giovedì 8 ottobre 2015

Un Referendum per la cultura del limite



Quando si andrà a votare, nel giorno del Referendum,
contro questa Riforma della Costituzione,
se mai giungerà alla sua definitiva approvazione,
non sarà perché si sarà letto e disapprovato il testo
della nuova Costituzione,
non sarà per seguire una parte politica,
non sarà perché si ritiene, a ragione, la vecchia Costituzione
comunque migliore della sua Riforma,
no, sarà semplicemente perché non sarà cancellata dalla mente
quella hybris così largamente seminata nel terreno della Riforma,
quel misto, cioè, di violenza, verbale e di atti, nel metodo
e nella sostanza, durante tutto il percorso legislativo,
quel misto di eccesso/superamento di ogni limite,
nella confusione dei ruoli tra Parlamento, Governo e Partiti,
quel misto di furbastra e ipocrita prevaricazione,
figlia di un’attitudine, moderna e apolitica, di “far fuori gli altri”,
nella gestione delle Norme Regolamentari e di Garanzia,
quel misto di dismisura ad arte nelle affermazioni di propaganda,
tipo l’infantile iperbole bugiarda: “Da settanta (sic!) 
anni la Costituzione attende la riforma!”,
quel misto di allegria, senza freni inibitori, della brigata
dei trasformisti nel taxi di Verdini, ognuno con le sue qualità,
rare in verità, sebbene diffuse, e sotto i baffi vezzeggiate,
dalla cultura servile di un popolo senza educazione liberale,
sempre pronto a schierarsi, a prescindere,
dalla parte dell’Uomo della Provvidenza (si fa per dire!),
e mai con Piero Gobetti (e si capisce, quanti dei nuovi liberali
si ispirano al pensiero limpido e gentile di Piero Gobetti?),
quel misto di tracotanza maschilista, non quella della strada, 
storicamente comprensibile, ma quella, insopportabile,
orgogliosa di sé e del suo Potere, nella gestualità inguinale
di un D’Anna a sostegno della sua solerzia a ingoiare
una “fetenzìa” di Riforma,
quel misto di orgoglio senza fine nella transumanza politica
di un Barani, da Craxi a Berlusconi, da Berlusconi a Verdini,
da Verdini a Renzi, con la sua ferrea convinzione di rendere
un servizio al Paese vestendo ora anche i panni di nuovo
Padre Costituente, senza rinunciare, dall’alto del suo scranno senatoriale, 
a una performance di antica mimica da bordello.
No, questa Riforma, con tutto il suo armamentario da hybris,
non merita l’approvazione delle persone serie.
E la serietà è un tratto irrinunciabile della cultura del limite.
O no?
Severo Laleo

lunedì 7 settembre 2015

Se Ravenna la città amica delle donne



Sabato 5 Settembre, rapida visita di Ravenna.
Biblioteca “Casa di Oriani”, mercatino in Piazza San Francesco,
arancini al Bar Palumbo, passeggiata, verso i monumenti
Patrimonio dell’Umanità, per via Ricci.
All’improvviso il mio phabletcamera si blocca, d’istinto,
per un’istantanea, a una minuscola, discreta, semplice targa
di gentil senso: una rosa rossa, mosaico of course, in campo verde
a esprimere un’idea, una volontà, una propensione, una scelta,
un programma, una realtà: “Ravenna, città amica delle donne”.
E subito il Samsung s’agita con whatsapp per un ampio
giro a “condividere”. Ottimo, Ravenna!

Eppure, appena il tempo di giungere, per un caffè,
a Piazza del Popolo, e la città amica delle donne svanisce,
incredulo il lettore, tra le parole di un editoriale
di Federica Angelini sul giornale “Ravenna e dintorni”,
dal titolo “Le donne, le elezioni e il progresso”,
per caso sfogliato al bianco tavolo d’angolo del bar.

Scopri così che la città amica delle donne non riesce
a esprimere una candidatura femminile per la guida
della città. Forse è perché, scrive Angelini, ascoltando in giro,
le donne, anche quando ci provano, poi mollano: perché sono
più intelligenti e capiscono che non ne vale la pena, perché scoprono
che la vera essenza della vita è nella famiglia o negli affetti,
perché la politica è per stomaci forti e livelli di testosterone alto”.
E amara conclude: “C’è solo da sperare che non sia vero quello
che ci siamo raccontati per anni: e cioè che avere delle donne
nelle stanze dei bottoni può essere utile a raggiungere decisioni
più equilibrate e di maggior successo. Oppure tocca sperare
che a casa i mariti si consultino con mogli, madri,
compagne e sorelle. Difficile chiamarlo progresso”.

D’accordo Angelini! Pare così, purtroppo! Il Progresso
è ancora da costruire. Anche perché fino a quando la Politica
sarà dominata da Maschi Alfa, temuti e riveriti
da maschi perdenti e petulanti, fino a quando il vertice
di un Potere sarà affidato a un Monocrate,
uomo o donna, non importa (il monocratismo nelle istituzioni
è comunque l’esito storico del maschilismo, non altro),
fino a quando testosterone e stomaci forti (quindi smisurate ambizioni) 
si contenderanno il Comando, la Guida,
la Direzione, fino a quando le donne saranno chiamate,
per decisione ad libitum di un qualche Monocrate,
spesso maschio, e non da una civile norma giuridica,
a partecipare in numero pari in ogni sede di governo,
non si potrà parlare di progresso. Almeno in Politica.
Chissà, forse sarà bene sperimentare il bicratismo.
O no?

Severo Laleo

venerdì 4 settembre 2015

La Chiesa di fratelli e sorelle



Non so se in Chiesa, durante la Santa Messa, operino ladri di borse.
E’ possibile, anche se non ho mai sentito racconti
di imprese di rapidi mirabolanti furti.
Eppure, veder partire da consunti banchi di cipresso
frotte mute di persone, d’ogni età, vigore e postura,
per giungere all’altare,
nella gioia di incontrare/ricevere il Corpo di Cristo,
tutte, stretta la borsa ai fianchi,
distorce intero il senso di ogni “fraternità
e dà la misura della pesantezza della terra in ogni cuore.

Forse nemmeno la fede in Dio basta a cancellare
la paura verso i fratelli. Specie se si è poveri!
O no?
Severo Laleo


martedì 11 agosto 2015

Società civile e civiltà del Pd



Il nostro Premier, e segretario del Pd, giustifica la sua personale
e indifendibile pratica di lottizzazione della Rai
con un ragionamento, come dire, via,“imbroglione”.
Ecco le sue parole:
Questa retorica della società civile da contrapporre al partito
(come se il Pd fosse la società incivile) per me è insopportabile...
Non è che se uno non si è mai iscritto a un partito è società civile
e invece chi fa il militante alle feste dell’Unità o ha una tessera 
in tasca è incivile”.
Proprio così.
Ma, oggi non è più tempo di sorrisi o battute,
nemmeno per i militanti, i quali ben comprendono 
la differenza di senso delle parole
nei diversi contesti; il ragionamento “imbroglione”,
pregno di semplificazione estrema e di chiara manipolazione, 
questo sì insopportabile per una persona libera,
diventa anche pericoloso per un corretto discorso politico, 
in una democrazia e alla pari.
E quanto, purtroppo, a livello di civiltà nella maggioranza del Pd, 
considerato il sonoro e diffuso ridere, in una riunione politica della Direzione, 
alla volgare battuta di De Luca contro il giornalista Gomez
si potrebbe sostenere essere comunque basso. Molto basso.
O no?
Severo Laleo

Per una cultura del limite: una riflessione di Luigino Bruni

La riflessione di Luigino Bruni, “Il grande cantico dell'umiltà.
L’umiltà è fondamentale per vivere e resistere durante 
le grandi prove”, uscita su Avvenire dell’8 Agosto, e qui riportata 
dalla rubrica/blog Cogito Ergo Sum” a cura della Fondazione 
Roberto Franceschiinvita, attraverso l’elogio della virtù dell’umiltà, 
tutti noi al senso del limite. E denuncia: oggi, in grandi imprese 
e organizzazioni, per fare carriera ed essere valorizzati occorre 
dare sfoggia dei propri meriti, mostrare mentalità 
e atteggiamento "vincenti", essere più ambiziosi
degli altri colleghi-concorrenti”. Purtroppo questo succede 
anche in Politicaper la scelta, orgogliosamente dichiarata,
da parte di una nuova, veloce, insofferente classe dirigente,
di lasciarsi guidare da un’ ”ambizione smodata e senza limiti”.
Sì, un’ambizione “smodata e senza limiti” apre al rischio 
di generare hybris. O no?
Severo Laleo

Luigino Bruni : Il grande cantico dell'umiltà
Il grande cantico dell'umiltà
L’umiltà è fondamentale per vivere e resistere durante le grandi prove.
Luigino Bruni


E quando miro in cielo
arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita,
e quel profondo
Infinito Seren?
che vuol dir questa
Solitudine immensa?
ed io che sono?
(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)


L’umiltà è una di quelle virtù che l’economia e le grandi imprese non amano pur avendone un bisogno vitale. La nostra cultura, sempre più modellata sui valori aziendali, non riesce a vedere la bellezza e il valore dell’umiltà, che così viene "umiliata". Le virtù praticate e alimentate dalle grandi imprese e organizzazioni si nutrono, infatti, dell’anti-umiltà. Per fare carriera ed essere valorizzati occorre dare sfoggia dei propri meriti, mostrare mentalità e atteggiamento "vincenti", essere più ambiziosi degli altri colleghi-concorrenti. Bisogna cercare e desiderare ciò che si trova in alto, e fuggire dal basso dove c’è la terra, l’humus, l’humilitas.
 

Il nostro non è un tempo umile. Le generazioni passate e quelle che stanno tramontando, conoscevano e riconoscevano molto bene l’umiltà. Avevano imparato a scoprirla nascosta nella terra, facendo l’esperienza del limite che fa veramente solo chi conosce la terra con le mani. È toccando i mattoni, il legno, gli attrezzi duri del lavoro, i panni poveri, il poco cibo, le macchine nelle fabbriche e nelle officine, che ci si scopriva terra, e dialogando con essa si apprendevano i mestieri e il mestiere del vivere. La cultura delle generazioni che avevano conosciuto le grandi guerre e gli olocausti, riuscendo a salvare la fede in Dio e nell’uomo, era una cultura umile, perché quegli uomini e quelle donne amavano, stimavano, premiavano l’umiltà.
 

L’umiltà è una virtù della vita adulta. I bambini e giovani non vanno umiliati allo scopo di farli diventare umili. L’umiliazione provocata dagli altri non produce umiltà, ma mille malattie del carattere. La sola umiliazione buona è quella che ci arriva dalla vita senza che nessuno ce la procuri intenzionalmente. Si preparano i bambini e i giovani all’umiltà mettendoli in contatto con la bellezza, con l’arte, con la natura, con la spiritualità, con la poesia, con le fiabe, con la grande letteratura. È incontrando l’infinito che ci si scopre finiti, ma abitati da un soffio di eternità, e quando l’esperienza di toccare l’infinito è accompagnata dalle espressioni più alte dell’umano, la finitezza non schiaccia, ma eleva, il limite non mortifica, ma fa vivere. Quando alziamo gli occhi e sentiamo il cielo "infinito e immortale", si forma in noi il terreno dove l’umiltà può sbocciare.

L’umiltà, poi, si forma nel rapporto con i propri pari: nel confronto con i compagni, con i fratelli e le sorelle. La riduzione del numero e della biodiversità dei compagni dei nostri bambini, sostituiti da incontri "funzionali" (piscina, musica …) e soprattutto da troppi rapporti "onnipotenti" con le macchine (tv, smartphone, tablet…), inevitabilmente modifica e riduce le occasioni per le buone esperienze del limite, e quindi minaccia lo sviluppo dell’umiltà. Un incontro essenziale per la nascita dell’umiltà è quello con la morte e con la malattia, fin dai primi anni di vita. Nascondere ai bambini la vista dei nonni e dei parenti morti, non portare i ragazzi ai funerali e a visitare parenti e amici malati, allontana e complica l’incontro con la legge della terra e non favorisce la maturazione dell’umiltà. Una educazione senza limite e senza limiti non può educare all’umiltà.

Molti anziani e vecchi sono testimoni e maestri di umiltà, perché la vita ha avuto il tempo necessario per renderli umili. Nelle civiltà precedenti la nostra, la loro presenza era essenziale anche per il magistero di umiltà che esercitavano. La distanza dalla prima terra che li aveva generati e la prossimità alla seconda che li attendeva, offriva una prospettiva diversa e co-essenziale sul vivere, che poteva essere donata a tutti. Anche per questa ragione il mondo delle grandi imprese, costruito su registri psicologici adolescenziali e giovanili (da qui il grande uso di metafore sportive, quasi tutte improprie), non conosce né capisce l’umiltà.

Nell’umiltà si vede nella sua massima espressione una legge universale che ritroviamo al cuore di molte virtù e di altre cose grandi della vita: si diventa umili veramente senza accorgersene. L’umiltà arriva mentre cerchiamo altro: la giustizia, la verità, l’onestà, la lealtà, l’agape. Non può essere programmata, ma può essere desiderata, stimata, attesa come dono dalla vita. E attendendola prima o poi arriva, sorprendendoci. E spesso giunge nei momenti di maggiore debolezza, dopo un fallimento, un abbandono, un lutto, quando da dentro l’umiliazione fiorisce l’umiltà. L’amore per l’umiltà è alla base di ogni vita buona, perché consente di non appropriarsi delle proprie virtù e dei doni ricevuti.

L’umiltà è una virtù "indicibile", ed è radicalmente relazionale: sono solo gli altri che possono e devono riconoscere la nostra umiltà, e noi riconoscere la loro, in un gioco di reciprocità che costituisce la grammatica della buona vita civile. È invisibile, ma realissima, e la sappiamo riconoscere – anche se non siamo altrettanto umili, anche se non lo siamo affatto ma desideriamo esserlo: desiderio di umiltà è già umiltà. I suoi frutti sono inconfondibili. Il primo è la "gratitudine"sincera nei confronti della vita, degli altri, dei propri genitori, che nasce dalla consapevolezza che i miei talenti, i miei meriti, la mia bellezza, sono dono, "charis", grazia. L’umiltà è prendere atto della verità sul mondo e sulla vita. Nasce naturalmente, è un atto dell’anima, non richiede sforzi della volontà, è il riconoscimento di quanto emerge un giorno come evidente. Si capisce che nelle cose più belle e grandi la nostra parte è molto piccola, infima, perché ciò che siamo e possediamo lo abbiamo semplicemente ricevuto dalla generosità della vita.

Tutto è grazia. Ma per arrivare a questo atto naturale e radicale di gratitudine è necessario un esercizio etico di amore alla verità, che dura tutta l’esistenza adulta, e termina – con quell’ultimo atto di gratitudine – quando ci si congeda, solo riconoscenti e finalmente umili, da questo mondo. L’umiltà allora non è altro che accesso a una verità più profonda. Per questo è un dono immenso. L’umile è sempre grato. I suoi "grazie", rari perché preziosi, nascono dalla consapevolezza della bellezza e della bontà di chi gli vive accanto – c’è una bellezza più profonda e più vera delle persone e del mondo che si svela solo agli umili. E solo l’umile sa pregare.

Un secondo segnale della sua presenza è la capacità di dire "scusa" e "perdonami". Ci sono dei conflitti che non si sanano perché ciascuno è soggettivamente convinto di essere totalmente dalla parte della ragione e così attende che sia l’altro a chiedergli scusa. Ma poiché la certezza della ragione è reciproca, si resta bloccati in trappole relazionali che finiscono per inghiottire famiglie, amicizie, comunità, imprese, a volte interi popoli. Per uscire da queste trappole c’è bisogno di almeno "una" persona umile, capace di chiedere scusa anche quando pensa di non essere responsabile del conflitto – e magari non lo è veramente. Fa il primo passo della riconciliazione perché gli interessa ricostruire il "rapporto" malato, prima e di più di vedere riconosciute le responsabilità e le colpe dei vari soggetti coinvolti. Perché sa che solo dopo avere ricomposto il rapporto sarà possibile e necessario ricostruire anche la trama delle responsabilità per i fatti accaduti.

Pronunciare questi "scusa" e "perdonami" è particolarmente difficile, e quindi molto prezioso, nei rapporti gerarchici. È difficile dire con umiltà "scusa" a un nostro responsabile: è molto più semplice non dire nulla, o dirlo per paura o per opportunismo. Ma è ancora più difficile per un direttore chiedere scusa a un proprio dipendente. Nessun regolamento dell’impresa e nessun codice etico glielo chiede. Ma poche parole come un "perdonami" detto da un manager a un lavoratore della sua squadra dà qualità etica e umana all’intero gruppo di lavoro. Sono queste parole che creano spirito di solidarietà e persino di fraternità nell’équipe di lavoro, che riesce a dare tutto nei momenti di difficoltà solo se, e quando, i suoi membri sentono di condividere tutti lo stesso destino, di essere uguali prima delle differenze di stipendio e di responsabilità. Un "grazie" e uno "scusa" sinceri e umili detti da un manager generano più spirito di gruppo di cento corsi di "team building" (formazione di un gruppo di lavoro), che in assenza di queste parole profonde finiscono per assomigliare troppo ai giochi dei nostri figli pre-adolescenti. L’umiltà, però, come altre parole grandi della vita, rende più forti e resistenti mentre ci rende più vulnerabili. Ringraziare e chiedere scusa nella verità fa manager e dirigenti più fragili in un mondo dove l’invulnerabilità è il primo valore. È come mostrare una ferita, propria e dell’altro, per volerla curare. Ma queste ferite, nel registro tutto maschile delle relazioni d’impresa, non hanno né senso né spazio. E così non guariscono, vengono nascoste, si infettano, e intossicano tutto il corpo.

Il mondo aziendale occidentale soffre una grave indigenza di nuove classi dirigenti perché ci manca tremendamente una cultura dell’umiltà, cancellata da prassi e ideologie ispirate all’anti-umiltà, dove l’umile è soltanto un "perdente". La prima lezione dei corsi di leadership dovrebbe essere sull’umiltà. Una lezione che manca ovunque per carenza di docenti e perché l’umiltà non può essere insegnata nelle business school; ma soprattutto manca perché se si iniziasse a lodare l’umiltà e le sue sorelle (la mitezza, la misericordia, la generosità…) l’intera cultura della leadership con le sue tecniche verrebbe completamente ribaltata. L’umiltà educa alla sequela. Un responsabile che non sia stato formato alla sequela – degli altri, di ogni altro, dei poveri, della parte migliore e più vera di sé – non sarà mai una buona guida, un leader.

Il valore di un’intera esistenza si misura dall’umiltà che è riuscita a generare. L’umiltà è fondamentale per vivere e resistere durante le grandi prove. Quando la vita ci fa cadere e tocchiamo la terra (humus), non ci facciamo troppo male e riusciamo a rialzarci se abbiamo imparato a conoscere la terra e siamo diventati suoi amici. Senza umiltà non si raggiunge nessuna eccellenza umana, non si apprende bene nessun mestiere, non si diventa mai veramente adulti. È l’ultima parola di ogni Cantico delle creature.

mercoledì 29 luglio 2015

Caso Azzollini: questioni di coscienza



La coscienza, nel nostro Grande Bel Paese, per seguire la retorica
infinita e misera di un nostro Premier, è una risorsa speciale, 
sempre utile, e multitasking.

Il Pd spesso scopre la sua coscienza, ma con più determinazione
in questa fase di Gran Cambiamento con un Nuovo Segretario.
Nel caso Azzollini, il senatore dal linguaggio urinario, accusato
di associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta,
il richiamo alla coscienza, in quanto “proprio convincimento”, 
genera libertà di voto, ma quando in gioco è la riforma della Costituzione
il richiamo alla coscienza, in quanto “proprio convincimento”, 
semplicemente non esiste. I domiciliari per Azzollini valgono più 
della Riforma del Senato. La coscienza del Pd è a servizio.

Il senatore Azzollini ha una sua coscienza. Libera, senza lacci
e lacciuoli, da Uomo di Potere, al servizio del Bene Comune.
Ma per fortuna ogni linguaggio scopre la “suacoscienza,
specie quando è impegnati ad argomentare le proprie ragioni.
Azzollini si scopre persona di gran talento nel convincere, 
con il “suo” linguaggio Suor Marcella a eseguire i suoi ordini 
(almeno secondo l’accusa). Pare abbia usato, siamo maestri in Italia, 
espressioni senza peli sulla lingua per tenerla buona.
La sua è la coscienza del dominio.

Suor Marcella ha sicuramente timor di Dio, ma il suo silenzio,
forse anch'esso per timor di Azzollini, svela, impedita di ribellione civile, 
la “suacoscienza, comunque offesa. Eppure se Azzollini avesse parlato 
di orina a Suor Giovanna, la suora impegnata
nel sociale nel Nord, oggi il senatore sarebbe ancora costretto
a nascondersi con ignominia. Ma la coscienza di Suor Marcella,
nel Sud, ha dettato la rassegnazione.

I senatori del M5S, oggi, al Senato, insieme ad altri, hanno votato
per i domiciliari ad Azzollini. E’ vero, il Movimento 5 Stelle grida troppo 
e alza i toni oltre misura, una gioventù ad alto volume,
con un comportamento sui generis, senza esperienza di lunga data, 
eppure, grazie alla “suacoscienza, ricordando Jahier, l’onore d’Italia 
(almeno per ora) è salvo!

O no?
Severo Laleo


sabato 25 luglio 2015

La violenza, la vecchia di stazione e i giudici di Firenze


Stazione di Napoli, Napoli Centrale, proprio Napoli Napoli.
Sono gli anni della minigonna. Anni lontanissimi.
Una giovane donna è in fila per il biglietto del treno.
Ai lati della fila, per confine, dei solidi corrimano, a mo’ di  tubi,
di un ottone a tratti lucido e brillante. A volte opaco di sudicio.
In stazione, per il biglietto, s’era prigionieri di fila, senza catene.
Vuoi lasciare la fila? Devi essere abile a piegarti ad angolo retto,
e sgusciar via furtivo dal tubo d’ottone. Per stanchezza, e per la gioia
degli astanti: l’operazione biglietto era un’avventura dialogica.
All'improvviso un giovane “malvissuto”, con la fretta nelle gambe,
entra nella fila all'altezza della giovane donna e la stringe tra le braccia.
Gesti e intenzioni e violenza appaiono chiari a tutti.
Al gridare della giovane donna s’accorre in tanti.
Ma è lesto il malvissuto a fuggire.
Resta inconsolabile un pianto nelle braccia di solidarietà di un’altra donna
di fila, mentre a passi tardi e lenti  s'appressa la Polfer.
L’atrio di Napoli Centrale, esperto di violenza scippagna, si raggela.
Ma una vecchia (h)abitué di stazione urla sparata.
La memoria restituisce ancora quel suono violento, pressappoco:
Ave raggione  ‘o guaglione, è annura ‘a fetente”.

Per fortuna quella vecchia di stazione non esiste più.
Ma son rimasti ancora dei giudici, a Firenze, ad argomentare,
al par della vecchia, per giustificare una sconcertante violenza.
O no?

Severo Laleo

domenica 12 luglio 2015

In Italia i “capaci” in politica sono tutti uguali: casta continua



Le seguenti, si racconta, siano affermazioni intercettate 
del Renzi: "Letta non è capace..." "proprio non è capace..." 
"Letta sarebbe perfetto per la Presidenza della Repubblica"...
"Berlusconi è con me".
È incredibile quanta "nuova" (eppure sempre antica) cultura 
(si fa per dire!) politica contengano queste confidenziali 
espressioni di un conversare tra amici! E che amici! 
Tutte persone in istituzioni! Istituzioni quasi al bar, 
o in simil sede. Assente Aidos

In breve: il Potere non è per le persone perbene 
(Letta, alla fine, non è "cattivo", sostiene il Renzi), 
né, è facile arguire, per le persone miti, alla Bersani
ad esempio. Il Potere è solo per i capaci.
La Presidenza della Repubblica può bene andare a Letta
cioè a un incapace, ma il Potere Esecutivo, no! 
Per il Governo servono (a chi?) persone capaci
I Renzi, i Berlusconi, ora anche i Verdini, i Napolitano 
(capace, capace, nonostante il bis alla Presidenza 
della Repubblica!),  e tutti quegli onorevoli, troppi, 
capaci di "cambiare", cioè di non rispettare gli impegni 
assunti con gli elettori su un programma abbastanza 
chiaro e preciso. 
Anche questa è una notevole capacità, soprattutto qui da noi, 
nel Bel Paese. E in politica le persone capaci, si sa, 
sono tutte uguali: senza specifiche competenze, 
ma pericolose per la democrazia. 
Casta continua.

O no?
Severo Laleo


lunedì 29 giugno 2015

Expo: Casta Continua



Expo, almeno a veder le tante immagini,
rischia di diventare una tavolata per politici in affanno,
Casta Continua, pronti a un elogio irriverente del cibo.
E non è un elogio del nutrirsi tutti e bene,
al contrario, è un elogio del mangiar di gusto,
con la tentazione politica, perenne, dell’abbuffarsi.

Expo: sintesi di spreco, e simbolo del passaggio, 
con luminarie,
da una società ideale del “convivio” per tutti,
a una società presente e reale del trionfo della “gola”.
Per soli prosperi.

O no?

Severo Laleo

“Verso” De Luca: Casta Continua



Appena il Paese, per uscire dalla stretta della corruzione,
in un sussulto di serietà e a gran fatica e a tortuosa contorsione,
si dà un provvedimento un po', solo un po', Severino,
ecco scatenarsi la rabbia della Casta al Potere,
guidata da un indomito, di nuovo conio, Presidente del Consiglio, in combutta con il "sospeso", con il Pd, con gli antichi italici arzigogoli sempre verdi, con l'anziana consigliera campana,
donna bisognosa di riflessione, e chissà chi altri!
Sicuramente non con il mondo della scuola,
ultima barriera, per cultura di servizio, contro la corruzione. Almeno fino al “” di piegate cervici di senatori.

E l'Europa vuole affossare la Grecia e limitare il contagio!
Ma c'è più pericolo di infezione in Italia, se ogni giorno
Casta Continua ruba alle persone oneste il minimo vitale.

O no?

Severo Laleo

domenica 28 giugno 2015

La "non parità" alimenta la hybris

Riprendo da  “Cogito ergo sum”  questo intervento di Teju Cole
perché diventi un pro memoria quando si tratterà di scegliereda quale parte stare nella storia.Per una società di persone alla pari.O no?

 
È iniziata la rivoluzione per diventare tutti ugualiConsapevolezza e uso dei social, il più afropolitan degli autori spiegacosa succede alla periferia del mondo
Il testo che in parte anticipiamo sarà letto da Teju Cole domenica a Capri(Piazzetta Tragara, ore 19) nel corso della decima edizione de Le Conversazioni, festival internazionale diretto da Antonio Monda e Davide Azzolini che si svolge a New York, Capri e a Roma. Tema: “Rivoluzione Cosa pensare di chi sta alla periferia dell’impero, apparentemente ai marginidel suo raggio di interesse, e all’improvviso diventa visibile? Cosa pensare di persone,di cui non abbiamo mai sentito parlare, che all’improvviso dicono «trattateci da pari»?La periferia è implacabilmente vicina. Una catena di eventi cruciali della storiacontemporanea è cominciata quando il fruttivendolo tunisino Muhammad Bouazizisi è dato fuoco per protesta. Le piccole sommosse iniziate nella sua città natalesi sono diffuse nel resto della Tunisia e in altri paesi. Altri cittadini frustrati si sono dati fuoco. La polizia ha sparato sulla folla.Anni di malcontento represso nei confronti delle dittature sono sfociatiin un nuovo coraggio, in nuove forme d’espressione di cui Internet ha rappresentatouno strumento organizzativo fondamentale.Meno di due settimane dopo la morte di Bouazizi per ustioni, il dittatore tunisinoBen Ali è fuggito in Arabia Saudita. Un mese dopo, in Egitto è stato deposto Mubarak.In ottobre, è stato catturato e ucciso Gheddafi. Le conseguenze di queste rivoluzioni,come tutti sanno, sono le più diverse. Ma è chiaro che a un certo punto,negli ultimi cinque anni, tantissime persone da sempre invisibili sono diventate visibili.E la questione della visibilità è strettamente associata a quella dell’eguaglianza. Di solito si parla di eguaglianza come se ci fosse un consenso unanime sul significatodel termine. Ma non è così, si tratta di un concetto complicato. Una delle principalicomplicazioni è che tutti si credono egualitari, in un certo senso, ma con questa parolaintendiamo cose diverse. La gente vuole eguaglianza di diritti, di condizioni di vita,di salario, oppure di reddito, di trattamento fiscale, di rappresentanza politica.E non solo queste eguaglianze sono spesso in contrapposizione diretta fra loro,ma alcune sono di per sé difficili da analizzare.Amartya Sen ha sottolineato che la diversità, «la sostanziale eterogeneità degli esseri umani », è una condizione preliminare all’idea di comunità. Alla luce di questo, vediamoche la celebre frase «tutti gli uomini sono creati uguali» fa passare in secondo piano il fatto che esiste una forte diseguaglianza pregressa che i nostri patti sociali dovrebbero contrastare. Come spiega Sen, «una considerazione uguale per tutti può richiedere un trattamento molto  diseguale a favore di coloro i quali si trovano in una posizione di svantaggio». Per raggiungere certe forme di eguaglianza, è necessario trascurarne altre, meno centrali. Per esempio, a volte si deve abbandonare una visione rigida del concetto di “eguali opportunità” se si vuole ottenere una complessiva eguaglianza di libertà. Il filosofo J.R. Lucas ha espresso un pensiero simile nel suo saggio Against Equality : «Possiamo garantire l’eguaglianza sotto certi aspetti tra membri di certe classi, per certi scopi e in certe condizioni: ma mai, necessariamente mai, è possibile garantire l’eguaglianza sotto tutti gli aspetti tra tutti gli esseri umani per ogni scopo e in ogni condizione. Il sostenitore dell’eguaglianza assoluta è condannato a una vita non solo di recriminazioni e invidia perenne, ma di inevitabili e continue delusioni ». Penso che la distinzione binaria di Lucas sia semplicistica: accettare le cose come stanno e dimostrare una sciocca fede nell’impossibile non sono le uniche scelte a nostra disposizione. Siamo dotati di immaginazione e non dobbiamo per forza fermarcia «sotto certi aspetti tra membri di certe classi». Non è ingenuo né illogico credereche i nostri patti sociali possano includere forme di giustizia distributiva. La connettività è arrivata a ricoprire un ruolo fondamentale in questo campo.I dispositivi portatili ci permettono di aggiornarci su ogni forma di intrattenimento,ma anche sul nostro conto in banca, sulle cartelle cliniche, sugli amici, sulle nostre famiglie. I social media hanno avuto il merito innegabile di aiutare le persone a organizzarsi per cause progressiste: abbiamo visto quanto possono essere potenti in Iran, in Turchia, in Nigeria, in tutta l’Europa, in tutto il mondo. «Ai dittatori arabi non piace il venerdì», si dice - perché tendenzialmente è il giorno in cui vengono organizzate le dimostrazioni. E si potrebbe anche aggiungere: «Gli oppressori non amano Twitter». Nell’arena dei social media, ciascuno diventa una centrale operativadi un nuovo modo di vedere il mondo. Le persone sono sempre più consapevolidelle disparità nei diritti umani e nella distribuzione delle risorse. La gente comincia a farsi avanti - sia dalle parti di casa nostra che ai margini dell’impero - e chiede di essere trattata in maniera paritaria.Questa è già una forma di rivoluzione.(Traduzione di Gioia Guerzoni) Repubblica 25.6.15

venerdì 26 giugno 2015

Senato: Casta Continua



Luminoso spettacolo oggi al Senato! 
Il veder/sentire senatori e senatrici, 
tutti, tutte, spogliati, spogliate, 
della costituzionale funzione di dibattere e decidere, 
biascicare, per un dovere rituale, un “sì” di fiducia 
nei confronti di un Governo, a sua volta non in grado, 
per paura, di dare fiducia al lavoro di una Commissione,
dimostra e conferma la crisi della Politica.

A scorrere, lungo il corridoio stretto del monosillabo,

politici, casta continua, ormai distanti dal Paese Reale.

Una pena, almeno per i tifosi della libertà.

O no?
Severo Laleo

sabato 30 maggio 2015

De Luca, Renzi Bindi: l’ambizione di Potere e la sovranità di un popolo



Ieri il Pd era Bersani. Il dialogante. Il mite Bersani.
Ora è De Luca. Un esperto in verbosità minacciose.
E un amministratore locale in grado di contribuire
alla crescita del Pil. Addirittura.
Ormai l’immagine del Pd è De Luca. Tutto il Pd, o quasi,
è per De Luca. Anche Renzi, l’uomo solo al comando,
è diventato suo ostaggio. Non è riuscito a schivarlo,
e sì che ci ha provato, e alla fine si è fatto schiavo.
Perché De Luca è un vecchio arnese della Politica.
E sa, sa dire, sa fare. Così dalla rivoluzione del nuovo
è nato l’abbraccio con il vecchio. Sempre per vincere.
A prescindere. Un’intesa perfetta. Per la vittoria.  
Vuoi un’idea del tipo di abbraccio? Leggi Polito sul Corriere: “L’arcipelago di liste collegate a De Luca e al Pd in Campania …
si spinge fino a noti nostalgici del fascismo, i quali dichiarano
che non si sentono di aver tradito la causa perché in realtà
lo «sceriffo» di Salerno è un vero uomo di destra;
e comprende i notabili del partito di Cosentino, l’ex padre padrone
del centrodestra che fu duramente combattuto dalla sinistra
di De Luca in nome della questione morale, ora in galera
per concorso esterno con i Casalesi.

Di fronte a tanta novità gli ex segretari del Pd pare
siano ancora tutti muti. Tranne il solito mite Bersani,
a suo agio forse solo in un Paese civile, gli altri non sprecano
una parola a difendere le istituzioni.
E a fermare la violenza verbale, e fuori argomento,
di giovani governanti/dirigenti. Eppure, se ancora sono in grado
di veder lontano, sbagliano di grosso con il complice
silenzio. Fassino, già Ministro della Giustizia, zitto.
Veltroni, già Vicepresidente del consiglio, zitto.
Franceschini, Ministro della Cultura, zitto.
Paiono uomini senza struttura istituzionale, se lasciano
senza difesa una Presidente di Commissione Antimafia.

Che avrà fatto di scorretto la Presidente Bindi per attirarsi
insulti e livore violento, e violento perché ad personam,
dai giovani dirigenti del Pd?
Sì, livore violento, e dall’inizio, dall’idea stessa di rottamazione,
perché i giovani dirigenti del Pd usano spesso parole di “violenza
(che non è la “ferocia” del momento, per dirla con il Ministro dell’Interno, Alfano, ma un metodo di lotta) per costringere,
soprattutto chi non s’adegua, a cedere alla loro volontà
di potere, e così, invece di spiegare, argomentare, sottolineare,
se sono palesi, gli errori istituzionali, aggrediscono, urlano, insultano, schiacciano.  In un gioco cruento, azzarda Gramellini.

Se la Presidente Bindi ha svolto con cura il suo lavoro e servizio,
nel rispetto di ogni regola, è solo da elogiare. E Gianfranco Pasquino spiega oggi con chiarezza il ruolo della Bindi,
eppure il Pd vuol guardare da un’altra parte. Intenzionalmente.
E cancella malamente la trasparenza. In verità, le persone,
al momento del voto, hanno diritto a ogni informazione utile
su ogni candidato, nel rispetto delle regole. Solo questo il tema.
Ma per troppi nel Pd Rosy Bindi è una “piccola vendicatrice”.

Un popolo, quando non sa più distinguere tra oppressori
e oppressi, quando non sa più distinguere tra violenti e miti,
quando non sa più distinguere tra la proliferazione
di capetti/vassalli a disposizione di un Governante all’Italicum
e la democrazia di persone libere alla pari,
quando un popolo, questa volta campano, non rifiuta
con sdegno nobile le parole di per sé oltraggiose del Premier
De Luca ci mette a posto la Campania”  (mette a posto?
e a chi?) è destinato a ripetere i suoi errori.
In forma nuova, certo, e con colpa grave.
O no?
Severo Laleo




giovedì 21 maggio 2015

Il futuro della scuola? Un ritorno alla piazza di Cerignola



“Domani … tu … tu … tu … e tu!”
“Don Matté, per piacere … pure a me! Megghierema, è malata!”
“No, no, tu … un’altra volta!”

I braccianti nella piazza del paese sono in mostra offerta
per don Matteo. E per don Luigi.
E per Vicienzo, il factotum di donna Assunta.
Per oggi l’attesa è finita. Chiusa.
La chiamata per la vigna di don Matteo è stata l’ultima.

Così una volta il mercato del lavoro: a voce, semplice,
diretto, a tu per tu. Chiamata diretta e contrattazione alla mano.
Senza tasse e contributi. A paga leggera. E variabile.
Le complicazioni dei diritti, con le lotte sindacali,
sono ancora da venire, a bloccare –oggi si sostiene- sviluppo
e crescita. E occupazione. E flessibilità.
Insomma, un guaio, i diritti, per la modernità veloce.

Per fortuna, oggi, si cambia verso, grazie a un governo
di centrosinistra di giovani preparate/i. E schiacciasassi.
Giovani coraggiose/i nel violentare il programma per il quale
hanno ottenuto i voti per governare. E tutte/i virili nell’andare oltre, con visione tutta maschile, a produrre l’oltraggio.
Con la Riforma del Lavoro, ad esempio, ad assunzione
semplice e diretta, e a riduzione di costo, la semplificazione
è stata garantita: i don Matteo di oggi, nuovi, mobili
e intraprendenti, oltre la piazza, scelgono la manodopera,
non più a giorni, con l’antico susseguente licenziamento ad nutum, ma a tre anni, con la moderna susseguente possibilità
di licenziamento, a seconda di … .

Anche nella scuola, oggi, meritiamo un salto di qualità.
La neutralità democratica della graduatoria, trasparente
e controllabile, sorta anche a difesa della libertà di scelta
e di insegnamento, cede, per modernità, efficienza e qualità
del fare scuola (la creatività dei governanti nel sereno sparar chiacchiere d’imbroglio senza controprova è senza limiti),
ripeto, la neutralità democratica della graduatoria cede
il posto alla chiamata diretta del Preside don Matteo.
E del Preside don Luigi. E per il tramite di Vincenzo, l’informatore
della Preside donna Assunta.
E s’allargano  gli spazi del mercato: non più la piazza,
ma un ambito ampio, provinciale e/o territoriale;
e variano le modalità della contrattazione: non più la presenza fisica, in fila, in primo piano, intorno alla fontana monumentale,
ma in un elenco,  di per sé parlante, per competizione,
con seguito di proposta e colloquio (e la moglie malata continua 
a non valere!); e muta anche la durata: non più un incarico giornaliero, quotidianamente controllato, nella sua qualità, 
dal don di turno, a merito per una nuova futura chiamata,
ma per un triennio, annualmente controllato nella sua qualità
dal don Preside di turno prima di meritare una conferma nell’incarico.

Forse, quando si scorda la storia delle persone in carne ed ossa,
il Futuro torna nel Potere dei don, e, nelle mani dei braccianti,
il cappello. E la società tutta regredisce. Il processo
di civilizzazione si blocca, per merito di una Politica, esente
da preliminare valutazione oggettiva.
Ormai il voto da solo non basta più, perché non offre garanzie
di onestà intellettuale e di competenza.

O no?

Severo Laleo

martedì 19 maggio 2015

La buona scuola, l’ossessione del merito e il futuro dei giovani




Lorenzo Bini Smaghi nel suo articolo Il dilemma del merito 
per la buona scuolasul Corriere scrive:
Se si ha a cuore il futuro dei giovani, e si vuole dare loro uguali opportunità, indipendentemente dalla situazione economica delle rispettive famiglie, ci sono solo due soluzioni. La prima è quella 
di accettare la logica anti-meritocrazia nella scuola pubblica … 
In questo caso deve essere data la possibilità anche a chi proviene da famiglie meno abbienti di accedere alle scuole private 
o a corsi di recupero, attraverso incentivi fiscali o trasferimenti monetari, per poter essere alla pari con chi se lo può permettere. La seconda soluzione è invece di promuovere una riforma della scuola pubblica ancora più incisiva di quella messa sul tavolo, che ponga veramente al centro il merito, non solo degli studenti ma anche degli insegnanti, con test periodici, rigorosi ed uniformi in tutto 
il Paese ed incentivi monetari per il corpo insegnante strettamente correlati con i risultati.

In verità, forse, "Se si ha a cuore il futuro dei giovani, e si vuole dare loro uguali opportunità, indipendentemente dalla situazione economica delle rispettive famiglie" non "ci sono solo due soluzioni", ma esiste anche una terza soluzione, oltre l’ossessione del merito fine a sé stesso, proprio in quanto il merito è comunque una variabile dipendente da tanti fattori, oggettivi e soggettivi.
Ad esempio, se si provasse a 1. costruire nuove scuole non solo con aule e uffici, ma anche con spazi plurimi per attività comuni oltre la classe (biblioteche, laboratori, palestre, sale di musica, cinema e teatro, aule circolari per dibattiti per l’educazione etico-politica, campi per attività sportiva, etc.);
2. dotare le scuole di ogni bene strumentale per ogni tipo di didattica, di classe e ad personam;
3. stipendiare bene e tenere in alta considerazione gli insegnanti
e le altre figure professionali fondamentali per garantire il migliore esito possibile nel processo di apprendimento (psicologi, pedagogisti, sociologi, docimologi, etc.);
4. garantire a ogni persona in età di apprendimento, almeno fino
a 18 anni, la “promozione”, intendendo per promozione non
il semplice passaggio da una classe all’altra attraverso la pratica burocratica degli scrutini, ma il passaggio da una situazione iniziale di sapere A ad una situazione di sapere in progress B attraverso la pratica della cooperazione didattica, nel rispetto delle soggettive abilità di ognuno (nessuna persona è uguale a un'altra persona,
ma tutti hanno il diritto di raggiungere il massimo di sapere,
e le strategie didattiche non sono uguali per tutti);
5. eliminare la bocciatura e l’esclusione dal processo educativo
in quanto nella formazione delle persone non esiste la possibilità dell’insuccesso;
6. incrementare le ore di insegnamento e il panorama degli insegnamenti, per dare a tutti la possibilità di sperimentare
le proprie attitudini personali;
7. abolire la didattica del trinomio lezione/interrogazione/voto,
perché è una didattica dell’invasamento controllato funzionale
solo ai testi Invalsi
8. valutare i processi di apprendimento con un’azione quotidiana, da incrementare con nuovi studi ad hoc: il controllo non è da esercitare sulle persone, ma sui processi; ogni persona di scuola,
a prescindere dal suo ruolo, e dalla sua soggettività, utilizzerà
la valutazione di processo per incrementare il sapere generale;
per altro tipo di valutazione (punitiva) esistono già leggi e regolamenti;
9. introdurre l’educazione etico-politica, anche attraverso pratiche
di servizio civile e di volontariato (oltre l’alternanza scuola/lavoro);
10. rompere il numero fisso di studenti per classe
11. assegnare un massimo di dieci studenti nelle ore
degli apprendimenti di base; il numero massimo di studenti può crescere per altri insegnamenti e/o attività;
12. eliminare le supplenze, in quanto solo funzionali a una didattica
del trinomio lezione/interrogazione/voto, ma inutili in scuole
ad alta densità di figure professionali e di attività;
13. dotare gli spazi del fare scuola di fiori colorati, di acquari colorati, di dipinti colorati, di piante colorate, e di altro di colorato per educare a vedere e a raccontare i colori a chi non può vedere;
14…..  ….
se si provasse a fare tutto questo e altro, forse il futuro dei giovani, anche dei meno abbienti, sarà più libero, civile e solidale.
Altro che merito!
Ma qualcuno potrebbe dire: sa, per controllare il merito bastano
pochi soldi, mentre per investimenti di tanta portata servono
tanti soldi? Solo per iniziare, si potrebbe rispondere: se si decide 
di investire nella scuola per la civilizzazione di un popolo, si può ben rinunciare, con F35 nuovi, meravigliosi, potenti, avanzatissimi, e frutto pregevole di scuole dall’alto merito, alla sua militarizzazione.
O no?

Severo Laleo

lunedì 18 maggio 2015

La #buona scuola, l’etica della cura e la democrazia paritaria



Troppi tra noi sono ancora abituati a ragionare con la cultura 
maschilista e/o maschile. E troppi anche nel governo,
a prescindere dal genere di ministri e sottosegretari.
Specie in questi tempi bui di leaderismo approssimativo
e urlato, solo per Maschi Alfa. E in Italia, oggi, tutti i leader 
sono Maschi Alfa.

Un esempio di dominante visione maschilista/maschile è dato
dal ddl la buona scuola. Il disegno di legge ha un obiettivo
di “novità” (si fa per dire: in realtà è un ritorno a un autoritarismo 
maschilista del passato) di fondo: l’introduzione della competizione
tra docenti in vista di un miserevole merito.
In breve si tenta di introdurre, insieme alla carota
di un miglioramento economico di vergognosa indicibile misura,
il bastone di un controllo culturale e politico attraverso una rivalità permanente e divisiva tra persone di cultura operanti 
in un ambiente di cooperazione, empatia, cura e dedizione
ai minori.
Il massimo della contraddizione, ma coerente con una visione autoritaria del potere maschile. Se analizziamo il disegno di legge 
da un punto di vista di una cultura di genere è facile notare quanto 
sia tracotante, appunto, l’imposizione di un modello maschilista/maschile (a competizione avvilente) a una struttura, ormai anche a livello di dirigenza, ad alto tasso di presenza femminile (a cooperazione di cura).

Se l’etica femminista ha prodotto l’ "etica della cura",
proprio  in opposizione all'ossessione della competizione,
forse la battaglia perché la scuola pubblica, con tutti i suoi limiti, 
non si trasformi in azienda privata, è anche una battaglia
per la democrazia paritaria. Di donne e uomini. Alla pari.

O no?
Severo Laleo




venerdì 15 maggio 2015

Il M5S e la Campania senza limiti di De Luca e Caldoro



Perché mai una persona “normale”,
cioè semplicemente libera, civile, autonoma, indipendente,  
responsabile, secondo Costituzione, in quota parte,
dell’intera sovranità popolare,
perché mai una persona con questo essenziale patrimonio culturale
e politico, in una parola, una persona semplicemente onesta,
perché mai, in Campania, per il governo di una regione
tra le più popolose e importanti del Paese,
perché  mai dovrebbe votare per la lista  di  Stefano Caldoro 
o di Vincenzo De Luca?
A leggere il Fatto Quotidiano.it nelle liste dei probabili governatori 
è possibile incontrare: “Indagati, imputati, condannati. Trasformisti 
incalliti. Trasformisti dell’ultima ora. Ex cosentiniani, ex fascisti. 
Familiari di inquisiti per camorra. Gente indagata per voto
di scambio. Personaggi arrestati e sotto processo. Leader 
dell’ultradestra schierati nel centrosinistra. Ex sindaci di Forza Italia 
alleati del PdEx sindaci del Pd in lista con Forza Italia
Ex sindaci furbetti che si sono fatti decadere per aggirare l’incompatibilità. 
E’ la carica degli impresentabili in Campania. I casi più discussi
imbottiscono le liste del candidato Pd Vincenzo De Luca
Ma anche il governatore uscente, l’esponente di Forza Italia Stefano Caldoro
ha imbarcato di tutto, turandosi il naso. De Luca dice: 
Non abbiamo controllato”. Caldoro invece replica: “Sono garantista”. 
Poi fanno a gara ad accusarsi reciprocamente a chi ha messo 
in campo le liste peggiori. Senza dimenticare che il primo 
degli impresentabili è De Luca, condannato in primo grado per abuso 
d’ufficio per aver inventato la figura del project manager del termovalorizzatore 
di Salerno in modo da favorire uno dei suoi più stretti collaboratori: 
retribuito con ‘appena’ 8.000 euro netti, ma sarebbero stati molti di più 
(circa 450.000 euro lordi) se l’impianto fosse stato realizzato”.
Ma chi tra i potenti della Politica si scandalizza? Nessuno.
Dal Segretario del Pd, l’inventore del “cambiar verso”, il rottamatore
ora si può dire, rapido e presente contro i diritti dei deboli,
e lento e assente contro la forza degli “impresentabili”, solo “imbarazzo”, 
e dal candidato governatore De Luca, a onore suo e della politica, 
queste parole: Nelle  liste  condannato indagato, ma quale cazzo 
è il problema? Opportunità? Io per opportunità non voterei nemmeno 
Schifani o Lupi, eppure stanno nella maggioranza. Che Paese di merda
fanno venire proprio lo schifo.” Evidentemente, ognuno ha il suo "schifo".
E i limiti, sul piano estetico, e soprattutto sul piano etico e politico, 
sono saltati, non esistono più, non sono più riconoscibili. 
E si è tutti senza limiti ormai, complice una generazione di innovatori 
impauriti e senza voce nel PdA partire dal Capo, il decisionista pronto 
agli abbracci. E ad abbozzare. Per vincere. Anche con le macerie.

Non è dato sapere se in Italia sorgerà mai un fronte liberale
(nel senso semplicemente del rispetto della Costituzione Repubblicana)
e di sinistra (nel senso semplicemente dell’esigibilità del diritto 
alla dignità, al lavoro, alla salute, all'istruzione), ma, di certo, ora, subito, 
in Campaniaesiste una sola possibilità per voltar pagina: un voto, 
forte e sicuro, guardando alla legge della morale e insieme al cielo stellato,
un voto per segnare una svolta, un cambio di passo, una nuova direzione, 
un nuovo verso, un nuovo orizzonte, a prescindere anche dal programma, 
un voto, in breve, al M5S.
La Campania ha un bisogno vitale di una rivoluzione antropologica,
dopo gli ultimi tradimenti di imbarazzati rottamatori ingordi di potere.

O no? 
Severo Laleo