domenica 13 marzo 2011

Perché oggi siamo l’Italia, noi.


Perché noi gente del Sud, uomini e donne di un promontorio di periferia,
sdraiato al sole nel mare Adriatico,
dobbiamo festeggiare il 150° anniversario dell’unità d’Italia?
Perché?
Perché dobbiamo festeggiare, noi, che pure ricordiamo
i nostri briganti di bosco, d’ingenuità ribelli violenti, sterminati a tradimento,
i nostri contadini e pastori, strappati alla terra, soldati per forza, senza terra,
i nostri primi studenti di scuole comunali, povere, senza aiuti di Stato,
i nostri timidi giovani, spogliati di speranze, esclusi dalla corsa “piemontese”,
i nostri sapienti operai e mastri, rubati di lavoro, trasferito alla modernità del nord,
le nostre operose famiglie impoverite da un’economia coloniale?
Perché?
Perché in quel dolore del Sud abbiamo imparato
a capire il nostro Risorgimento,
a dialogare con i nostri maestri liberali e antiborbonici,
a cantare i nostri “Fratelli d’Italia”, morti dappertutto per l’Unità,
a emigrare dai nostri paesi, per correre la fortuna nel mondo,
a morire per la nostra Resistenza, per costruire da Ventotene l’Europa,
a scrivere la nostra Costituzione, senza spaccare il Paese,
a donare la nostra cultura a tutti, senza paure,
a diventare cittadini del mondo, con l’orgoglio italiano,
a superare l’egoismo straccione, con l’accoglienza solidale,
a rifiutare le voglie di secessione, con la difesa dell’unità del Paese,
a respingere l’isolamento nelle proprie tradizioni, con il rispetto di ogni cultura.
Perché noi gente del Sud, uomini e donne di un promontorio di periferia,
sdraiato al sole nel mare Adriatico,
dobbiamo festeggiare il 150° anniversario dell’unità d’Italia?
Perché quest'Italia, oggi, siamo noi.
O no?

mercoledì 9 marzo 2011

Il coraggio di fare da sole. E un commento

da "La Repubblica"
Il coraggio di fare da sole di GIULIA BONGIORNO
Caro direttore, di fronte al declino morale, politico e sociale che caratterizza oggi il nostro Paese, molti invocano  -  come "indifferibile"  -  un rinnovo della classe dirigente.
La soluzione più immediata con la quale si immagina di venire incontro a questa diffusa esigenza di rinnovamento è il ricambio generazionale: volti giovani, selezionati con criteri rigorosamente meritocratici, al posto di quelli anziani. Tuttavia questo ricambio, in sé auspicabile, sarebbe insufficiente: svecchiare su base meritocratica oggi non basta. Oggi serve anche altro. Perché tra il passato e oggi c'è il caso Ruby, che ha cambiato profondamente le donne italiane: non sono più disposte a sopportare le umiliazioni, né ad accettare la subdola tecnica della minimizzazione, ovvero il ridimensionamento delle anomalie di cui sono vittime. Lo stesso premier continua a citare pubblicamente il bunga bunga con un sorriso sulle labbra che sarebbe inspiegabile, incomprensibile, se non fosse diretto a suscitare l'indulgenza, quando non la complicità e l'applauso, di chi lo ascolta. Probabilmente, con il preciso scopo di trasformare nell'ennesima barzelletta quell'"opzione harem" che non è in grado di giustificare.
Subire passivamente la tecnica della minimizzazione, lasciando che il tempo sbiadisca la vergogna, sarebbe un errore gravissimo, per gli uomini come per le donne. Al contrario, il caso Ruby deve rimanere scolpito nella memoria di tutti come un monito, un exemplum in negativo  
dal quale prendere le distanze con sdegnata fermezza e che ci aiuti a orientare le nostre scelte.
Se le donne vogliono scongiurare il ripetersi di una umiliazione così rovinosa è necessario che si facciano promotrici e protagoniste di una trasformazione culturale rivoluzionaria il cui primo traguardo è una presenza più consistente delle donne stesse all'interno della classe dirigente: alla guida del paese, alla testa delle aziende, ai vertici delle istituzioni culturali e dei media. Soltanto quando ricopriranno ruoli di potere, questa trasformazione potrà compiersi davvero.
In quel momento, tutto il peggio subìto dalle donne nel corso della storia diventerà una faretra di frecce al loro arco. Nessuno come loro, abituate da sempre a faticare il doppio per realizzare i loro desideri e raggiungere i loro obiettivi, costrette a inventarsi un giorno dopo l'altro una strategia di sopravvivenza tra casa e luogo di lavoro, chiamate continuamente in causa da compagni, mariti, figli, genitori, che richiedono cure e attenzioni, è in grado di ascoltare, riflettere, mediare. Di trovare soluzioni anteponendo il bene comune al proprio. E allora, parafrasando il titolo di un bel romanzo uscito qualche anno fa, "un giorno, quel dolore sarà utile".
Si assisterà all'esito naturale di un processo che ha già preso avvio e che deve realizzarsi in maniera sempre più consistente, ampia e diffusa: i sacrifici sostenuti dalle donne per affermarsi impediranno loro di usare i festini hard come criterio di selezione della classe dirigente e le spingeranno a ricercare e a distinguere, costantemente, il merito; le discriminazioni patite le indurranno a rifiutare leggi ad personam e le guideranno nella formulazione di norme che assicurino una giustizia uguale per tutti, mentre l'assenza di forme di tutela legislativa che le ha penalizzate in passato le condurrà a rispettare, sempre, anche le leggi non scritte; e le contestazioni con le quali si sono ribellate ai soprusi e alle ingiustizie le porteranno ad accogliere le critiche come contributi costruttivi, anziché a respingerle per partito preso come forme di insubordinazione fini a se stesse. D'altro canto, dal momento che alle donne non è mai stato perdonato niente e i loro errori li hanno sempre pagati cari, se sbaglieranno sapranno lasciare il comando immediatamente - di certo, comunque, prima che qualcuno invochi le loro dimissioni. E infine, dato che non dimenticheranno il caso Ruby, rifiuteranno come ripugnante la sola idea di usare il loro potere per risolvere questioni private.
Ecco perché le donne devono avere il coraggio di pretendere di essere protagoniste. Ma devono pretenderlo subito e non aspettare un imprecisato futuro in cui si realizzeranno le condizioni adatte. Non c'è tempo per aspettare e soprattutto è inutile illudersi: nessuno creerà quelle condizioni, nessuno agevolerà l'ascesa delle donne, nessuno offrirà loro quelle chances. Le donne devono fare tutto da sole. Ma sono abituate anche a questo. 

Presidente Bongiorno, condivido pienamente le sue riflessioni.
Vorrei solo aggiungere:
1. per quanto riguarda il "ricambio generazionale", perfettamente d'accordo, in linea generale, ma vorrei si considerasse la sofferenza di chi, oggi non più giovane, è stato espulso dalla possibilità di diventare parte della "classe dirigente", a causa di una sua serietà/onestà di fondo; la storia di queste espulsioni non è stata ancora scritta;
2. l'ostinazione degli uomini nell'ostacolare il merito di donne, e uomini, è soprattutto figlia del maschilismo endemico e ignorante di questo nostro Paese;
3. per avviare una "trasformazione culturale rivoluzionaria"  sono necessarie anche regole nuove; per quanto mi riguarda, da militante della sinistra, sono favorevole, insieme ad altri, alla proposta di una codificazione di una regola semplice semplice, ma utile alla "rivoluzione culturale": l'elezione, a livello di organizzazione di partito, dai circoli al livello regionale, di due coordinatori/segretari, un uomo e una donna (a mio parere anche a livello nazionale, romperebbe quel connubio ancora stretto, almeno in Italia, tra maschio e potere!);
3. diffiderei degli "esiti naturali" di un processo di affermazione del merito sino a quando permarrà, nelle coscienze e nell'educazione diffusa (non da parte della scuola, ma delle altre agenzie) delle nuove generazioni, la sirena irresistibile di un danarismo avvilente;
4. da uomo di scuola, separerei il "caso Ruby" dalla persona "Karima"; se Ruby avesse incontrato, per un qualsiasi caso, altro Presidente del Consiglio e altri uomini, noi oggi si parlerebbe della storia personale di una ragazza difficile di nome Karima, da aiutare nella sua cresita, e non del "caso Ruby"; il caso Ruby è l'esito obbligato di una sottocultura di fondo maschilista, aggravata da un indecente strapotere economico, che rende vile ogni rapporto;
5. i "criteri rigorosamente meritocratici" sono ancora da venire; serviranno decenni di educazione etico-politica, educazione oggi assente nelle scuole, per dare un senso sociale al merito; l'italico familismo amorale macchia di egoismo il senso dello Stato; ancora oggi non riesco a capire attraverso quali prove di "merito", certo molto severe, sia passato il Balducci per diventare "gentiluomo del Papa", e ancora adesso non riesco a capire perché, per quali meriti, possa essere definito democratico, moderato, liberale e cattolico, e uomo vicino alle gerarchie di Chiesa, il sottosegretario Letta (Gianni), se del Berlusconi, l'uomo del caso Ruby, è il più potente braccio destro.
E per ultimo, credo abbia ragione anche Saviano, quando afferma l'importanza di una lotta alla luce del sole alle mafie e a ogni tipo di corruzione.
O no?

martedì 8 marzo 2011

Le mimose quest’anno...


Le mimose quest’anno lasciamole sugli alberi.
Lasciamo ai gialli fiori a capolino
di stringersi alle proprie radici,
di nutrirsi di linfa fino in fondo,
di respirare l’aria dei nuovi tepori,
di colorare i giardini di gioia solare,
di stendersi alti nei rami ai chiacchierati balconi,
di giocare intrecci leggeri con giovani foglie,
di cantare silenti profumi d’oro.
Le mimose quest’anno lasciamole sugli alberi.
Al nuovo fiorire orneranno di giallo più intenso
la dignità oggi perduta:
in una triste caserma di Roma;
nei discorsi danarosi di mamme ruffiane;
nelle ville a cancelli per carriere unte di vecchio.
Le mimose quest’anno lasciamole sugli alberi.
Severo Laleo

sabato 5 marzo 2011

Elogio (forse) di Fini





Voglio subito precisare i limiti di quest'elogio:
1. non è scritto da un esperto di storia della politica italiana;
2. è un’analisi "ideologica", in quanto afferma, e non dimostra,
la sincerità, e il disinteresse, del percorso culturale, etico, politico del nostro; 3. è figlio del desiderio di un educatore, e della sua passione democratica, convinto dell'utilità di offrire agli allievi gli strumenti di una "liberazione" personale continua; 4. riguarda la persona Fini e non coinvolge tutti i suoi seguaci (parola, si spera, in via di estinzione).
Proprio da questo punto di vista dell’educatore il percorso di Fini è esemplare. Ed esprime al grado più alto il successo della libera pratica della riflessione critica e democratica.
Anzi, tra tutti gli uomini politici della sua generazione, o giù di lì, folgorati sulla via di Damasco, molto spesso da luce di carriere e soldi, e senza reale conversione, Fini è tra i pochissimi a essere ancora dentro un “suo” cammino, libero, aperto, difficile e, per giunta, dai nemici e, a volte,
da amici,  ostacolato, perché il suo cammino non è omologabile ai percorsi normali di accasamento dei tanti nel silenzio e/o nell’adulazione, anzi appare pericoloso di per sé, per il suo esempio di autonomia di giudizio.
Nel ‘68 Fini sceglie, emotivamente, di essere dall’altra parte, ma del ’68 conserva il coraggio della “contestazione”, del “pagare di persona”, e affronta a viso aperto, proprio per affermare la sua libertà di critica, il barone del Popolo della Libertà (quel barone ricco e generoso, quant’altri mai, ma pronto a ogni violenza, se non gli si consente il diritto “suo”  di regalare generosità!);
negli anni ’70,  ’80 e ’90 segue, sceglie e difende il fascismo,
ma imparerà, tanto lentamente quanto profondamente, a comprendere il ruolo fondamentale dell’antifascismo nella difesa dei valori democratici, l’essenza violenta di ogni totalitarismo, l’orrore dell’olocausto; dopo la svolta di Fiuggi, e negli anni a seguire, sceglie di partecipare ai governi di Berlusconi, sino a fondere il “suo” partito nel Popolo della Libertà,  ma, pur gratificato dal suo “generoso” Premier dell’alto onore della Presidenza della Camera,  non rinuncia, per questo, a tener vivo nella destra italiana il dibattito sui problemi dell’immigrazione, sui temi etici, sui diritti civili, attraverso una lettura sostanziale dei valori fondanti della Costituzione,  la libertà, l'uguaglianza e la giustizia sociale; in questi ultimi tempi sperimenta la sua guida politica in una nuova forza politica.
Un percorso di questa natura, costruito negli anni, senza miraggi di conseguir e/o conservar prebende, è di grande ammirazione e appare lineare, lindo, perché non segue le pieghe tortuose degli opportunismi. Eppure, lungo la linea del cambiamento continuo, almeno due tratti (insieme ad altri) della sua formazione continuano a vivere di antica coerenza: l’onestà intellettuale e materiale (la vicenda Montecarlo appartiene agli errori in buona fede!), e il rispetto della legalità. Anche i percorsi di maturazione dell’uomo Fini, pari ai percorsi di ognuno di noi, appaiono di grande rispetto, e proprio per rispetto, meritano il silenzio degli altri (e anche il nostro).
Da uomo di scuola ho dialogato con molti allievi di destra (tutti gli alunni sono uguali davanti..al professore!), ho offerto ogni possibilità di approfondimento, suggerendo letture e accogliendo proposte di letture (fu così che conobbi Evola!), ho sempre creduto nella speranza, per questi miei cari allievi, di un “ritrovamento”, un domani, anche per caso, dei valori della Costituzione, per anni, senza successo, ma con caparbietà pedagogica, ho opposto ai discorsi di Fini, così sentiti dai miei allievi, i miei insegnamenti, ed oggi provo una serena gioia nell’ascoltare i discorsi di Fini, diversi dai miei, ma dentro la nostra Costituzione.
Non credo, quindi, a chi, anche nella mia parte, vuole ancora marcare dei distinguo sul piano della serietà democratica del Presidente Fini. A mio avviso, sarà anche merito della fermezza democratica di Fini, acquisita in campo aperto, se nel nostro Paese il populismo dai diversi padri, ma soprattutto nella sua versione di danarismo avvilente, sarà sconfitto. E sarà un merito grande.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 2 marzo 2011

Il dovere delle opposizioni: un’alleanza di “inveramento liberale”


E’ ora. L’Italia ha bisogno urgente di una grande alleanza di “inveramento liberale”, da dichiararsi subito al Paese, da parte di tutte le opposizioni, a voce piena, a prescindere dai numeri in Parlamento, altrimenti la macchina da guerra, approntata a difesa del Capo dal Popolo della Libertà, contro tutte le Istituzioni, a partire dalla Camera, già ferita a tradimento dal voto bugiardo dei 315, e ora con l’invenzione del conflitto tra poteri, spargerà dietro di sé solo macerie. La maggioranza è disposta a tutto; e non ha freni “liberali”; se perde il Premier, implode. Ma le forze dell’opposizione hanno un dovere storico, ora, e non domani; devono restituire all’Italia quel che il fascismo, il leghismo, il berlusconismo hanno sempre consapevolmente negato, e che nella Prima Repubblica, neppure Dc e Pci, sia pure per altre ragioni, mai riuscirono a dare: una visione, appunto, “liberale” della democrazia, dove la responsabile serietà del civico comportamento del rispetto delle regole sia abito comune di ogni cittadino; abito per il quale, ad esempio, un ministro, reo di aver copiato parte di una tesi di dottorato, senta il bisogno di dimettersi. 
Questo è l’ obiettivo fondamentale, questa la “rivoluzione”, senza la quale il nostro paese da una parte sarà sempre vittima di populismi e trasformismi, a danno del bene pubblico, dall’altra sempre pronto a correre dietro il proprio “particulare”, continuando semplicemente ad aggiornare la strategia dell’”arrangiarsi”. Basta!
Contro il populismo affaristico, spavaldo e illiberale dell’oggi berlusconiano, bisogna unire tutte le forze “liberali” dell’opposizione. prima del diffondersi, ancora una volta, dell’inchino al capo, troppo facile in Italia, almeno a leggere la nostra storia. Bisogna costruire un’alleanza aperta, ampia, di respiro “liberale”, con quanti condividono questo obiettivo politico della trasformazione “liberale” del nostro Paese, sia per salvare le nostre attuali istituzioni democratiche e insieme estendere i processi per una democrazia avanzata (penso, ad esempio, alla pratica della trasparenza assoluta); sia per concordare, con i possibili alleati, una via d’uscita, rapidamente praticabile, dal precariato; sia per modificare la legge elettorale in senso “liberale”. Solo se governerà, per i prossimi cinque anni, una grande coalizione “liberale”, con l’obiettivo precipuo di praticare insieme, restituendo credibilità alla politica e fiducia alle nuove generazioni, i fondamentali della democrazia (e spero della giustizia sociale), sarà possibile domani alla sinistra di essere “sinistra”, alla destra di essere “destra”, al centro di essere “centro”, e ai trasformisti di professione, a quel punto, di essere “fuori”. Ora è d’obbligo recuperare democrazia e libertà, e insieme passione civile, reale e non virtuale, vissuta e non gridata, tanto attesa dalle nuove generazioni. Tutte le opposizioni, quindi, da Vendola a Fini, si siedano intorno a un tavolo, per aprire un vero confronto “liberale”, comprensibile a tutti gli elettori. E si vedrà, il solo porsi insieme delle opposizioni intorno a tavolo, subito, ora, con grande chiarezza “liberale”,  aprirà riflessioni utili anche nell’altro campo. Ora, a fronte unito e schiere serrate, non immaginabili. E aprirà anche a una nuova selezione “liberale” delle classi dirigenti.
O no?
Severo Laleo

martedì 1 marzo 2011

Preferisco la piazza ai salotti tv.


Preferisco la piazza ai salotti tv. Meglio la folla.
Anche se il giudizio comune sulla folla non è benevolo.
La folla urla, la folla è irrazionale, la folla è violenta.
E' rabbiosa la folla. Triste è la folla. La folla è da evitare.
Eppure la folla di donne ( e uomini) del "se non ora quando" 
del 13 Febbraio ha mostrato il volto nuovo 
della gioia dell'essere insieme,
nel difendere, con la presenza nelle piazze, la dignità di genere.
Quella folla ha innalzato i cartelli dei diritti,
ha rivendicato la scelta libera dell'amore,
ha marcato l'esistenza di mitezza.
Ora la rabbia, la violenza delle parole, le urla 
hanno lasciato la piazza,
e sono approdate nei salotti tv:
dove trovi l'ossessivo gridare solipsisistico di Sgarbi,
in opposizione ai canti in coro ritmati delle piazze delle donne;
dove trovi il fervido impegno della Santanché 
nell'imbrigliare l'eleganza dell'eterno femminino 
nei sussurri labiali della volgarità,
in opposizione alla voglia della piazza 
di preservare la conoscenza tenera dell'amore.
Per questo preferisco la piazza ai salotti tv.
O no?
Severo Laleo


domenica 27 febbraio 2011

Il Popolo della Libertà e l'uso distorto del vocabolario. Inculcare per educare

Ha appena finito la sua arringa il capo popolo della libertà.
Ha difeso, davanti a una platea di cristiani, la famiglia italiana
dalle malefatte della scuola pubblica.
E ha gridato convinto: “Educare i figli liberamente vuol dire
di non esser costretti a mandarli a scuola in una scuola di stato
dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi
che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli.”
La banalità falsa dell'affermazione è lapalissiana.
Poveri figli. Teste vuote da riempire.
Dovunque siano, a casa o a scuola, trovano sempre in agguato
degli adulti, non importa se buoni o cattivi, ma pronti subito a "inculcare",
minacciosi, dunque, i "principi".
Adulti a una dimensione: mai un carezzare, mai un rimproverare,
mai un dialogare, solo e sempre un "inculcare".
Non si smentisce mai il capo popolo della libertà e signore della tv.
Il suo obiettivo è solo e sempre organizzare campagne d'informazione...pubblicitaria,
giocando, senza regole, con parole, simboli, gesti, comportamenti,
attraverso i quali "inculcare" ogni "principio" utile...per il successo di mercato.
Non ha idea della complessità dell'educazione. Del rischio dell'educare.
Per il nostro, l'educare non esiste, vale solo l'inculcare.
O no?