Non ha tutti i torti il senatore del Pd Pietro Ichino, quando,
dal palco della Leopolda, ospite di Renzi, critica quella sinistra, non la sua,
che “non ha dato niente agli esclusi, ma ha
difeso solo i piccoli diritti
di
chi qualche diritto aveva”; ripeto, non ha tutti i torti, perché,
in verità, gli “esclusi”, sono stati dimenticati, e
quindi “esclusi”,
dalla terra delle possibilità di costruirsi un futuro, da
tutti, o quasi,
i responsabili del Governo del nostro Paese negli ultimi vent'anni,
sia per colpa, soprattutto, ad onor del vero, della destra, nuova
e vecchia,
sia, in parte, per colpa della sinistra, anche di quella di Ichino,
grazie al quel dominante, e comune alla destra e alla sinistra tutta,
Pensiero
Unico, a tutti noto, per il quale la sinistra, vecchia e nuova,
bersagliata e intimorita da quel Pensiero, abdicò alla sua missione
politica e sociale nella tutela dell’uguaglianza dei diritti,
con grave danno per le nuove generazioni.
Ma ha pienamente ragione, anche se non spiega il perché, il senatore
del Pd Pietro Ichino, quando
aggiunge: “Le roccaforti della sinistra
non
stanno fra i precari, ma nel pubblico impiego,
non stanno fra i giovani, ma
fra i vecchi, non fra chi rischia di più
ma fra chi rischia di meno”. E certo, caro Ichino. Se la sinistra avesse
le sue roccaforti anche tra i giovani e i precari sarebbe, da un pezzo,
maggioranza assoluta nel Paese. Ma perché non è così?
Io, uomo di “pubblico impiego”, so perché sono una roccaforte della sinistra.
Perché
grazie al mio “pubblico impiego”, di “posto fisso”,
di dipendente
pubblico, sono riuscito a conservare,
quasi intatta, la mia libertà e, guarda caso, indipendenza di giudizio,
e di azione politica, e quindi a oppormi alla deriva liberista,
individualistica
e ricattatoria, di smantellamento di quei diritti dei
lavoratori
faticosamente conquistati negli anni, nonostante un’imperante
berlusconizzazione
dei costumi, con la corsa di tanti a diventare “servi
liberi”,
a trovare una gratificazione nel libro paga di qualche generoso
pagatore,
con quell’idea allegra, di molti, di inseguire un danarismo
avvilente.
Ho potuto resistere, e oppormi (da precario senza prospettiva
sicura
sarei stato molto più prudente), proprio perché ricco di
diritti, e attento,
per cultura di sinistra, ai diritti degli altri, mentre lei,
dalla sua sinistra,
pur uomo di ”pubblico impiego”, con la serenità
del “posto
fisso”,
non si opponeva – spiegando in buona fede le sue buone
ragioni-
al processo di rendere precaria la condizione di lavoro delle
nuove generazioni,
le quali, con il regalo della precarietà, raggiungevano il moderno
traguardo
dell’ ”esclusione” dalla vita, senza un lavoro
certo e continuo,
senza la possibilità di una scelta di vita d’amore in coppia,
senza la possibilità di una sicura pensione, senza la
possibilità di una lotta
unitaria, vittime di una violenta, e calcolata ad arte,
frammentazione
degli interessi e dei bisogni, senza il diritto, questo sì
moderno
ed europeo, di un
salario minimo garantito.
E come avrebbero potuto, i precari, entrare nelle “roccaforti
della sinistra”,
se la sinistra di ieri e di oggi non ha creduto e non crede
nell’urgenza
di superare, una volta per tutte, il dramma delle persone colpite da precariato?
E come avrebbero potuto, i giovani,
resistere nelle “roccaforti della sinistra”,
se la
sinistra, ieri, ha inventato la modernità della precarietà, e, oggi, inventa
la modernità di un vecchio
e peloso “merito” nella versione, ora,
del “suo”
Renzi e del “suo” Serra? Chi ha più colpe a sinistra?
I giovani e i precari, caro Ichino, oggi scelgono Grillo,
soprattutto i più avviliti,
e non la sinistra vecchia di ieri né la sua sinistra moderna di oggi.
E lei –intatta continua la stima per il suo impegno politico,
comunque
utilissimo alla definizione delle idee- siede in Senato, e meritoriamente,
grazie a quei vecchi, e a me, uomo di “pubblico
impiego”,
ancora di sinistra, della vecchia sinistra, e ancora libero
di votare,
senza condizionamenti, e sempre per garantire ai giovani quanto, in passato,
è stato, a me e a lei, garantito. Di più e non di meno.
O no?
Severo Laleo