giovedì 22 marzo 2012

Un "limite" per la riforma del lavoro? La dignità. "E' la dignità che attrae gli investimenti"

Leggo da “Famiglia cristiana”:

“Bisogna chiedersi, davanti alla questione dei licenziamenti,
chiamati elegantemente, con un eufemismo, “flessibilità in uscita”,
se il lavoratore è persona o merce
Rivolgo un appello a livello parlamentare e a livello di riflessione culturale
perché si possa creare una rete di diritti e di protezioni più solida.
Del resto, di fondo, come ho scritto nella mia diocesi 
in occasione di San Giuseppe,
siamo molto riconoscenti al ministro Fornero e al premier Monti
e ai sindacati per questo dibattito che ha riportato al centro il lavoro.
Ci hanno ridato la consapevolezza che il lavoro è un dono.
Ma c’è una parola chiave che deve rientrare: dignità. Per i nostri giovani
e per i loro padri che temono di essere licenziati per motivi economici.
Dobbiamo puntare su questo più che sulle paure.
Capisco che la declinazione di questi temi in una norma non è facile.
Ma  è la dignità che attrae gli investimenti”.  

Sono parole di Monsignor Giancarlo Bregantini,
arcivescovo di Campobasso-Bojano
e Presidente della Commissione Lavoro, Giustizia e Pace
della Conferenza Episcopale Italiana.

Semplicemente d’accordo. E la dignità sembra quasi diventare 
un nuovo "fattore" di sviluppo/crescita economica.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 21 marzo 2012

Art. 18: mille piazze per un accordo. Una libertà senza limiti genera schiavitù


L’aggiramento doloso dell’art. 18 da parte del Governo Monti/Napolitano,
opera sì di “professori”, ma pur sempre “maestri” obliqui nel vizio italiano
della furbizia, anche nelle procedure di un finto “dialogo”,
è l’approdo definitivo di un percorso calcolato da tempo,
anche nelle tappe linguistiche (ricordate il ritornello sul “tabù”?),
e con esito scontato. Ideologicamente predeterminato.
E’ doloso l’aggiramento dell’art. 18, e nasce obliquo di furbizia,
perché non chiarendo – e i professori servono proprio per questo-,
in una materia così delicata, i limiti d’obbligo di un licenziamento
per motivi economici, in realtà nasconde ogni possibile trappola.
Se a decidere il licenziamento per motivi economici è solo l’impresa,
senza controlli e senza limiti, a priori definiti e concordati,
il rapporto impresa/lavoratori risulta sconvolto nelle sue basi di parità,
e potrebbe anche aprire riflessioni di incostituzionalità.
Quale interesse generale può essere perseguito quando “una parte”
ha il potere di dominare/condizionare “l’altra parte”?
La Cgil ha già deciso le sue azioni di protesta. Bene.
Ma i partiti di sinistra, i partiti fedeli  alla dottrina sociale della Chiesa,
i partiti ancora in grado, senza complessi di spread,
di distinguere/separare le esigenze del mercato
dall’irrinunciabile difesa/rispetto della dignità delle persone,  
dovrebbero subito organizzare una giornata di manifestazione,
in contemporanea, nelle mille piazze d’Italia, con un solo slogan:
Art. 18. Vogliamo un accordo limpido e trasparente”,
a garanzia della libertà di tutti, impresa e lavoro.
 E forse, con questa parola d’ordine, si potrebbero smascherare
gli estremisti del liberismo, anche se professori.
O no?
Severo Laleo



Articolo 18: il dialogo, il cammino, la meta e le elezioni


E’ un momento difficile. La pazienza è d’obbligo.
Nessuno può perdere il senso della “realtà” dell’economia.
E nessuno, per senso della realtà dell’economia,
può perdere il senso dei diritti della “persona”.
Intanto, per subito chiarire, condivido le preoccupazioni di Camusso,
quando dichiara: 1. “Tutte le volte che Governo ha preso provvedimenti (manovra, liberalizzazioni, lavoro) unici a subire sono stati i lavoratori”; 
2. “L’attenzione che Governo dedica a mercato non è pari all’attenzione che Governo dedica alla coesione sociale del Paese e alla condizione dei lavoratori”; 3. “Domani Direttivo Cgil deciderà come essere alla testa di un movimento
che ripropone lavoro come tema centrale nel Paese”.
Aspetterò domani la proposta della Cgil, ma subito vorrei esprimere
una mia opinione, da praticante di “dialogo educativo”.
Per trovare un accordo è sempre bene costruire un cammino comune.
Partire insieme per giungere insieme: è il senso del dialogo.
Un cammino, in genere, prevede una meta. Si discuta la meta.
Un cammino prevede delle tappe. Si discutano le tappe.
Un cammino prevede un bagaglio utile. Si discuta il bagaglio.
Un cammino prevede delle soste. Si discutano le soste.
Un cammino prevede … e via di seguito.
Purtroppo, oggi, il cammino si è fermato a una meta,
decisa dal Governo e da altri,
ma ha perso molti “compagni” di viaggio, disponibili a proseguire.
La  meta è stata così definita dal Sole 24 Ore on line:
Cambia l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il reintegro è previsto solo per i licenziamenti discriminatori.
Per quelli disciplinari deciderà il giudice tra reintegro o indennizzo.
Per quelli per motivi economici è previsto solo l'indennizzo.
Per i licenziamenti per motivi discriminatori, il reintegro sarà accompagnato
dai contributi non versati durante il periodo di sospensione dal lavoro.
L'obbligo di reintegro in caso di licenziamenti discriminatori viene esteso anche
alle imprese con meno di 15 dipendenti. Nei casi di licenziamento per motivi disciplinari è il giudice a decidere tra il reintegro "nei casi gravi" o l'indennizzo.
Quest'ultimo potrà essere erogato fino a un massimo di 27 mensilità
tenendo conto dell'anzianità del lavoratore. Per i licenziamenti per motivi economici è invece previsto solo un risarcimento che potrà essere da un minimo di 15 mensilità fino a un massimo di 27 dell'ultima retribuzione”.
Ma una meta, perché sia di tutti, ha bisogno di spirito di condivisione
tra i pellegrini: e chi meglio conosce, per esperienza e per “racconti”, la meta
avrà il compito di illustrarla a chi non la conosce,
descrivendone per filo e per segno ogni “qualità”.
Ora perché Monti, pur camminatore esperto e determinato, si ferma,
senza riuscire a spiegare per filo e per segno:
1.      quali sono i motivi discriminatori
2.      quali sono i motivi disciplinari
3.      quali sono i motivi economici.
Se Monti riuscisse a definire, con precisione, insieme ai suoi pellegrini,
le situazioni inequivocabili dei licenziamenti per motivi economici,
scrivendo, con tutti i soggetti deputati, regole chiare e condivise,
molto probabilmente la meta diventa con convinzione approdo di tutti.
Se io so, perché ho contribuito a definirli, che i motivi economici
sono elencati con estrema chiarezza, e da tutti accolti,
e so che a decidere, in un eventuale contenzioso, è, ad esempio,
un organismo interno paritario impresa/lavoratori,
forse l’accordo può trovarsi, sia per incrementare la qualità d’impresa
sia per garantire i diritti della persona nel lavoro,
e il cammino può continuare. Ma a una condizione:
che tutti al termine raggiungano la meta senza perdite.
Altrimenti grazie a Monti/Napolitano e si vada a libere elezioni,
perché non si può lasciare solo al Governo, e a un Parlamento,
non più rappresentativo, il compito alto di riscrivere il nuovo capitolo 
della dignità della persona nel lavoro. 
O no?
Severo Laleo

lunedì 19 marzo 2012

Hollande, la cultura del limite, la ricchezza e l’autostrada


François Hollande, candidato socialista all’Eliseo, nell’annunciare
la sua proposta di tassare al 75%  la parte di reddito oltre  il milione di euro,
dichiara: «Non apprezzo le ricchezze indecenti, quelle che non hanno niente
a che vedere con il talento o l’intelligenza».
Voterei senza perplessità in Francia per Hollande, proprio per la sua proposta 
di tassazione, ma le sue parole sulla ricchezza non sono condivisibili.  
Sono premoderne. Le ricchezze sono “neutre”, non sono né decenti né indecenti, e prescindono dal talento e dall’intelligenza 
(anche un mafioso usa talento e intelligenza nella sua “impresa”!).   
Sono ricchezze e basta. Solo bisogna definire il “quanto” di una ricchezza.
Ed è compito di un moderno Stato stabilire quando una “ricchezza” 
è una “ricchezza”. Hollande, al di là della “valutazione emotiva” della ricchezza, 
è moderno quando afferma la necessità di una riforma fiscale giusta, 
in grado di rendere più equa la distribuzione del reddito.  
Ed è moderno quando propone di definire l’entità di una “ricchezza” 
sulla quale intervenire con un’aliquota marginale importante, 
a vantaggio dell’intera comunità; del resto solo grazie alla comunità 
è possibile a chiunque, con o senza talento, ma nel rispetto delle regole, 
l’accumular ricchezze. Porre un limite alla “ricchezza” è una scelta politica 
di equità per un democratico Stato moderno, perché, in un democratico Stato 
moderno, non può essere consentito a una singola persona di porsi, 
grazie al denaro, nella condizione di “comprare/condizionare” la libertà di altri.
 E per giustificare la sua proposta Hollande chiama in causa il patriottismo:
 “E’ patriottismo accettare di pagare un’imposta supplementare 
per raddrizzare il paese”. Anche qui l’affermazione di Hollande 
ha un sapore premoderno, sembra quasi chiedere ai “ricchi”, 
per il bene/carità di Patria, per “raddrizzare il paese”, 
di cedere/donare un supplemento di imposta.
No, non si tratta di chiedere un supplemento di imposta, ma di chiedere 
il giusto contributo per la realizzazione di servizi di qualità in un democratico 
Stato moderno, per il bene di quei tutti i quali comunque hanno contribuito 
alla formazione della ricchezza privata.
E allora si potrà dire: “Beati i ricchi, perché avranno la gioia di contribuire 
più di tanti altri al benessere del Paese”. Anzi, se ora si può incontrare 
da qualche parte un’opera, un servizio, una strumentazione con la targa 
“Dono del Sig. …”, domani si potrebbe percorrere un’autostrada con la targa 
“Realizzata con le imposte del Sig. ...”.
O no?
Severo Laleo

Con Codrignani, per una “cultura del limite”



Trovo in rete un interessante confronto tra Muraro e Codrignani.
L'intervento di Muraro è nel sito di IAPh Italia (Associazione Internazionale
delle Filosofe); l’intervento di Codrignani è nel sito del “paese delle donne”.
Non può, questo confronto, non essere ospitato in questo blog 
di "parole" per la cultura del limite.
O no?
Severo Laleo



Al limite, la violenza *,  di Luisa Muraro


* Anticipazione di un saggio breve, Dio è violent...!, che uscirà in giugno a cura dell’editrice Nottetempo di Roma.

La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l’ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. Oggi, a causa della competizione globale, esasperata dalla crisi in corso, l’idea che sia possibile stare meglio tutti non agisce più; prevale quella che il meglio sia per alcuni a spese di altri.
La costatazione che non siamo più animati dal sogno di stare tutti meglio, è un colpo mortale all’ideale dell’uguaglianza e alla politica dei diritti. E impone di riaprire il discorso sull’uso della forza. C’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci.
Il discorso può aprirsi dicendo semplicemente che, in certi contesti, a certe condizioni, è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia senza soccombere ad altre forze. Si tratterà dunque di dosarla senza perderla.
La predicazione antiviolenza vorrebbe farci credere che la misura giusta la fisserebbe il confine tra forza e violenza: no, lo sconfinamento tra l’una e l’altra spesso è inevitabile. La misura da cercare è nella coincidenza fra la giustezza e la giustizia dell’agire, coincidenza che va cercata non dico a tentoni, ma quasi. La giustezza (che è parente dell’efficacia) è soprattutto dei mezzi, la giustizia è soprattutto dei fini. La loro rispondenza, sempre da ri-cercare, si oppone al cinismo del fine che giustificherebbe i mezzi, ma anche alla paralisi di un agire tutto conforme alle regole stabilite. Ed è un nome della politica.
Dosare l’uso della forza di cui si dispone fa parte della strategia dell’agire politico non come un’opzione qualsiasi ma come un sapere necessario; lo insegna molto bene l’antico filosofo taoista Sun-Tzu nell’Arte della guerra. La giustizia, per il generale che comanda l’esercito, consiste nell’obbedire agli ordini dell’Imperatore, ma il generale sa che “ci sono ordini dell’Imperatore ai quali non si deve obbedire”: bisogna saperlo se vogliamo accorciare le distanze fra la cosa giusta da fare qui e ora, e la giustizia del nostro fare, riconoscibile anche domani e dopodomani.
In seconda battuta deve venire, logicamente, un’aperta discussione sull’idea di violenza giusta.
Il nostro sistematico non chiamare in causa Dio (che ha le sue buone ragioni), ce la rende forse una questione improponibile, perché la violenza giusta è per definizione violenza divina, ossia manifestazione di un essere per essenza giusto. Che non è certo l’essere umano. Tra i nomi divini c’è anche Sole di giustizia. Non esiste? Pazienza, ci faremo luce con le candele, ma le verità teoriche restano tali anche in assenza di fatti, e teniamole presenti.
Altrimenti, in base a quello che capita di fatto tra gli umani, si crede che la violenza sia in sé cattiva. E si prepara il terreno per sostenere che essa si giustifica unicamente se il suo uso viene regolato per legge. Si sorvola così sul fatto che il diritto usa la violenza come uno strumento per scopi che il diritto stesso dichiara tali, giusti: un circolo vizioso dal quale non si esce senza spezzarlo, dato che il diritto vigente rispecchia lo stato dei rapporti di forza e la violenza non gli è certo estranea. Cose già dette e risapute. Possiamo far finta d’ignorarle? Si tratta di pensare una violenza che non è strumento di nessuno, che il diritto non può fare sua giustificandola, e nessuno può farla sua, manifestazione di una giustizia che ci oltrepassa dalla quale, però, noi umani possiamo lasciarci usare, consapevoli del rischio inevitabile di cadere in errori ed eccessi. Dunque, violenza giusta non come categoria del diritto, al contrario, le cui condizioni storiche il diritto non può codificare, solo riconoscere a posteriori. Possono stabilirle, di volta in volta, soltanto le circostanze.
La forza, date certe circostanze, può giustamente ed efficacemente esercitarsi arrivando ai limiti della violenza e perfino oltrepassarli. Ma perché abbia senso discutere su questa tesi, giusta o sbagliata che sia, devo chiedermi se ho veramente la capacità di agire con tutta la forza potenzialmente mia, se ne dispongo effettivamente. Se non fosse così e se questo difetto di energia fosse diffuso, come temo, sarebbe ridicolo cercare un nuovo punto di leva, come voler saltare su un letto con le molle rotte. La predicazione antiviolenza, nella misura in cui esclude a priori l’idea di una violenza giusta, favorisce l’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria. E ciò si ripercuote sull’intelligenza delle persone: chi non usa la sua forza quando gli sarebbe utile e necessario, sembra stupido, ma chi vi ha rinunciato a priori, lo diventa realmente. Nessuno lo dice ma, secondo me, nell’appannarsi dell’intelligenza collettiva in questo nostro paese, non c’entra solo il consumismo e cose simili, ma anche la fine della sfida comunista che veicolava un’idea di violenza giusta, quella rivoluzionaria; poco importa qui il giudizio politico, sto parlando di dosaggi interiori.
Dicendo “tutta la forza necessaria”, intendo la duplice forza della consapevolezza (non il recriminare e lamentarsi ma vedere e rendersi conto fino in fondo) e del tirare le conseguenze pratiche e logiche, quelle che stanno nelle possibilità della persona che vede e si rende conto.
Era nelle possibilità delle forze di pace presenti nella ex Iugoslavia difendere i civili inermi che furono assassinati in massa a Srebrenica nel 1995. E invece che cosa hanno fatto i militari dell’Onu? Hanno aiutato a selezionare le vittime destinate al massacro: l’hanno fatto non per paura né per complicità ma per semplice stupidità, incapaci di percepire il mostro dell’odio che era davanti ai loro occhi.
Era nelle possibilità degli abitanti dell’Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione. Sette volte il capo del governo è andato impunemente a fare passerella nella città distrutta dal terremoto. Se lo avessero mandato indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati, nessuna polizia avrebbe osato picchiarli e arrestarli. E il loro centro storico, chissà, non sarebbe più il mucchio di macerie transennate che continua a essere.
I filosofi lamentano che confondiamo tra loro concetti diversi come potere, dominio, forza, violenza. D’accordo. Ma quando, per tutta risposta, si mettono a darci le loro accurate definizioni, vorrei dirgli: prima di ciò, dovreste indagare dove e come nasca la confusione. E chiedervi se per caso quella che appare una confusione non sia la manifestazione di qualcosa che fareste bene a guardare più da vicino. Rileggete quel capolavoro racchiuso in poche pagine che è L’Iliade poema della forza di Simone Weil. Sebbene forza e violenza siano fra loro ben diverse, separarle per definizione non fa che occultare un aspetto ineliminabile della realtà umana. Ci sono distanze e prossimità che non si stabiliscono verbalmente ma attivamente: la definizione giusta la troveremo alla luce di questo agire. Insomma, meno filosofia e più pratica.




Le ragioni "fisiche e metafisiche" della forza sono facilmente contestabili perché, se è vero che fin dai presocratici sappiamo di non poter prescindere dal conflitto, nel terzo millennio nessuno può teorizzare la guerra come soluzione. Per giunta la sapienza delle donne, che conoscono la violenza delle strutture di potere ma - anche e soprattutto - la violenza dei padroni del corpo femminile, insegna non solo l’indegnità, ma l’inutilità della forza.
So bene che non a questo tu fai riferimento, anche se forse non pensi che a muoverti sia la paura. Perché io, per esempio, ho paura.
Io, però, non ho mai pensato al progresso come a un ideale: secondo la storia umana dall’antenato africano - ma anche da Romolo Augustolo - a noi c’è stata una tensione evolutiva che ci induce (anche se non tutti e in tutti i paesi) a vivere perfino meglio e più a lungo. Non c’è garanzia di continuità neppure del sole o della specie umana. Però credo in un senso, il postulato di cui ho bisogno e che posso anche includere nella categoria del divino.
Neppure ho mai pensato che le ideologie fossero per sempre: la sinistra contiene tanti nomi storici che credo di continuare a pensare perfino con affetto, ma la prima incrinatura è avvenuta proprio sulla forza identitaria e, poi, nazionalista, con la spaccatura fra interventisti e anti- nel 1914. Certo, i partiti della sinistra - compresi quelli che con i nomi di Lottacontinua, Potop e, dopo, Rifondazione, Idv, perfino 5 Stelle hanno escluso di identificarsi come partiti - hanno fatto avanzare "le masse", rimaste purtroppo vulnerabili da media e consumi.
Vedo bene anch’io i rischi che il rullo compressore della crisi schiacci diritti e vite; ma non voglio "prevedere" l’uso della forza per nessuna legittima difesa. Mi interessa sapere se possiamo "prevenire".
La politica è sempre internazionale. Più di trent’anni fa si lottava contro "l’imperialismo delle multinazionali": era già la globalizzazione, ma non siamo riusciti a creare una globalizzazione culturale antagonista. L’economia è stata finanziarizzata e per giunta con titoli spazzatura e agenzie di rating inventate: quali proposte ci sono state per difendere i diritti? E’ evidente che adesso un mondo crolla e siamo in braghe di tela. Che forza possiamo usare, se troppa gente porta i bambini la domenica ai centri commerciali a vedere cose tutte uguali e tutte brutte e finisce le giornate al videopoker? Monti e la Fornero significano lacrime e sangue? Penso che solo la ragione e lo studio (sarò una prof, ma si studia troppo poco) possano far produrre proposte e correttivi e vie d’uscita dalla crisi per una più povera ma non peggiorata umanità. Quale "forza" può evitare trasformazioni già in essere se non, appunto, la ragione che è "di per sé" nonviolenta?
Viviamo immersi nel Mediterraneo come una portaerei e vediamo: che nessuno dei governi usciti dalle rivolte dei gelsomini è rassicurante per le diverse genti che aspiravano a miglior vita; che Israele medita sortite di forza contro un Iran uscito più minaccioso dalle elezioni; che la Siria è al crocevia di una crisi destinata a destabilizzare l’area; che in Turchia si penalizza l’informazione e non si risolve la questione kurda....E intanto l’Europa non mette in funzione ad altissimo livello gli strumenti sia della diplomazia sia degli aiuti. E noi per primi ci neghiamo perché tiriamo già la cinghia. E intanto abbiamo ridotto senza cancellarli gli F45. Reagan e i Bush armavano alleati infidi, boicottavano i trattati di disarmo e non proliferazione, aprivano fronti di guerra... Avevano per caso ragione?
Abbiamo sempre detto come donne, da Lisistrata in poi, che i conflitti si attraversano, si snodano, si sfarinano. Si prevengono. Lo abbiamo sempre detto perché partiamo dal senso del limite, contro ogni forma di hybris. Non è che, "al limite", resta il possibile ricorso alla violenza (o antiviolenza): la violenza è, in ogni caso, "il" limite.

domenica 18 marzo 2012

Il pesce, a volte, anche fresco, “puzza”, specie a Bari

 

Esterrefatto, da cittadino rispettoso dei colori dei semafori,
leggo dalla Stampa una serie di dichiarazioni del Sindaco Emiliano di Bari,
del Pd, Partito al quale pure è ancora possibile, grazie alla presenza
di non poche personalità irreprensibili, riconoscere un residuo di “serietà”:
1.      Non ho tenuto distinta la politica dall’imprenditoria”;
2.       “Se qualcuno pensa di potermi mandare a casa solo per qualche chilo di pesce
e cozze pelose, si sbaglia: rimarremo qui consapevoli degli errori commessi
ma con la determinazione che solo le persone perbene riescono a mettere insieme”.
3.      Non avrei dovuto accettare quella «valanga di pesce»”;
4.      Il pesce era talmente tanto che lo avevamo messo anche nella vasca da bagno,
avrei dovuto riportarglielo e ho sbagliato a non farlo”;
5.      Bari non può essere rappresentata come la città di un sindaco che si fa comprare con qualche spigola e una bottiglia di champagne”;
6.      Leggere dai giornali quello che succedeva negli uffici comunali  
mi ha molto impressionato, e mi costringe a dire oggi di avere sbagliato
ad avere rapporti troppo stretti con il gruppo imprenditoriale Degennaro
e di avere commesso un errore ancora più grave
facendo entrare in giunta la figlia di Degennaro”.

Niente più?
In questo blog da sempre si sostiene l’importanza di praticare in politica
la cultura del limite, e si sostiene, almeno per un amministratore,
se vuole affrontare con serietà e onestà la gestione della cosa pubblica,
l’obbligo civile di interiorizzare un’idea di limite.
Chi non è in grado di comprendere, ad esempio, quali sono i fines
tra imprenditoria e politica  deve essere non solo scacciato, s u b i t o,
-e nulla osta- dal partito di appartenenza per inadeguatezza
(non è stato, e non è, solo Berlusconi l’unfit in Italia!),
ma condannato, a vista, all’allontanamento definitivo dai pubblici uffici.
O no?
Severo Laleo

sabato 17 marzo 2012

Oltre i tecnici, per ripartire dal basso, con Placido Rizzotto


In questo blog, spesso, sono stati disapprovati i comportamenti “leggeri”
di noi italiani, specie in ambito etico-politico e sociale,
dove la nostra dimensione pubblica, civica, di responsabilità comune,
è avvezza a cedere, anche “chiudendo un occhio”, agli interessi dell’orticello.
E, in particolare, si è anche sostenuto come l’affermarsi, negli ultimi decenni,
di un diffuso danarismo avvilente abbia generato, ad ogni livello,
una corsa infinita verso un individualismo esasperato e senza limiti,
da inseguire perfino a costo di rinunciare a dignità e libertà.
Sicché è apparso a volte facile ripetere, a un secolo di distanza,
con P. Gobetti, a proposito del civismo degli Italiani:
gli Italiani hanno bene animo di schiavi”.
A tal punto, si potrebbe aggiungere, che qualcuno è riuscito a dar vita
anche a un movimento di agitati e urlanti "servi liberi".
In verità, esiste un’Italia, sia pure minoritaria, di ben altra schiena.
E’ il caso di Placido Rizzotto, sindacalista della CGIL,
socialista (esiste ancora questo termine-valore?), ucciso dalla mafia,
nel 1948, per la sua determinazione nel sostenere, senza paure,
il movimento dei contadini siciliani per l'occupazione delle terre.
Una lotta, la sua, a viso aperto, dal basso, per difendere la libertà
dei senza terra e sconfiggere la schiavitù insopportabile della povertà,
una lotta, insieme al movimento, per difendere le possibilità stesse 
di costruirsi, da parte di contadini poveri, una vita degna e libera.
Forse, per salvare l’Italia, oltre i tecnici, è tempo di partire dal basso,
dai movimenti, seguendo l’esempio dei Rizzotto.
O no?
Severo Laleo

P.S.
Ma voglio ancora sperare in un Monti, non solo disponibile,
da abile “manovratore” italiano, a organizzare vertici a Palazzo Chigi,
con capi di partiti senza  più credito, per concordare decisioni al chiuso,
ma anche disponibile, da libero e responsabile interlocutore dei movimenti,
a costruire alleanze nuove dal basso con persone in carne ed ossa,
e con pieno credito, per concordare più giuste e aperte decisioni.

giovedì 15 marzo 2012

Le quote rosa non sono la soluzione. Meglio il “bicratismo”.



Notizia ANSA del 14 Marzo 2012
Il Parlamento Ue dice sì alle 'quote rosa' tanto nei Cda quanto in politica
approvando in plenaria due relazioni in questo senso.
Più contrastato il sì al rapporto della liberale di sinistra olandese Sophie in't Veld
(361 a favore, 268 contro, 70 astenuti) che chiede iniziative forti
per aumentare la presenza di donne nei ruoli direttivi nel mondo degli affari.
Più netta la posizione a favore della 'popolare' finlandese Pietikainen
(508 sì, 124 no, 49 astenuti) che chiede parità nella rappresentanza politica”.
In realtà, la scalata alla parità attraverso le quote rosa non scalfisce
la struttura maschilista della nostra organizzazione sociale.
Per aprire una via possibile al cambiamento della società,
nella direzione dell’estensione della democrazia e della trasparenza,
e soprattutto della formazione di una decisione pubblica
non più condizionata/dominata da una cultura di genere maschile,
in tutte le “sedi/posizioni” di natura decisoria di pubblica utilità
la presenza uomo/donna non può non essere pari.
Ad esempio chi/cosa impedisce a un partito politico
di chiamare/eleggere/sorteggiare  nei propri organismi
di decisione politica uomini e donne in numero pari?
Chi/cosa impedisce a un partito di avere, ad ogni livello,
una segreteria a conduzione “bicratica” a coppia uomo/donna?
Solo la resistenza di un maschilismo di potere,
diffuso ampiamente in ogni luogo della nostra geografia politica.
Se un cambiamento di questo tipo segnasse qualche nuova
formazione partitica, forse molte/i giovani potrebbero riprendere
un cammino di fiducia verso l’impegno politico.
O no?
Severo Laleo