venerdì 10 ottobre 2014

L’appello dei Cento tra cipiglio e semplificazione fiscale





L’appello dei Cento, sulle pagine del Corriere, tra imprenditori 
e altri “semplici italiani”, non è tanto importante in sé e per sé
almeno dopo il 41%, vale a dire, non è tanto importante 
per il suo sostegno a “Matteo Renzi”, alla sua persona espressamente
(il titolo dell’appello è  chiarissimo: “Noi sosteniamo Matteo Renzi
e pare voglian dire  “Renzi e basta!” ), quanto per la qualità
del discorso politico a base dell’appello/sostegno.

Si legga insieme: “Matteo Renzi”  è da sostenere perché
ha “creato” un governo “con la decisione e il cipiglio
di una volontà giovanile che non cerca sconti né per sé
né per le scelte da affrontare”.
E questa sua “decisione” e questo suo “cipiglio” meritano
l’appoggio dei cittadini che si identificano con la sua volontà
di non mollare, di battersi e di cercare un futuro per l’Italia
e per i suoi giovani”.
Ma l’intenzione del “piccolo gesto” pubblico dell'appello
serve anche a “rompere il muro di silenzio (muro di silenzio? 
pare un po’ un’esagerazione) che ha avvolto il Presidente del Consiglio
dopo i duri attacchi di questi giorni”. Proprio così.

In altre parole
Renzi è da sostenere perché ha “decisione e cipiglio*”
Renzi merita appoggio perché si batte e “non molla
Renzi “cerca” un futuro per l’Italia
Renzi è avvolto da un “muro di silenzio

Indubbiamente, sul piano politico, è un appello nuovissimo,
mai sentito prima durante tutti gli anni di storia repubblicana.
Ed è un segno dei tempi, nel bene e nel male.
Se non esistono altre segrete ragioni, si può concludere:
in Italia, grazie al “cipiglio” e alla volontà di “non mollare,
insieme all’impegno a “cercare” un futuro, anche un socialista 
europeo, quale Renzi è, gode di un appoggio senza condizioni 
presso Cento imprenditori e “semplici cittadini”.
E’ un successo straordinario. E si spera non intempestivo.
Perché il nostro Presidente del Consiglio ha già twittato
il prossimo impegno per il futuro: la semplificazione fiscale.
E poiché è un socialista europeo, un leader forte del PSE,
è facile prevedere, sarà impegnato non solo a dare “un giro di vite
per gli imbroglioni del fisco”, e a inasprire i controlli,
e qui dovrà dare l'esempio, sui paradisi fiscali, ma saprà anche
indirizzare il suo governo a realizzare, attraverso la leva fiscale, 
finalmente la giustizia sociale, ridistribuendo,
con più equità rispetto a oggi, la ricchezza per non lasciare
indietro nessuno”. Anzi bisogna pure recuperare,
sia perché chi era indietro è stato, almeno finora,
respinto ancora più indietro; sia perché chi dall'Italia 
si  è rifugiato all'estero per non pagare le tasse nel proprio Paese 
non sia elogiato fino a rappresentare un esempio.
Solo allora i Cento, da patrioti responsabili, quando saranno
chiamati a dare un più equo e sostanzioso contributo
fiscale per il bene comune, e a ridurre con più giustizia
la forbice tra chi ha e chi non ha, vestiranno l'appello 
di un più concreto e tangibile consenso, oltre la persona.
Altrimenti l’appoggio incondizionato al cipiglio di oggi
è solo un abbaglio.

O no?
Severo Laleo 


*In verità il cipiglio di Renzi non è un cipiglio all’antica, non è mai torvo,
severo o corrucciato, al contrario, è un nuovo cipiglio, è sempre ilare
e sorridente anche quando minaccia e spiana.

mercoledì 8 ottobre 2014

Palazzo Chigi inventa il voto di fiducia a futura "direzione"



Si legge sul Corriere.it: A proposito dell’articolo 18 - questione 
chiave delle ultime settimane - e del dubbio se fosse incluso o meno 
nella fiducia, perché non esplicitamente citato nel testo 
dell’emendamentoPalazzo Chigi ha inviato una nota di chiarimento
«Il voto riguarda evidentemente l’articolo 18. La delega - si osserva - 
attribuisce al Governo il dovere (sic!) di superare l’attuale sistema 
e il presidente del Consiglio ha indicato con chiarezza (sic!) 
la direzione (perché non verso?)». Per la precisione
pur senza nominare esplicitamente l’articolo 18
nel testo su cui si pone la fiducia è scritto 
che all'esecutivo è affidato il compito di «razionalizzare 
e semplificare delle procedure, anche mediante abrogazione 
di norme, connessi con la costituzione e la gestione 
dei rapporti di lavoro”.  Adesso è chiaro. Anche se intraducibile ... 
in inglese!

E così il Senato, anzi i senatori del Partito Democratico, tutti 
con il marchio del Socialismo Europeo, votano la fiducia 
al Governo dopo aver letto (?) un emendamento nel quale l’art.18 
non è mai espressamente citato, e comunque si impegnano, 
e sicuramente non in nome del corpo elettorale di riferimento, 
ad affidare la “direzione” della delega al Presidente del Consiglio 
secondo una sua “nota di chiarimento”. 
Nasce il voto di fiducia a futura "direzione". E, a chi esprime dissenso, 
il Presidente del Consiglio, con l’eleganza della politica nuova, 
risponde: “Non mollo di un centimetro”, utilizzando, con nuovo imbroglio, 
le tristi parole dell’uomo forte di ogni tempo quando la politica 
non è discorso pubblico di una comunità, ma voto di sudditi. 

Nessun dubbio, dunque: è davvero nuovo  e creativo questo Governo,
se riesce a inventare anche la “fiducia a futura direzione”.
E non è solo il Senato e i socialisti senatori di ogni età e genere 
a correre con affanno e senza giustificazione politica e etica
dietro il caos normativo da invenzione sul momento, 
ma è anche l’ottimo (ancora?)  Presidente della Repubblica.
Il colpo, aggiungerà domani una “nota di chiarimento”, è inferto 
anche alla sua Alta Carica di Garanzia. Per un nuovo verso.

O no?
Severo Laleo





sabato 4 ottobre 2014

Una sensata proposta di pace dalla Svezia



Il Premier socialdemocratico di Svezia, Stefan Loefven,
nel discorso di presentazione del suo programma di governo
in Parlamento,  ha indicato una via, la più sensata,
per la condivisione della pace nel Medio Oriente.
Nel rispetto di una tradizione storica di attenzione fattiva
e di sostegno per la libertà, la dignità e i diritti umani
di ogni popolo, Loefven ha dichiarato: “Una soluzione
a due stati suppone un riconoscimento reciproco
e la volontà di una coesistenza pacifica.
Ecco perché la Svezia riconoscerà lo Stato della Palestina”.

Sensata motivazione. Forse è difficile dargli torto.

O no?

Severo Laleo

Oggi, 14 Ottobre, si può leggere sul Corriere
"Questa Camera [dei Comuni] ritiene che il governo debba 
riconoscere lo Stato di Palestina accanto allo Stato d’Israele". 
Sarà anche una mozione non vincolante per Downing Street 
e per il Foreign Office, ma indica ancora una volta una direzione 
sensata,  tanto più sensata in quanto a votarla non sono 
solo i Laburisti, non senza qualche difficoltà al loro interno,
ma anche i conservatori e i liberaldemocratici. 


venerdì 3 ottobre 2014

Francesco è più a “sinistra” del Pd di Boschi




Rispondendo, qualche giorno fa, a un’ultima domanda
del conduttore di Ballarò sull’essere/sentirsi di “sinistra”,
la Ministra Boschi, sicura e senza esitare ha risposto:
Mi considero di sinistra. I valori della sinistra di oggi sono
quelli del cambiamento. Essere di sinistra significa non tanto 
essere custodi del passato ma anticipare e costruire il futuro
quindi essere riformisti. Cercare di impegnarsi in politica
per rendere la vita un po' migliore per tutti, dare veramente 
attuazione all'articolo 3 della nostra Costituzione”.

Anche se dare attuazione all’art. 3 della nostra Costituzione
non può essere un impegno solo della “sinistra”, ma di tutti,
appunto per dovere costituzionale, la Ministra,
nel definire un valore in sé e per sé il cambiamento/futuro,
senza aggiungere altre qualità ripetendo un motivo
caro ai nuovi dirigenti del Pd, mostra un invidiabile
convincimento, senza ironia, davvero, del suo essere,
così, come dire, un po’ genericamente di “sinistra”.
Forse anche per la brevità nel rispondere.
Non sembri dunque il giudizio irrispettoso: in un paese civile
il rispetto non deve mai venir meno per il semplice fatto
di avere della “sinistra” (e di altro) una diversa opinione.
O un diverso sentire. O un diverso linguaggio
e insieme un diverso mondo. I tempi cambiano comunque,
e non è nelle nostre disponibilità fermare il cambiamento.

La generazione delle madri e dei padri dei quarantenni
di “sinistra” di oggi, a suo tempo, sul finir degli anni 60,
fu ribelle e a suo modo rivoluzionaria, a volte molto
noiosamente, e fu sconfitta, sempre, nell’agone del Potere,
per colpa forse di un’opzione di forte soggettività critica,
propria da ribelli dell’immaginazione, anche se nella struttura
profonda della Società lasciò un segno permanente.

Ed ebbe quella generazione il suo mondo e il suo linguaggio
di “sinistra” . E per una stagione fu anche catturata dalla questione morale 
(e democratica) di Enrico Berlinguer.
Ma oggi quel mondo/linguaggio è fuori tempo. Incompatibile
con la nuova “sinistra” al Potere. Quasi anacronistico. E qualcuno, 
più moderno, potrebbe aggiungere, un mondo/linguaggio malato
di ideologia, soprattutto con quelle sue parole grosse, obsolete,
non più in circolazione, di libertà, dignità, sfruttamento, 
uguaglianza/disuguaglianze, ultimi/poveri, povertà,
giustizia sociale, partecipazione.

Eppure, solo ieri, 2 ottobre, il Papa Francesco nel suo discorso
al Consiglio della Giustizia e della Pace non ha avuto difficoltà
a usare le parole di una volta per proporre il suo cambiamento
e la sua nuova speranza di futuro.
Per Francescouno degli aspetti dell’odierno sistema economico
è lo sfruttamento dello squilibrio internazionale nei costi
del lavoro, che fa leva su miliardi di persone che vivono con meno
di due dollari al giorno. Un tale squilibrio non solo non rispetta la dignità 
di coloro che alimentano la manodopera a basso prezzo, ma distrugge 
fonti di lavoro in quelle regioni in cui esso è maggiormente tutelato.
Si pone qui il problema di creare meccanismi di tutela dei diritti
del lavoro … La crescita delle diseguaglianze e delle povertà mettono
a rischio la democrazia inclusiva e partecipativa... Si tratta, allora,
di vincere le cause strutturali delle diseguaglianze e della povertà. …
lo Stato di diritto sociale non va smantellato ed in particolare 
il diritto fondamentale al lavoro. Questo non può essere considerato
una variabile dipendente dai mercati finanziari e monetari.
Esso è un bene fondamentale rispetto alla dignità ...” 
E più avanti si trovano: “giusta distribuzione dei beni … 
raggiungimento della giustizia sociale … Visioni che pretendono
di aumentare la redditività, a costo della restrizione del mercato
del lavoro che crea nuovi esclusi, non sono conformi ad una economia
a servizio dell’uomo e del bene comune, ad una democrazia inclusiva
e partecipativa.. … è necessario tenere viva la preoccupazione
per i poveri e la giustizia sociale”.

Forse non c’è proprio da vergognarsi se si continua a tener viva
anche una vecchia idea di “sinistra”.

O no?
Severo Laleo

P.S.
Titolo “La Stampa”: Il cardinale Rodé: «Il Papa è troppo di sinistra». Già!




giovedì 2 ottobre 2014

Il futuro è la libertà di licenziare (d’accordo il vecchio Caltagirone)



La CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL'UNIONE EUROPEA 
è stata approvata, pur riprendendo e adattando la Carta già proclamata 
nel dicembre del 2000, solo quattro anni fa. Nel 2010. Non è ancora vecchia.
Eppure non appare nelle nostre discussioni sulla riforma del lavoro
e sull’art. 18, anche se l’Italia è tra i Paesi fondatori dell’Europa.

Il nostro Premier (nel suo ruolo di avamposto rivoluzionario), socialista 
europeo, continua a battersi, senza argomentare e spiegare,  per la certa
libertà dell’imprenditore di poter licenziare”; e aggiunge, per evitare 
di non essere compreso, una precisazione: ”l’art.18 per gli imprenditori 
è una mancanza di libertà”. 
E subito ottiene, il socialista europeo, il plauso da robusti esponenti
dei “poteri forti” (per fortuna anche di Caltagirone).
E conseguentemente, al di là delle annunciate, e non ancora definite, 
tutele venture per i lavoratori -della cui libertà nessuno pare interessato 
in questi nuovi tempi di rivoluzioni- è difficile dubitare da che parte 
si sia accomodato il Premier.
Sicuramente con il nuovo e con il futuro. E con Caltagirone.

Ma al di là del gioco polemico, se si interiorizzano almeno tre degli articoli 
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, forse il dibattito 
potrebbe giungere a più moderni e nuovi risultati. Per il bene di tutti.

 L’articolo 16 della Carta (Libertà d'impresa) recita: “È riconosciuta 
la libertà d'impresa, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni 
e prassi nazionali”.
Chiarissimo: la libertà dell’imprenditore, e si potrebbe dire
di chiunque altro, ha sempre i suoi limiti; in questo caso, nel diritto dell’Unione
(per noi, utilizzatori di lavoro nero, è quasi una fortuna) e nelle legislazioni 
e prassi nazionali; in ogni caso non può dirsi libertà  la “licenza” di ledere 
la libertà altrui, mai (e i socialisti credo sperino in un’estensione del principio 
dappertutto nel mondo).

L’articolo 30 della Carta (Tutela in caso di licenziamento ingiustificato) recita: 
Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, 
conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”.
Chiarissimo: ogni lavoratore (e non questo sì e l’altro no),
ogni lavoratore, senza eccezioni, ha diritto alla tutela, e non domani, ma subito,
sin dall’inizio del rapporto di lavoro, contro ogni licenziamento ingiustificato.

Forse è dovere dei governanti, al termine di un ampio dibattito,
e nel solco -soprattutto se i governanti si sentono “riformisti”-
di un cammino di civilizzazione della società, sia riempire
di senso il diritto alla “tutela”, nel rispetto dell’art. 1 della Carta
(La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata
e tutelata), sia definire precisi contorni per l’area
dell’ “ingiustificato licenziamento”.

O no?

Severo Laleo

martedì 30 settembre 2014

Se è (stato) possibile, una ragione c’è



Noi italiani siamo creativi, si sa. In ogni campo.
E inventare il “nuovo”, con una appassionante ammuina
e confusione di percorsi, è sempre stata la nostra forza. 
E la nostra speranza. In una parola il nostro successo.
E rovina.

Nella moda siamo (stati) giganti: il “nuovo” era spesso
italiano. Almeno così si è sempre creduto.
E non da meno siamo stati nell’arte della politica;
l’abbiamo inventata con Machiavelli, ed era scienza, 
ma proprietari siam diventati del marchio del Fascismo
la dittatura all’italiana. E del marchio abbiamo avuto persino imitatori.
In verità fu Mussolini, da socialista, a inventare il Fascismo.
E insieme la rivoluzione fascista. Tutto nuovo
Gli italiani acclamarono soltanto, almeno sino a quando
trovarono convenienza. Anche gli intellettuali giurarono
nelle Università, con qualche, per fortuna, rifiuto,
grazie al quale s’è tenuta viva la lucerna della dignità.
Un grande dono del coerente resistere di una minoranza.

Nel campo delle rivoluzioni poi siamo maestri:
la più vicina a noi è stata la “rivoluzione liberale”,
quella targata Berlusconi, gran maestro e gran caposcuola,
già sostenitore del socialismo italiano.
I risultati sono noti a tutti. E ancora hanno effetti. 
Addirittura oggi in corso non c’è solo una rivoluzione;
si contano rivoluzioni a bizzeffe in ogni settore della vita sociale
e politica, soprattutto grazie all’accordo privato tra Renzi,
il socialista europeo, e Berlusconi, il gran maestro, oggi espulso
dal Senato per indegnità. E i risultati, già annunciati,
saranno presto noti. Anzi, la nuova rivoluzione socialista
(il Pd è parte forte del PSE), ad esempio, nel campo della riforma lavoro, 
a breve abolirà l’art. 18 e il suo simbolo, senza tempo,
di dignità della persona, non prigioniera di un contesto storico.
E l’argomentazione convincente è già nota, più o meno: l’art. 18
ha quaranta anni e più, è vecchio, ha fatto il suo tempo,
oggi è inutile, frena la velocità della crescita, blocca l’occupazione
e gli investimenti, riguarda un numero esiguo di lavoratori,
è causa di divisione tra lavoratori di serie A e di serie B
(il calcio continua a essere un must nella conversazione politica,
anche in questa nuova partita!), e, per finire, lascia nelle mani
dei giudici la strategia imprenditoriale (sic!). Argomenti tutti
con il timbro del “nuovo”. Che dire!
  
Ma perché la retorica della rivoluzione/cambiamento
è oggi così tanto diffusa e praticata, a destra e a sinistra,
da fare invidia persino agli irriducibili veterani del ’68, 
rivoluzionari senza potere? Anche se grazie a quel ’68
la società tutta subì una trasformazione culturale reale. 
Forse il vero spartiacque tra i due periodi della nostra breve
storia repubblicana, al di là dell’89, non è stato il dramma
di tangentopoli (evento per gli opportunisti sempre all’erta),
ma la caduta della tensione pedagogica dell’antifascismo,
nel senso universale e non semplicemente storico del termine.
La caduta della tensione democratica antifascista
il vero forte collante per una democrazia dei Partiti, 
e insieme l’insostenibile prassi affaristica del finanziamento 
proprio di quei Partiti, favorirono l’ascesa politica di figure 
dell’antipolitica dal “carisma” (in verità carisma è termine improprio) 
popolare e segnarono una rottura con il passato, con la complicità 
di un intero Paese completamente privo di cultura liberale. 
E di educazione civica. Anche per colpa della scuola. Solo un dato: 
se si analizzano le mille pagine della storia del pensiero del '900 
di uno dei testi più diffusi nei licei italiani, si trova il liberale Gobetti
nelle mille pagine, citato una sola volta, e solo nel titolo di un libro!
I popoli senza cultura liberale sono ancora nel guado,
si arrabbiano tanto, ma presto si innamorano dei “capi”.

E questi “capi”, figli delle crisi, hanno un solo metodo per gestire
la rabbia: la retorica nazionale (o antinazionale e localistica),  
e insieme l’individuazione di un nemico, di un bersaglio, 
anche solo di nome, magari immaginario. Sono gli ingredienti 
sempre presenti nella pentola delle nostrane rivoluzioni.
E i capi stessi di queste rivoluzioni sono sempre stati uomini 
(anche nel senso di “maschi” forti e decisi, duri, non abituati a mollare!) 
abili agitatori di popolo. E di interessi altri. Antipolitica vera.

Bossi, il primo “nuovo”, dopo l’era dell’arco costituzionale,
inventò  la Padania contro Roma Ladrona. Ed ebbe successo 
incredibile. Anche con l’ampolla del Po tra le mani nuovo simbolo 
per il salto verso una nuova era per i suoi proseliti.
Padani soprattutto. Che dire! La sua antipolitica colpiva al cuore
la bandiera italiana.

Berlusconi, l’altro “nuovo”, inventò l’entusiasmo nazionale
di “Forza Italia” contro i “Comunisti” impegnati  a “prendere
il potere nella scuola, nell’università, nei giornali e nella giustizia”.
Ed ebbe successo incredibile. Anche con la nipote di Mubarack 
nelle sue stanze. Che dire! La sua antipolitica colpiva al cuore
i mestieranti della politica (perché non hanno mai lavorato).

Grillo, il “nuovo” urlante nelle piazze, già aspirante, scartato,
alla carica di Segretario del Pd, inventò il Vaffa, metodo per eccellenza 
per guidare la rabbia contro la politica, e il conseguente rifiuto 
di ogni dialogo politico. Ed ebbe successo incredibile.
Anche quando flirta con Farage. Che dire! La sua antipolitica
colpiva al cuore, senza distinzione tra persone e istituzioni,
la Casta Politica.

Renzi, il “nuovo” ultimo, inventò la Rottamazione contro la vecchia 
guardia e il MonologoFiloDiretto con il popolo. E il decisionismo “violento” 
contro ogni ostacolo/rivale (solo Letta? E i sindacati?
E la magistratura? E i costituzionalisti? E i professoroni?
E i lavoratori di seria A?), ma sempre con un occhio di riguardo, 
continuo e durevole, per i suoi sodali e “maestri” per eccellenza.
Tanto la gente è con me”. E torna la gente!
Il tutto ancora con una nuova retorica nazionale: il popolo italiano
è il migliore dei popoli, è un popolo di grandi energie e creatività, 
già pronto a guidare/cambiare l’Europa. Ed ebbe successo incredibile. 
Ripetuto. Anche se stringe patti con il Grande Frodatore
del Fisco Italiano. Che dire! La sua antipolitica colpisce al cuore, 
dall’interno, la storia del suo Partito.

Ma perché il popolo italiano è sempre pronto a seguire
chi ha il piglio forte del “comandante” e spregia chi la mitezza
paziente del “servitore”? Forse la nostra facilità di infatuazione 
per un “capo” è sostenuta dalla nostra pigrizia mentale, 
da un’assenza di responsabilità civile partecipativa, 
da un difetto di cultura liberale, da una consuetudine 
all’arrangiarsi, in una parola da un endemico “illiberalismo”.

Per fortuna, a tener viva la lucerna del pensiero critico
e indipendente e della partecipazione paritaria in carne ed ossa
delle persone alla vita democratica del Paese, c’è il popolo
dei referendum, e il ricordo corre al 13 Giugno 2011,
quando un popolo libero e gioioso, a domande precise,
rispose con riflessione, e senza rabbia contro un nemico,
con la propria testa di persona senza orgoglio nazionale,
per il cambiamento reale, tetragono a qualsiasi invito 
di qualche “capo”  ad andare al mare. 

 O no?
Severo Laleo 

P.S. Esiste un’abitudine linguistica, sicuramente nel Sud, di antica origine e colta, quando si parla di un’autorità, 
di un “capo”, seguito dai suoi fedelissimi (per i quali, chissà perché, funziona sempre, il senno del poi!); quel Capo
secondo quell’abitudine linguistica- perde l’identità e diventa un’immagine astratta, anche se visibile,
di una modalità di gestione/direzione, uguale in ogni luogo e tempo, e non ha più un nome e un cognome, 
diventa semplicemente “Is(so)”. Così nel dialogo tra i seguaci/dipendenti/soci, se un ultimo arrivato,
ingenuo e voglioso di capire, chiede: “Perché si deve fare così?”, il fedelissimo convinto (forse) risponde: 
L’ha detto “issoE il discorso non va avanti, non cresce e si chiude,  spesso con rassegnata saggezza, 
perché, si sa, tanto non cambiaSuccede sempre così!

lunedì 29 settembre 2014

Il nuovo dipendente pacco



Dichiara pressappoco Renzi da Fazio: “Un'azienda è libera 
di licenziare un suo dipendente, ma lo Stato se ne farà carico”. 
Questo il senso del messaggio.
Perché il dipendente dovrebbe lamentarsi? Acquista sicurezza.
E ha pure le sue tutele in questo passaggio di mano.
L’Azienda è libera di liberarsi di un dipendente, 
come e quando vuole, senza altre spiegazioni, 
e il nostro Stato sarà libero, come e per quanto vuole,
di accollarsi quel dipendente. Tutto torna. 
Civiltà e welfare sono garantite. 
E senza parola il dipendente diventa un pacco.
In silenzio, muto, in balia di mani altrui.

O no?
Severo Laleo

venerdì 26 settembre 2014

Il nuovo deve ancora venire (anche se una volta è apparso)



De Magistris, già magistrato e ora Sindaco di Napoli,
una vita tra leggi e sentenze, tra regolamenti e delibere,
una vita a difendere la legalità, dall’interno delle istituzioni,
eppure non riesce a trovare le parole giuste
e i comportamenti corretti di uomo delle istituzioni
per la sua condanna in primo grado per abuso d’ufficio.
Fino a prova contraria, è ancora un innocente.
Ma la ribellione contro i giudici, nel nostro paese, soprattutto
da parte di chi ha un pezzo di potere, è sempre la stessa.
E il difficile rapporto/scontro tra giudici e politica continua.
Anche oggi. Nulla è cambiato, nonostante la diversità
abissale dei contendenti, simili comunque nel volto
di individualismo insolente. Qualche citazione?

Berlusconi, da Presidente del Consiglio, nel suo ventennio di battaglia 
contro i giudici, stabilendo il record dell’insolenza,
sbotta: “… i giudici sono … matti! Per fare quel lavoro devi esser 
mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno
quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto
della razza umana”.
Renzi, da Presidente del Consiglio, ma figlio del ventennio,
nel rispondere alle riserve espresse dall’Associazione Magistrati
sul progetto di “riforma della giustizia” chiude i suoi argomenti,
in stile velocità, con un insolente: “brr… che paura“.
De Magistris, da Sindaco di Napoli, e protagonista
del ventennio, non è da meno, e tuona insolentemente
contro i complotti: “Qualcuno mi dice che dovrei dimettermi.
Io credo che i giudici di quel Tribunale dovrebbero dimettersi …
facendo il magistrato mi sono reso conto con gli anni che la collusione,
la corruzione, il sistema criminale non appartengono solo
ai delinquenti di strada, né a pezzi della politica, ma la situazione
è molto più grave. L’altro giorno vedevo casualmente
che questa legge vorrebbero applicare viene fatta dalla Severino,
ministro della Giustizia, guarda caso difensore di una delle controparti 
nel processo di Roma, guarda caso la legge viene fatta proprio
durante il processo di Roma. Io comunque vada farò il sindaco
fino alla metà del 2016. Non ci faremo piegare da questa melassa
putrida che mette insieme pezzi di Stato che non hanno il coraggio
di venirti davanti e dirti io ti voglio abbattere”.

Che dire? L’educazione politica in questo paese è assente,
perché non sono stati mai interiorizzati, a ogni livello
della società, nemmeno se si è prestati al servizio istituzionale,
i principi basilari del liberalismo e del rispetto delle istituzioni,
a prescindere dalla collocazione partitica a destra o a sinistra.


Il nuovo è lontano e deve ancora venire, anche se è apparso
una volta nella storia del nostro Paese, con il suo volto
di collettività cosciente, quel 13 Giugno 2011, nella tornata referendaria, 
quando con il voto libero di milioni
di persone si scelse per il bene pubblico e per l’uguaglianza
di tutti, senza eccezioni, dinanzi alla legge.
E se è apparso, forse tornerà.

O no?

Severo Laleo

mercoledì 24 settembre 2014

Un’idea di Leader e di democrazia oltre De Bortoli e Renzi



L'editoriale del direttore del Corriere della Sera, De Bortoli,
ha avuto un'eco immediata e straordinaria. Un po’ stranamente. 
E' citato dappertutto. Anche con qualche soddisfazione,
e senza gelosie giornalistiche.
Eppure esprime, al di là se vere o false, evidenti ovvietà 
sulla personalità del Premier, note da tempo ai più. 
Specie se avversari.
La notizia dunque è solo nel fatto
che un intellettuale moderato abbia voluto dar spazio
alla sua ritrovata sincerità rifiutando il gioco dell’ipocrisia,
se non della piaggeria, diffuso nella stampa italiana. 
Eppure è possibile partire da De Bortoli, dalle sue parole,
per andare oltre nella riflessione politica, ad di là di Renzi
e della sua personalità. Oltre la contingenza.

Ma prima della riflessione, dato il peso politico dell’intervento
di De Bortoli, che non è nel suo giudizio sul carattere del Premier,
vorrei esprimere un accordo pieno sulla sua richiesta, sacrosanta,
e normale per un paese democratico e civile, di conoscere
tutti i contenuti del Patto del Nazareno.
Non è possibile che il Segretario del Pd e uomo delle istituzioni
in quanto Premier, possa concordare con chicchessia,
e specie con un ex senatore espulso dal Senato per indegnità,
e già tessera P2, una serie di passaggi politici all'insaputa,
non dico degli iscritti a quel partito, ma di tutti i liberi cittadini
(ogni iscritto al Pd dovrebbe pretendere, pronto a ritirare
in caso negativo l’iscrizione, di conoscere tutti i dettagli del Patto,
specie se il suo Segretario ha sventolato con convinzione
la bandiera della trasparenza, bene fondamentale per una democrazia
matura solo se non è nella disponibilità di qualcuno).
In realtà, il Patto del Nazareno, proprio perché determina 
un programma, dovrebbe essere online.

Chiarito questo punto politico riguardante la trasparenza, 
obbligatoria sempre in politica, specie quando si tratta di riforme, 
ecco per punti la riflessione a partire dalle parole di De Bortoli .
1. Scrive De Bortoli, e non credo solo per fare un complimento 
a questo Premier: “Una personalità egocentrica è irrinunciabile
per un leader”. Ritiene cioè il direttore che l’egocentrismo
sia una qualità del Leader. Anzi essenziale per un Leader.
Si può non essere d’accordo, anche se intorno si sente diffusa
e comune l’idea della necessità per un Leader di avere “forza
di comando” e di decisione “senza guardare in faccia nessuno”,
virtù dalle quali scaturirebbe la capacità di governare il cambiamento,
a prescindere dal tipo di cambiamento.
Eppure se si riflettesse sulla storia del potere e sulle sue modalità
di gestione, si potrebbe concludere che se ancora abbiamo 
istituzioni con un Leader “da solo al comando” 
(anche per De Bortoli il leader da solo al comando è una sciagura), 
e che se attribuiamo al Leader egocentrismo, forza di comando, 
decisionismo, è solo perché il monocratismo, al quale siamo abituati 
da sempre, altro non è che l’esito storico del maschilismo.
Senza millenni di maschilismo non avremmo un “Leader
solo al comando” né penseremmo mai di attribuire
al Leader la virtù dell’egocentrismo con tutti i suoi derivati.
Forse le cose sarebbero più avanti per la democrazia
se al monocratismo si sostituisse il bicratismo di genere:
a dirigere il governo (e i Partiti, ad esempio)
non “un uomo solo al comando”, il monocrate, ma una coppia,
un uomo e una donna, ciascuno/a con le sue qualità personali,
ma obbligati a dialogare/confrontarsi prima di avviare 
i processi della decisione.
E l’idea del Leader per forza egocentrico crollerebbe subito
con gran vantaggio per la crescita democratica della società
e per una sicura apertura a un futuro diverso. Le conseguenze
a cascata in ogni campo sarebbero notevoli. E s’aprirebbe
una strada per la democrazia mite e conviviale. Forse.

2. Il giudizio di De Bortoli: Renzinon può fallire perché 
falliremmo anche noi” non è condivisibile 
perché non ha sostanza logica, e non ha sostanza politica, 
non è argomentato, è senza dati osservabili, 
è solo quindi un’espressione insieme di pensiero desiderante 
e di pensiero temente, è un voler dire per forza
tra desiderio/augurio e timore/catastrofe. 
Altri, sempre senza logica e fuori arte della politica, 
potrebbero esprimere un contrario giudizio e cioè: 
Renzideve fallire, se vogliamo salvarci”.
In breve, chiacchiere morte.

O no?
Severo Laleo



martedì 23 settembre 2014

Scuola, il Presidente Napolitano cambia registro



Anche il nostro Presidente della Repubblica, pur saggio d'età,
e di storia, cambia registro e verso nei suoi discorsi.
Almeno quando parla di scuola. E' diventato diretto, rapido, 
persino battagliero; vuol suonare adatto ai nuovi tempi.
Parla ai giovani, perché colgano, con entusiamo le opportunità,
diano spazio alla creatività, si aprano alle tecnologie
di avanguardia, valorizzino le eccellenze. Si rivolge ai singoli
non all’insieme del mondo della scuola.
Divide e non tiene all’unità, anche per la sua strana,
e inutilmente aspra, vaghezza nell’attaccare nemici invisibili
e senza nome. 

Nel 2013 il discorso del Presidente Napolitano, in occasione 
dell'apertura dell'anno scolastico, è stato complesso e incisivo
soprattutto per le persone di scuola e contava ca. 2000 parole;
quest'anno –si sa, viviamo tempi di rapidità- il suo discorso  
conta solo 1000 parole e per scelta non pare voglia essere
incisivo in campo scolastico. Anzi pare voler colpire,
e badare ad altro.

Nel 2013 il Presidente parla di scuola con grande attenzione
e convinzione. E scrive: “Imparare è importante per l'intero sistema paese.
Ma cosa serve perché a scuola si impari meglio? I risultati di varie ricerche ci dicono
che più di altri fattori conta l'apporto degli insegnanti. E quindi ci si deve impegnare
a investire - in risorse e iniziative - come il Governo ha iniziato a fare, 
perché la già notevole professionalità dei nostri docenti si rafforzi … 
si ottengono buoni insegnanti non solo con un'accurata formazione e con opportuni 
aggiornamenti, ma anche e molto promuovendo la trasmissione e lo scambio
nella capacità di insegnare. Non bisogna mai smettere di imparare gli uni dagli altri, 
anche dai giovani, e scambiare quel che si è imparato. Sappiamo quante buone pratiche 
vanno spesso disperse”. A ben leggere, è un Presidente ben dentro il fare scuola, 
attento a sottolineare l’importanza della solidarietà di una comunità educante. 
E non solo tra docenti: “Quello che vale per gli insegnanti
vale anche per gli studenti. La pratica dell'aiuto agli studi dato dai più bravi
a chi resta indietro o dagli studenti più adulti ai più piccoli è un altro bell'esempio
di - chiamiamola così - redistribuzione dei talenti. Invito perciò gli studenti migliori
a essere generosi e attivi nel condividere quanto hanno imparato”.
Davvero un invito alla coesione solidale a partire dalla scuola.
Un manifesto di unità sociale.  Un discorso coinvolgente.
In una parola, da Presidente.
E non tralascia, anche nel 2013, il discorso sul lavoro, ma l’affronta
con stile e parole precise, senza piglio battagliero, senza inutili ismi, 
e sempre indirizzando le parole alle persone della scuola
e non a altri. “A voi ragazze e ragazzi, dico nel modo più semplice e convinto:
la sola risposta certa che si può dare alle vostre preoccupazioni per il futuro,
e sappiamo quali sono queste preoccupazioni, su che cosa ci si interroga :
"avremo lavoro e quale, qualificato e soddisfacente oppure no, potremo avere
un posto riconosciuto nella società?", ebbene, la risposta certa a queste vostre 
domande è una sola: formatevi e preparatevi nel miglior modo possibile.
Ve ne deve essere data, certo, la possibilità, dal sistema d'istruzione,
dalle strutture scolastiche, dalle politiche pubbliche. Ma almeno in parte,
in buona parte, queste possibilità oggi esistono in Italia”. Sembra dire:
le possibilità esistono, basta solo coglierle, la “rivoluzione”
non è urgente. E volando alto cita le parole pronunciate all’Onu
dalla giovane pakistana Malala Yousafzai vittima di un attentato talebano: 
"Il terrorismo, la guerra e i conflitti impediscono ai bambini
di andare a scuola. Dobbiamo condurre una gloriosa lotta contro l'analfabetismo,
la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, sono le armi
più potenti. Un bambino" - sentite queste parole! - "un insegnante, un libro
e una penna possono cambiare il mondo".
E’ stile poetico, lento e profondo, ma di grande interesse:
il cambiamento è la crescita collettiva di una società che studia.
E’ un discorso per e non contro.

Ma quest’anno il Presidente perde ogni afflato poetico 
e sembra preoccupato non tanto di parlare al mondo della scuola, 
quanto ad altri soggetti, mai nominati espressamente. 
E al discorso preciso e chiaro del 2013, comprensibile a docenti e studenti, 
oppone ora, nel 2014, un discorso non adeguato, in più parti, 
a studenti e docenti. E, quasi arrabbiato, dice: “Oggi non solo l'Italia, 
ma tutta l'Europa sono alle prese con una profonda crisi finanziaria, economica, 
sociale: e fanno fatica ad uscirne. Possono uscirne, Italia ed Europa, solo insieme, 
con politiche nuove e coraggiose per la crescita e l'occupazione, dirette soprattutto 
e più efficacemente ai giovani. … Ebbene, sia chiaro che per farcela ci si deve 
non già chiudere in vecchi recinti nazionali, e sbraitare contro l'Europa, 
ma stringerci ancor più in uno sforzo comune, integrare ancor più le nostre energie, 
in spirito di solidarietà, nella grande Europa unita che abbiamo via via costruito 
in oltre sessant'anni”. E diventa urgente la “rivoluzione”: 
Insieme dobbiamo rinnovarci, metterci al passo con i tempi
e con le sfide della competizione mondiale. Specialmente in Italia 
dobbiamo rinnovare decisamente le nostre istituzioni, le nostre strutture sociali,
 i nostri comportamenti collettivi: in questo paese che amiamo, non possiamo
più restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”.

Caro Presidente, forse le persone presenti al suo discorso, soprattutto
gli studenti, questa volta non credo abbiano ben compreso le sue parole,
perché il senso del suo invito al cambiamento è diventato vago e oscuro.
E insieme di "violenta" liberazione. In breve, ha cambiato registro. E verso.


O no?
Severo Laleo