un’altra persona in un altro schieramento,
compatibile con qualche tua idea, ma seria: 
la democrazia ha bisogno soprattutto di serietà.

Un’altra strada è di non dare il voto a chi ha procurato ferite al tuo modo
di intendere la vita delle persone; qualche esempio: a chi ha cancellato
l’art. 18, a chi ha votato questa legge elettorale togliendo al popolo sovrano
il diritto di scegliere senza interferenze di partiti padronali
i propri rappresentanti; a chi ha impedito la realizzazione dell’esito
del referendum sull’acqua pubblica; e così via, ognuno trovando 
il suo esempio, a sua misura, a difesa dei suoi interessi dei suoi valori: 
la democrazia ha bisogno pieno della sovranità popolare.

La strada più faticosa, quasi impossibile,
è leggere i programmi dei partiti. Eppure qualche volta,
e per qualche argomento dirimente, ad esempio l’idea di democrazia,
diventa necessario leggere e informarsi, se si vuole partecipare
con un voto di consapevole adesione progettuale.
La democrazia ha bisogno di responsabilità personale.

Tutti i programmi comprendono argomenti utili per il governo del paese,
ma non tutti i programmi esplicitano con chiarezza quale idea
si ha della democrazia, tranne i programmi del M5S, di LeU
e di Potere al Popolo.

Qualche sottolineatura è utile per marcare le differenze.
Nel programma del M5S si parla di un’attenzione alla qualità
della democrazia e s’introduce, almeno per l’elaborazione/approvazione
del programma (“il primo programma al mondo votato online dai cittadini”!)
la pratica di una democrazia diretta online; ed è concreta nel M5S
la preoccupazione di incrementare la “democrazia partecipativa”;
indubbiamente il M5S sui temi della democrazia diretta,
della partecipazione dal basso, al di là di ogni possibile critica,
è impegnato da tempo, e ha avuto il merito di aver battuto molto,
ampliando l’agenda politica del Paese, sul tema di una democrazia
il più possibile partecipata. Anche se i risultati non sono brillanti.

Per Potere al Popolo la democrazianel suo senso vero e originario
è soprattutto “restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione
e sulla distribuzione della ricchezza” . Si tratta per Potere al Popolo
di un’idea della democrazia sostanziale e non solo formale
E strumento per raggiungere l’obiettivo di una democrazia sostanziale,
è il “controllo popolare”, cioè “una palestra dove le classi popolari
si abituano a esercitare il potere di decidere, autogovernarsi e autodeterminarsi,
mettendo in discussione le istituzioni e i meccanismi che le governano”.
E per una simile “rivoluzione” servono tanti tanti auguri.

Liberi e Uguali, dopo aver individuato “nella crescita delle diseguaglianze
il principale fattore di crisi dei sistemi democratici”, esplicita
il suo progetto “di ricostruzione dello Stato democratico
e della sua insostituibile funzione economico-sociale”,
coltivando l’idea, anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie,
di “incrementare la trasparenza e la partecipazione democratica”.
Chiaro il quadro dell’analisi, ma difficile il compito di ricostruzione,
se non diventa priorità in un accordo possibile di governo.

Forse se riesce a svilupparsi nei più l’idea di una democrazia
strettamente legata alla realizzazione di uno dei suoi fondamenti,
la sovranità popolare, magari anche attraverso esperienze e strumenti
di democrazia diretta, online o in “palestra”,
se riesce a svilupparsi nei più anche l’idea di un legame forte
tra democrazia e uguaglianza, si riuscirà anche con più efficacia
a ostruire con determinazione la strada ai filibustieri della politica,
di ogni genere e risma, alla corruzione dilagante, al danarismo avvilente,
alle limitazioni della libertà e dei diritti inalienabili della persona,
all’esclusione premeditata dei più deboli e dei più bisognosi di accoglienza.
O no?

Severo Laleo