Il calcio, in questi ultimi vent’anni,
è stato il protagonista
indiscusso (bel segno dei tempi!) della lotta
politica in Italia,
da quando, cioè, Berlusconi ha prima buttato a mare
il “teatrino della politica”, per introdurre, appunto,
il “campo di calcio”, e, in seguito, da attore
di un suo copione
in un suo teatro, ha fatto fuori (ma
solo a parole,
giusto per correre libero nel campo),
i “politici
di professione”,
per fare della politica la sua
professione a protezione esclusiva
e diretta dei suoi interessi e della
sua fedina penale,
con una personale lotta contro la
magistratura.
Per una democrazia (si fa per dire!)
plebiscitaria,
oltre la legge, oltre la divisione dei
poteri.
Il suo impegno di guerra nacque dal mondo
del calcio,
con il proclama solenne: “scendo
in campo”.
Una volta preparato, da Berlusconi, il campo, tutti si son
trovati a giocare, in una partita truccata
e fuori campionato,
senza arbitri e senza regole, solo con un
vociante pubblico interessato e tifoso.
E il Porcellum.
Per vent’anni, partiti e leader (solo Bersani, forse, non ha mai indossato
una
maglietta), hanno aizzato, anche con colpi bassi,
a turno, i tifosi, spettatori non paganti a
trasferta rimborsata.
Campo, partita e tifosi.
Chi non è della partita è fuori.
E così il nuovo Renzi non abbandona il vecchio
campo,
ma si diverte con il suo “calcio di rigore”,
imbrigliato, nonostante un’alta ambizione, nella logica miserrima e perdente della
partita.
E Vendola,
addirittura, rifiuta il Partito per “riaprire la partita”.
Anche Monti,
il professore colto e preparato,
per tentare di introdurre la novità di un suo
linguaggio,
inventa, malamente scimmiottando, un fragile
e dipendente
“salgo in politica”, ma solo ed
esclusivamente
per “scendere in campo”. Un delirio diffuso.
Ora l’inventore della partita cambia gioco:
basta sbaragliare
il campo, la guerra è finita - almeno per
gli altri, la sua continua contro la magistratura-, e puntuale arriva Letta, con il suo ardente “fare
spogliatoio”, confortato, in questo, dai suggerimenti di Renzi,
a dare “un’impronta di sinistra” e
a non sbagliare un’altra volta
“il rigore”. La sopportabilità è ormai
al limite.
Per fortuna, almeno per chi non vuole
essere solo spettatore,
e tifoso, fuori del campo
e fuori spogliatoio, da una parte, a gridare, c’è Grillo,
con il suo linguaggio diverso, aggressivo, brutale e chiaro
del “fuori
tutti”,
e, dall’altra, a proporre soluzioni nuove, c’è la Puppato, con il suo linguaggio
partecipativo,
responsabile, aperto al futuro e di più alto senso politico,
del “tutti
dentro”. Eppure sono i soli a poter chiudere definitivamente la partita.
O no?
Severo Laleo
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