lunedì 19 marzo 2012

Con Codrignani, per una “cultura del limite”



Trovo in rete un interessante confronto tra Muraro e Codrignani.
L'intervento di Muraro è nel sito di IAPh Italia (Associazione Internazionale
delle Filosofe); l’intervento di Codrignani è nel sito del “paese delle donne”.
Non può, questo confronto, non essere ospitato in questo blog 
di "parole" per la cultura del limite.
O no?
Severo Laleo



Al limite, la violenza *,  di Luisa Muraro


* Anticipazione di un saggio breve, Dio è violent...!, che uscirà in giugno a cura dell’editrice Nottetempo di Roma.

La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l’ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. Oggi, a causa della competizione globale, esasperata dalla crisi in corso, l’idea che sia possibile stare meglio tutti non agisce più; prevale quella che il meglio sia per alcuni a spese di altri.
La costatazione che non siamo più animati dal sogno di stare tutti meglio, è un colpo mortale all’ideale dell’uguaglianza e alla politica dei diritti. E impone di riaprire il discorso sull’uso della forza. C’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci.
Il discorso può aprirsi dicendo semplicemente che, in certi contesti, a certe condizioni, è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia senza soccombere ad altre forze. Si tratterà dunque di dosarla senza perderla.
La predicazione antiviolenza vorrebbe farci credere che la misura giusta la fisserebbe il confine tra forza e violenza: no, lo sconfinamento tra l’una e l’altra spesso è inevitabile. La misura da cercare è nella coincidenza fra la giustezza e la giustizia dell’agire, coincidenza che va cercata non dico a tentoni, ma quasi. La giustezza (che è parente dell’efficacia) è soprattutto dei mezzi, la giustizia è soprattutto dei fini. La loro rispondenza, sempre da ri-cercare, si oppone al cinismo del fine che giustificherebbe i mezzi, ma anche alla paralisi di un agire tutto conforme alle regole stabilite. Ed è un nome della politica.
Dosare l’uso della forza di cui si dispone fa parte della strategia dell’agire politico non come un’opzione qualsiasi ma come un sapere necessario; lo insegna molto bene l’antico filosofo taoista Sun-Tzu nell’Arte della guerra. La giustizia, per il generale che comanda l’esercito, consiste nell’obbedire agli ordini dell’Imperatore, ma il generale sa che “ci sono ordini dell’Imperatore ai quali non si deve obbedire”: bisogna saperlo se vogliamo accorciare le distanze fra la cosa giusta da fare qui e ora, e la giustizia del nostro fare, riconoscibile anche domani e dopodomani.
In seconda battuta deve venire, logicamente, un’aperta discussione sull’idea di violenza giusta.
Il nostro sistematico non chiamare in causa Dio (che ha le sue buone ragioni), ce la rende forse una questione improponibile, perché la violenza giusta è per definizione violenza divina, ossia manifestazione di un essere per essenza giusto. Che non è certo l’essere umano. Tra i nomi divini c’è anche Sole di giustizia. Non esiste? Pazienza, ci faremo luce con le candele, ma le verità teoriche restano tali anche in assenza di fatti, e teniamole presenti.
Altrimenti, in base a quello che capita di fatto tra gli umani, si crede che la violenza sia in sé cattiva. E si prepara il terreno per sostenere che essa si giustifica unicamente se il suo uso viene regolato per legge. Si sorvola così sul fatto che il diritto usa la violenza come uno strumento per scopi che il diritto stesso dichiara tali, giusti: un circolo vizioso dal quale non si esce senza spezzarlo, dato che il diritto vigente rispecchia lo stato dei rapporti di forza e la violenza non gli è certo estranea. Cose già dette e risapute. Possiamo far finta d’ignorarle? Si tratta di pensare una violenza che non è strumento di nessuno, che il diritto non può fare sua giustificandola, e nessuno può farla sua, manifestazione di una giustizia che ci oltrepassa dalla quale, però, noi umani possiamo lasciarci usare, consapevoli del rischio inevitabile di cadere in errori ed eccessi. Dunque, violenza giusta non come categoria del diritto, al contrario, le cui condizioni storiche il diritto non può codificare, solo riconoscere a posteriori. Possono stabilirle, di volta in volta, soltanto le circostanze.
La forza, date certe circostanze, può giustamente ed efficacemente esercitarsi arrivando ai limiti della violenza e perfino oltrepassarli. Ma perché abbia senso discutere su questa tesi, giusta o sbagliata che sia, devo chiedermi se ho veramente la capacità di agire con tutta la forza potenzialmente mia, se ne dispongo effettivamente. Se non fosse così e se questo difetto di energia fosse diffuso, come temo, sarebbe ridicolo cercare un nuovo punto di leva, come voler saltare su un letto con le molle rotte. La predicazione antiviolenza, nella misura in cui esclude a priori l’idea di una violenza giusta, favorisce l’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria. E ciò si ripercuote sull’intelligenza delle persone: chi non usa la sua forza quando gli sarebbe utile e necessario, sembra stupido, ma chi vi ha rinunciato a priori, lo diventa realmente. Nessuno lo dice ma, secondo me, nell’appannarsi dell’intelligenza collettiva in questo nostro paese, non c’entra solo il consumismo e cose simili, ma anche la fine della sfida comunista che veicolava un’idea di violenza giusta, quella rivoluzionaria; poco importa qui il giudizio politico, sto parlando di dosaggi interiori.
Dicendo “tutta la forza necessaria”, intendo la duplice forza della consapevolezza (non il recriminare e lamentarsi ma vedere e rendersi conto fino in fondo) e del tirare le conseguenze pratiche e logiche, quelle che stanno nelle possibilità della persona che vede e si rende conto.
Era nelle possibilità delle forze di pace presenti nella ex Iugoslavia difendere i civili inermi che furono assassinati in massa a Srebrenica nel 1995. E invece che cosa hanno fatto i militari dell’Onu? Hanno aiutato a selezionare le vittime destinate al massacro: l’hanno fatto non per paura né per complicità ma per semplice stupidità, incapaci di percepire il mostro dell’odio che era davanti ai loro occhi.
Era nelle possibilità degli abitanti dell’Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione. Sette volte il capo del governo è andato impunemente a fare passerella nella città distrutta dal terremoto. Se lo avessero mandato indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati, nessuna polizia avrebbe osato picchiarli e arrestarli. E il loro centro storico, chissà, non sarebbe più il mucchio di macerie transennate che continua a essere.
I filosofi lamentano che confondiamo tra loro concetti diversi come potere, dominio, forza, violenza. D’accordo. Ma quando, per tutta risposta, si mettono a darci le loro accurate definizioni, vorrei dirgli: prima di ciò, dovreste indagare dove e come nasca la confusione. E chiedervi se per caso quella che appare una confusione non sia la manifestazione di qualcosa che fareste bene a guardare più da vicino. Rileggete quel capolavoro racchiuso in poche pagine che è L’Iliade poema della forza di Simone Weil. Sebbene forza e violenza siano fra loro ben diverse, separarle per definizione non fa che occultare un aspetto ineliminabile della realtà umana. Ci sono distanze e prossimità che non si stabiliscono verbalmente ma attivamente: la definizione giusta la troveremo alla luce di questo agire. Insomma, meno filosofia e più pratica.




Le ragioni "fisiche e metafisiche" della forza sono facilmente contestabili perché, se è vero che fin dai presocratici sappiamo di non poter prescindere dal conflitto, nel terzo millennio nessuno può teorizzare la guerra come soluzione. Per giunta la sapienza delle donne, che conoscono la violenza delle strutture di potere ma - anche e soprattutto - la violenza dei padroni del corpo femminile, insegna non solo l’indegnità, ma l’inutilità della forza.
So bene che non a questo tu fai riferimento, anche se forse non pensi che a muoverti sia la paura. Perché io, per esempio, ho paura.
Io, però, non ho mai pensato al progresso come a un ideale: secondo la storia umana dall’antenato africano - ma anche da Romolo Augustolo - a noi c’è stata una tensione evolutiva che ci induce (anche se non tutti e in tutti i paesi) a vivere perfino meglio e più a lungo. Non c’è garanzia di continuità neppure del sole o della specie umana. Però credo in un senso, il postulato di cui ho bisogno e che posso anche includere nella categoria del divino.
Neppure ho mai pensato che le ideologie fossero per sempre: la sinistra contiene tanti nomi storici che credo di continuare a pensare perfino con affetto, ma la prima incrinatura è avvenuta proprio sulla forza identitaria e, poi, nazionalista, con la spaccatura fra interventisti e anti- nel 1914. Certo, i partiti della sinistra - compresi quelli che con i nomi di Lottacontinua, Potop e, dopo, Rifondazione, Idv, perfino 5 Stelle hanno escluso di identificarsi come partiti - hanno fatto avanzare "le masse", rimaste purtroppo vulnerabili da media e consumi.
Vedo bene anch’io i rischi che il rullo compressore della crisi schiacci diritti e vite; ma non voglio "prevedere" l’uso della forza per nessuna legittima difesa. Mi interessa sapere se possiamo "prevenire".
La politica è sempre internazionale. Più di trent’anni fa si lottava contro "l’imperialismo delle multinazionali": era già la globalizzazione, ma non siamo riusciti a creare una globalizzazione culturale antagonista. L’economia è stata finanziarizzata e per giunta con titoli spazzatura e agenzie di rating inventate: quali proposte ci sono state per difendere i diritti? E’ evidente che adesso un mondo crolla e siamo in braghe di tela. Che forza possiamo usare, se troppa gente porta i bambini la domenica ai centri commerciali a vedere cose tutte uguali e tutte brutte e finisce le giornate al videopoker? Monti e la Fornero significano lacrime e sangue? Penso che solo la ragione e lo studio (sarò una prof, ma si studia troppo poco) possano far produrre proposte e correttivi e vie d’uscita dalla crisi per una più povera ma non peggiorata umanità. Quale "forza" può evitare trasformazioni già in essere se non, appunto, la ragione che è "di per sé" nonviolenta?
Viviamo immersi nel Mediterraneo come una portaerei e vediamo: che nessuno dei governi usciti dalle rivolte dei gelsomini è rassicurante per le diverse genti che aspiravano a miglior vita; che Israele medita sortite di forza contro un Iran uscito più minaccioso dalle elezioni; che la Siria è al crocevia di una crisi destinata a destabilizzare l’area; che in Turchia si penalizza l’informazione e non si risolve la questione kurda....E intanto l’Europa non mette in funzione ad altissimo livello gli strumenti sia della diplomazia sia degli aiuti. E noi per primi ci neghiamo perché tiriamo già la cinghia. E intanto abbiamo ridotto senza cancellarli gli F45. Reagan e i Bush armavano alleati infidi, boicottavano i trattati di disarmo e non proliferazione, aprivano fronti di guerra... Avevano per caso ragione?
Abbiamo sempre detto come donne, da Lisistrata in poi, che i conflitti si attraversano, si snodano, si sfarinano. Si prevengono. Lo abbiamo sempre detto perché partiamo dal senso del limite, contro ogni forma di hybris. Non è che, "al limite", resta il possibile ricorso alla violenza (o antiviolenza): la violenza è, in ogni caso, "il" limite.

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