lunedì 28 gennaio 2013

La cultura finalmente ha un suo nuovo fondamento: l’art.1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani




Dichiara Yehoshua, “da uomo di cultura, spesso a contatto con i giovani in Israele
e nel mondo”, a l'Unità: «la demonizzazione dell’altro da sé 
spesso nasce dall’ignoranza e si alimenta di stereotipi. 
Al tempo stesso, però, non bisogna cullare una idea salvifica 
della cultura. La cultura non basta: nazismo e fascismo sono nati
in Paesi ricchi di storia, musica e arte». 

Vero. Dunque, il problema diventa: quale cultura?

Forse, la cultura, anche nelle sue espressioni di musica,
di arte, di poesia, di creazione della bellezza,
di qualsivoglia produzione dell’uomo,
se ignora la realtà dell’altro,
se nell’altro non riesce a percepire il suo sé,
se non interiorizza e non pratica  l’idea dell’uguaglianza degli uomini
e della dignità della persona,
diventa un terribile e tragico gioco di inganni per pochi.
O no?
Severo Laleo

Monti, le tre carte e la serietà della politica




La serietà politica, con il conseguente trasparente impegno
a mantenere la parola data (a introdurre questa “novità”, almeno adesso,
in questi tempi bui di politica spettacolo senza più memoria,
è stato Renzi: con il suo comportamento post-primarie ha restituito,
in un paese di così tanti buffoni, dignità alla politica, e senza essere professore),
la serietà politica, ripeto, da noi è un optional nelle mani
di imbroglioni per vocazione, anche quando sono stimati professori,
capaci sì di intendere discorsi seri, e scientifici, ma anche,
per antica italica consuetudine, di praticare l’arte della bricconeria
attraverso il gioco delle tre carte, perché tanto in politica, si sa,
Re di Denaro vince.
E così, l’altro giorno, il “serio” professore Monti apre al PD
con questa parole: “Con il Pd, ma senza Vendola”.

Ora se i commentatori politici trovano normale (si fa per dire!)
questo ammiccante sussurro del Professore al PD,
partito di possibile maggioranza relativa, partito che ha sottoscritto
un accordo di coalizione e di programma con Sel e altri,
e lo riportano senza un commento critico, anzi ritenendolo ammissibile,
mi chiedo, qual è il grado di serietà della nostra vita politica?
Evidentemente si dà per scontato che sia possibile rinnegare gli accordi
e non mantenere la parola data (almeno in assenza di eclatanti sconvolgimenti).
Il Professore sarà anche salito in politica, ma mette sotto i piedi l’idea
di democrazia, quella che riguarda tutti noi, persone serie di un paese civile.
O no?
Severo Laleo


domenica 27 gennaio 2013

La civiltà dalle sbarre di un carcere


In questo blog di parole per una “cultura del limite”, 
l’articolo di Giuliano Amato, a ragion veduta, invita a non dimenticare 
i discorsi di civiltà, e intorno ai diritti, davanti ai cancelli di un carcere.

Carceri finalmente al centro dell’attenzione
Da G.Amato Il 27 gennaio 2013 
Sarà perché alla fine Marco Pannella è riuscito ad attirare sulle carceri  l’attenzione di tutti, sarà perché gli ha dato di recente  manforte la Corte europea dei diritti, certo si è che quest’anno, per la prima volta,  il problema carcerario  l’ha fatta da protagonista nelle parole degli alti magistrati che hanno aperto in tutta Italia l’anno giudiziario.  Ed è importante che esso sia emerso in primo luogo per quello che è, una violazione grave e quotidiana dei diritti di migliaia di persone, della quale siamo tutti chiamati a rispondere.
E’ appunto quello che da anni dice Marco Pannella, ma  siccome ci ha troppo abituato, davanti ai  temi più diversi, a dipingerli tutti con linguaggio estremo e provocatorio, è finita molte volte che le sue denunce sono divenute un refrain al quale avevamo fatto l’orecchio. Attenzione, se c’è un caso nel quale quel linguaggio è appropriato, è proprio quello delle carceri.
Siamo abituati a identificare la civiltà affermatasi fra di noi nel corso degli ultimi secoli nei parlamenti eletti dal popolo,  nel principio di eguaglianza, nei nostri diritti, nel rispetto per la nostra dignità. Ma i diritti e la dignità non sono soltanto nostri, sono di tutti, anche di chi finisce in carcere, giuste o ingiuste che siano le ragioni per cui ci finisce. Per questo la civiltà in cui ci riconosciamo  porta a cancellare il carcere come lo conoscevano i nostri antenati. Quel carcere era infatti fondato su principi opposti a quelli a cui tutti ci inchiniamo oggi. Era fondato sul potere  riconosciuto ai governanti non di detenere, ma  di annientare i propri  nemici e quelli che erano ritenuti i nemici della società. Finire in carcere significava perciò non avere più diritti ed essere assoggettati alle condizioni di vita più impossibili e disagiate, un preludio della morte che si finiva anzi per desiderare al più presto. E in genere ci pensava il freddo a farla arrivare.
Ebbene non tutti forse hanno capito che quel carcere a noi non è più consentito. Noi , in base ai principi della nostra civiltà e alle norme che in conformità ad essi abbiamo adottato nella nostra costituzione e nelle convenzioni internazionali dalle quali siamo vincolati, non abbiamo il diritto di mantenere in vita carceri che somiglino a quelle di un tempo. E quindi non abbiamo né il diritto né il potere di tenerci dentro chicchessia, quali che ne siano le colpe e le responsabilità. Il carcere oggi non deve annientare le persone, deve privarle della sola libertà personale e spingerle in questo stato di costrizione verso la rieducazione,  vale a dire, in primo luogo, verso l’accettazione della società (e delle sue regole)  nella quale dovranno rientrare.
Ebbene, le carceri italiane raramente rispondono a questo modello e sempre più, invece, accatastano i detenuti in celle sovraffollate, dove nessuno ha un proprio spazio, dove manca ogni riservatezza, dove mancano la doccia, la carta igienica e il sapone, dove ciò che viene alimentato può essere soltanto o la depressione o la ribellione. Non certo la rieducazione.  Se così è,  è vero che siamo tutti dei fuori legge, e quindi il rimedio dovrà essere all’altezza di una illegalità tanto enorme.

E’ un rimedio che non potrà esaurirsi  in un’unica misura e questo lo sa anche chi chiede l’amnistia, la quale, in assenza d’altro, avrebbe solo effetti temporanei.  Prima di tutto  dobbiamo noi, noi tutti convincerci che il carcere di oggi non può essere come quello dei secoli scorsi. E  quindi non storcere il naso (come si è fatto) quando si è appresa la qualità del carcere in cui sconta la sua pena Anders Breivik, il norvegese che fece strage di giovani laburisti nel luglio di due anni fa. Così ha da essere la nostra civiltà.  Poi  devono i magistrati convincersi tutti che il carcere  va usato come extrema ratio e che in particolare la detenzione preventiva  va imposta quando serve davvero e non quando fa comodo per sbarazzarsi intanto dell’imputato. A questo fine, utilissime e importanti sono state le parole che abbiamo sentito pronunciare dai vertici stessi della magistratura per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.  Su queste fondamenta, c’è a conclusione ciò che il legislatore dovrà fare per porre fine ai processi senza fine e alla comminazione a raffica di pene detentive fuori posto. A quel punto, anche eccezionali misure svuota-carceri una tantum acquisterebbero una legittimità ed un senso (per quanto rimanga difficile, ove si trattasse di amnistia, ottenere la maggioranza dei due terzi “sui singoli articoli e sulla votazione finale”, richiesta dalla Costituzione).
Sembra un lungo percorso. Ma il tema è talmente maturo che il paese può compierlo ormai in pochissimi mesi.

O no?
Severo Laleo

martedì 22 gennaio 2013

L’epifania di Monti a Ballarò




Monti, già tecnico superbo, si dimostra, ora, politico insopportabile,
sia perché dalla serietà degli studi economici riesce a scivolare,
per naturale attitudine, nella banalità delle battute 
degli studi televisivi, sia perché continua, a suo modo, 
secondo la tradizione spaccona italiana, 
a porsi su un predellino e a fare e disfare, alla berluscona maniera,
serio epigono del berlusconismo allegro.
Forse solo il mite Bersani, fermo nel suo convinto rifiuto, 
in questa campagna elettorale,
dell’insulto, del sarcasmo, del cabaret, può cambiare l’Italia. 
Almeno quanto a compostezza e misura.
O no?
Severo Laleo

venerdì 18 gennaio 2013

Se Vendola avesse proposto per SEL


Se Vendola avesse proposto per SEL
non solo le sue utili e brillanti narrazioni, con il conseguente, grave a sinistra,
affievolimento del dibattito comune, e con il vistoso incremento di variegate spinte,
non solo soggettive, a percorrere sentieri altri;
se Vendola avesse proposto per SEL
non solo il suo nome simbolo, con il conseguente consenso, 
grave almeno per SEL, alla diffusione dell’idea dell’insostituibilità del “capo”, 
inopportuna e sbagliata;
se Vendola avesse proposto per SEL
una vera e propria segreteria politica, magari bina, ossia gemina, ossia doppia,
cioè costituita da un uomo e una donna, a tempo pieno, efficiente
e, soprattutto, appassionata di democrazia, oggi la campagna elettorale
del Partito avrebbe nel suo ideale paniere punti chiari, comprensibili,
condivisi, irrinunciabili di programma, i "famosi" punti di SEL.

Ma qual è (stato) il contributo originale, vincolante/imprescindibile di SEL 
al programma di governo della coalizione di centrosinistra? Non è dato sapere.
Anzi, peggio, è possibile sapere/verificare, perché, per capire, basta un semplice
confronto tra la Carta di Intenti del PD, "Italia Bene Comune",
e la Carta di Intenti della Coalizione, "L’Italia Giusta".

Forse la segreteria di un partito della “nuova” sinistra, questa è SEL,
avrebbe il compito obbligato, sulla scia certamente delle opzioni politiche
del suo Manifesto, di: 1. estendere, proprio colmando con la partecipazione viva 
delle persone quel “vuoto di democrazia” del ventennio berlusconiano, 
la pratica della democrazia, prima al suo interno, con nuovi metodi 
di discussione/decisione, ad ogni livello di partecipazione, delle proposte 
di politica generale, magari con nuove regole di trasparenza/selezione di dirigenti, 
e successivamente, soprattutto con la vittoria elettorale, estendere 
la pratica della democrazia all'esterno, alla società tutta;  
2. di progettare/realizzare, dopo ampio, approfondito confronto con il PD,
nell’ambito del profilo comune del programma, proprie e riconoscibili
proposte di governo, a suggello dell’alleanza, sulle quali spendere
la passione politica di ogni buon militante consapevole.

Al contrario SEL si trova, al di là di ogni altra buona ragione, a essere,
ancora una volta, un obbediente, ma non più unanimemente, comitato elettorale.
O no?
Severo Laleo

giovedì 17 gennaio 2013

La caciara del Caimano




A sinistra, almeno se ci si chiama Nanni Moretti,
anche quando si vuole esprimere un giudizio critico, forte e definitivo,
su un personaggio politico, potente, grazie a un consenso da carisma di soldi,
e pericoloso, per la sua naturale vocazione di tiranno,
si cerca sempre di guardare in alto, di ingrandire, e nobilitare, le parti.
E si immagina tragica, con “Il Caimano”, la sua uscita di scena,
a danni gravi al Paese ormai inferti.

Macché, il nostro imprenditore prestato alla politica esce di scena
così, briosamente, tra calde sedie di un moderno studio Tv,
da Santoro stancamente allestito a campo di un improbabile dibattito,
tra una gag e l’altra, per pubblico divertimento,
alla presenza di un suo fan di successo, Massimo Boldi,
ricco di audience, ma povero di popolo,
senza una rivolta violenta, senza un atto da dramma politico,
senza una scarica sociale di rivoluzione dei suoi “servi liberi”.
E’ andato via così il capo di un ventennio di riduzione dell’etica pubblica,
nella caciara mediatica in continua rappresentazione di sé.

Ma se questo Paese ha ancora
un minimo di memoria storica, da cittadinanza attiva,
un minimo di cultura liberale, alla Piero Gobetti,
un minimo di serietà, alla Tina Anselmi,
un minimo di attenzione ai movimenti reali della società, alla Milena Gabanelli,
non perderebbe il suo tempo a seguir gesti e parole di un vecchio guitto.
Minimamente.

Ma, si sa, il nostro sistema di informazione, in gran parte, è abituato a divertirsi.
E per questo continua ad alimentare la caciara del Caimano.
O no?
Severo Laleo

martedì 15 gennaio 2013

Non è più tempo di “dirsi favorevole”, è tempo di “imporre”, altrimenti…




Nichi Vendola  si e’ detto favorevole alla proposta
di uno stipendio minimo garantito,
questa volta sulla spinta della dichiarazione dell'attuale Presidente 
dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker
pur esponente del Partito Popolare Cristiano Sociale.
E ha aggiunto, a sentire l’intervista a “Radio 24”:
L’Europa sarebbe più forte se in tutto il Vecchio Continente
ci fosse una soglia minima; dal mio punto di vista sarebbe interessante
immaginare anche una soglia massima delle retribuzioni.
Perché no? Per esempio nelle pubbliche amministrazioni,
sarebbe una cosa sensata porre un limite non soltanto in basso,
ma anche in alto”.

Ora, poiché la concretizzazione di uno stipendio minimo garantito
e  la definizione di limiti, in basso e in alto, alle retribuzioni,
almeno nella pubblica amministrazione,
dipendono solo da leggi da votare in Parlamento,
non potrebbe Vendola, con la forza dei giovani voti di SEL,
chiedere, e strappare, al PD, quale condizione sine qua non
per la coalizione, un tanto impegno?

Forse non esiste ancora alcun accordo di coalizione tra SEL e PD
intorno a definiti e specifici punti di programma,
forse esiste solo, a pensar male, un organigramma di carriere,
ma sarebbe ora di porre all'attenzione degli elettori,
con democratica trasparenza,
non più rinviabile, o graziosamente concessa,
i “contenuti”, irrinunciabili per SEL, di un patto di governo,
anche a prescindere dalle alleanze e dai nomi degli alleati.

O no?
Severo Laleo

domenica 13 gennaio 2013

Morin: dalla rivoluzione alla metamorfosi, e l’etica del freno



Morin e l’etica del limite: "solo speculazione e profitti 
senza limiti. Se non le si pone freno, 
saremo nell'anticamera della catastrofe".


Di seguito l’intervista di Giacomo Leso a Edgar Morin, uscita su “L’Espresso
Non parla più della rivoluzione, Edgar Morin, il patriarca della gauche francese e la voce più autorevole del Paese che è (idealmente) alle origini di tutte le rivoluzioni. Preferisce la parola metamorfosi: più complessa e ambivalente. Arrivato all'età di 90 anni si misura con temi come l'Apocalisse e il futuro dell'umanità, e in un sottile gioco degli specchi tra la disperazione (per lo stato attuale del pianeta Terra, per la pochezza dei politici, per gli eccessi del capitalismo sfrenato) e la speranza. Speranza, nonostante la coscienza di vivere dentro una catastrofe ("Ho conosciuto i momenti oscuri della storia. So che non sono eterni"). Perché, dice in questa intervista a "l'Espresso", la storia è imprevedibile. E' fatta da persone che portano avanti con coraggio idee considerate devianti e marginali. Il professore ci riceve nel suo studio al Marais a Parigi: un tavolo lungo, una finestra che dà sui tetti, e pile di libri dappertutto; tra questi, il suo ultimo volume "La voie" (la via), in cui tira le somme della sua lunga vita e cerca di tracciare una nuova strada per il genere umano".

Cominciamo con la differenza tra rivoluzione e metamorfosi.

"La rivoluzione vuole fare tabula rasa del passato e dare un nuovo inizio, e quasi sempre finisce male. Metamorfosi invece significa pensare al bene dell'intera umanità in continuità con il passato. Ecco io sono per questa soluzione".

Oggi il mondo occidentale è in ammirazione per la Rivoluzione dei gelsomini nei paesi arabi, rivoluzione, non metamorfosi...
"Iniziata da giovani non violenti con aspirazione alla libertà e alla dignità. La rivoluzione è in atto, ma non si può sapere come finirà. La violenza, invece, è arrivata, dalla parte del potere. In Libia ha provocato un'insurrezione e l'intervento dell'Occidente".

L'ambivalenza della storia.
"Questo è il vero problema. Allarghiamo il discorso. Pensi alla mondializzazione. E' la peggiore, ma anche la miglior cosa che ci potesse capitare. Non si può vedere da un lato tutto il bene e dall'altro solo il male. Nella storia il bene spesso è stato causa del male".

Come proteggersi da questo rischio?
"Con l'ecologia dell'azione".

Vale a dire?
"Qualsiasi azione intrapresa, foss'anche con le migliori intenzioni, si scontra a un certo punto con condizioni storiche e sociologiche date. E' là che può sfuggire al controllo e invertire il senso. Si deve essere coscienti che ogni decisione è una scommessa e che solo una strategia precisa, permette la correzione dei probabili errori dell'azione in corso".

Per la filosofia occidentale ci fu uno spartiacque nel 1755 con il terremoto di Lisbona. Fu la svolta nel pensiero illuminista, su cui siamo cresciuti tutti.
"Solo le catastrofi ci permettono di prendere coscienza dei problemi fondamentali. Terremoti, tsunami ci mostrano le minacce vitali che pesano sulla biosfera. E basti pensare al Giappone, oggi. Si è capito che la sicurezza assoluta è un mito: la realtà invece è composta da negligenze e scorie radioattive nocive per migliaia d'anni. E anche che il nucleare, per sua stessa organizzazione, è una forma di totalitarismo economico: non può esistere senza il segreto, che favorisce lo strapotere delle lobby".

E allora, dall'esperienza dei suoi 90 anni cosa è il Male?
"E' la barbarie umana. Che però ha diverse forme. Ha un volto antico: guerra, conflitto, dominazione, sfruttamento, tortura, disprezzo, umiliazione. La nostra barbarie contemporanea è invece tecno-economica: fondata su calcolo e profitto. Fra le qualità umane riconosce solo quelle che sono misurabili, catalogabili con dei numeri, ignorando il fondo della natura umana: l'amore, l'odio, la gioia, la tristezza. A volte capita l'alleanza tra le due specie di barbarie. Il primo sodalizio si è manifestato ad Auschwitz dove è stato industrializzato il massacro di popolazioni ebree e rom. Ma attenti, il potenziale del Male è in ciascuno di noi".

Sta dicendo che avanziamo incerti verso l'Apocalisse.
"Colpa di una mitologia: quella dell'economia neo-liberale che è l'altra faccia del mito del comunismo. C'è ancora gente che pensa, che l'economia liberale sia la realtà.
Non è vero, è solo ideologia. Non è nemmeno una teoria del mercato,
perché oggi non ci sono più regole e non c'è più concorrenza,
solo speculazione e profitti senza limiti.
Se non le si pone freno, saremo nell'anticamera della catastrofe".

Imparare a porre freno a speculazione e profitti senza limiti
è forse il compito della politica per le nuove generazioni.
O no?
Severo Laleo

I partiti, le liste in Italia appartengono





dall’Unità:
"Voto, 215 i simboli: solo il Pd senza nome leader".

I partiti personali, in una democrazia moderna, 
sono un’anomalia, è bene ripeterlo, 
e a sinistra sono un errore insopportabile.
Il problema non è il leader del Partito, eletto, 
e cmq temporaneo, ma il padrone del Partito.
Un Partito, con pratica democratica, non ha padroni.
Sarà il Governo Bersani –oggi il solo leader 
coerente sul punto- in grado di approvare una legge, 
finalmente, di  regolamentazione
della vita democratica all’interno dei Partiti?
Noi si spera.
Un'ultima osservazione.
Per quanto riguarda il fronte più avanzato della Sinistra
di governo in Italia, SEL, dispiace vedere ancora Vendola
nel simbolo del Partito: è ancora l’imitazione di un errore.
O no?
Severo Laleo


giovedì 10 gennaio 2013

"Più donne in politica cambiano la politica", ma solo con il bicratismo

Il Manifesto delle Donne, a cura della Fondazione Bellisario,
pur lodevole e condivisibile nei suoi obiettivi, nasce vecchio e dentro una logica,
non facile da superare, macchiata, purtroppo, di maschilismo conservatore.
E’ vero, d’accordo su questo punto con il Manifesto ,
più donne in politica cambiano la politica”, ma soltanto la parità uomini/donne,
in ogni sede decisionale e di rappresentanza, da sancire con regole chiare,
e senza eccezioni, una volta per tutte, potrà donare alla politica il suo
n a t u r a l e status di un agire comune di genere: il mondo non è degli uomini
(finora è stato così) né delle donne (si spera non sarà così in futuro),
il mondo è di uomini e donne, alla pari, senza necessità di “quote”,
in qualunque campo. E soprattutto con una nuova, di genere, organizzazione 
del potere. Ed è ora di abbandonare con convinzione il monocratismo
di marca maschilista e di approdare al bicratismo di genere: il capo, 
l’uomo solo al comando, anche se donna, il leader carismatico, il monocrate 
sono l’esito culturale di una società a dominio di maschio; una società 
di uomini e donne sceglierà altre forme di conduzione nelle istituzioni 
e nei poteri, e il bicratismo –la coppia- sostituirà il monocratsimo –l’uno-.
Non è più possibile, per la parità, chiedere con una semplice lettera,
con un appello trasversale a tutti i Partiti, comunque diversi tra loro per cultura
e per gestione del potere, di garantire una quota di donne in Parlamento 
(si chiede la presenza "quota" di almeno 400 donne);
non è più possibile, per la parità, chiedere, raccogliere e inviare i curricula
di donne eccellenti, quasi immaginando una semplice riduzione
della politica all'eccellenza, soprattutto all'eccellenza del successo,
ancora una volta il successo, professionale, economico, sociale;
non è più possibile, per la parità, ritenere le donne più utili in Parlamento,
solo perché dotate, semplicemente, secondo le parole della ministra Fornero,
di “più lungimiranza, più pazienza e meno consuetudine al potere”;
non è più possibile, per la parità, chiedere, semplicemente,
la promozione del merito, della leadership e della professionalità femminile”,
non è più possibile, per la parità, semplicemente, chiedere “l’attivazione 
d’innovativi strumenti di monitoraggio dei ruoli apicali della Pubblica 
Amministrazione, delle istituzioni, di enti pubblici nazionali e locali volti 
a garantire l’applicazione di prassi di pari opportunità per l’accesso ai vertici”;
non è più possibile, per la parità, continuare, semplicemente, a inseguire il potere.
Il problema quindi non è chiedere, all’attuale organizzazione, comunque maschile,
del potere, la migliore sistemazione, nel potere attuale, del maggior numero 
di donne, il problema è modificare, con l’approvazione di nuove regole 
di organizzazione del potere, per una democrazia di genere,
l’attuale organizzazione, comunque maschile, del potere.
O no?
Severo Laleo



Ecco il “MANIFESTO DELLE DONNE”
La Fondazione Bellisario vuole ancora una volta essere protagonista del cambiamento, marcando il proprio ruolo di lobby del merito per la promozione delle competenze e professionalità femminili. Per questo, abbiamo deciso di cogliere l’occasione storica delle elezioni 2013 per rilanciare concretamente la sfida della rappresentanza politica delle donne e, con essa, della promozione del merito, della leadership e della professionalità femminili. 
Il nostro traguardo è “Quota 400”, ovvero 400 parlamentari donne nei due rami del Parlamento e per questo abbiamo lanciato un appello trasversale a tutte le forze politiche, inviando loro quasi duecento autocandidature di donne che con slancio e generosità hanno deciso di mettersi in gioco e impegnarsi per il futuro del Paese. 
Il nostro obiettivo è ottenere da tutti i partiti l’inserimento nei propri programmi dei punti contenuti nel “Manifesto delle Donne” che la Fondazione ha predisposto con il contributo del suo network. 
Il nostro Manifesto è la dichiarazione dei temi fondamentali su cui chiediamo un impegno deciso della politica ma è anche la piattaforma del nostro contributo nei diversi schieramenti. Il presupposto è che non esista una politica per le donne ma una politica per il Paese e per il suo sviluppo equilibrato e sostenibile che non si potrà raggiungere senza il contributo determinante delle donne. 
Proponiamo un approccio integrato, basato su tre chiare priorità, che nei prossimi cinque anni agisca a tutti i livelli del gap femminile: nella partecipazione al mondo del lavoro, nella leadership, nella rappresentazione pubblica e mediatica del ruolo femminile. 
LE NOSTRE PRIORITÀ 
1. Politiche integrate del lavoro e del welfare che risolvano il dramma dell’esclusione e dell’abbandono del posto di lavoro da parte delle donne, in particolar modo a causa della maternità e al Sud.
Tra gli strumenti da attivare con assoluta urgenza:
- incentivi alle imprese per l’assunzione delle donne;
- detassazione selettiva dei redditi di lavoro femminili;
- valorizzazione del telelavoro come strumento di potenziamento della partecipazione femminile;
- strumenti di conciliazione innovativi sia pubblici sia privati, moltiplicazione delle reti di servizi alle famiglie, degli asili e sostegni alla genitorialità condivisa;
- incentivi all’imprenditorialità femminile e canali di microcredito privilegiati con particolare attenzione per i settori delle nuove tecnologie, dei servizi e del turismo
- iniziative di formazione permanente rivolta alle donne funzionale all’ingresso o alla permanenza nel mercato del lavoro;
- eliminazione delle sperequazioni retributive e di carriera. 
2. Costituzione del “Tribunale delle Donne”, sezione specializzata contro i crimini specifici perpetrati nei confronti della popolazione femminile, che porti all’accelerazione e allo snellimento dei processi. 
- Sviluppo di strutture di accoglienza per le donne vittime di violenza e al contempo di strutture di accoglienza nelle carceri dedicate alle detenute madri.
- Politiche di educazione scolastica e campagne d’informazione e prevenzione contro la violenza alle donne e iniziative di sensibilizzazione volte a incentivare la denuncia dei maltrattamenti.
- Adozione di strumenti di monitoraggio e sanzione dell’uso strumentale del corpo femminile nella comunicazione. 
3. Politiche di empowerment femminile volte a consolidare e accrescere l’affermazione di una sempre più solida presenza di donne ai vertici delle istituzioni e delle imprese pubbliche e private. 
Attivazione d’innovativi strumenti di monitoraggio dei ruoli apicali della Pubblica Amministrazione, delle istituzioni, di enti pubblici nazionali e locali volti a garantire l’applicazione di prassi di pari opportunità per l’accesso ai vertici. 


venerdì 4 gennaio 2013

Il carisma da Berlusconi a Monti: leaderini..smo all’italiana




E così anche Monti non ha saputo resistere.
Ha deciso finalmente di iscrivere il suo nome nel simbolo “civico” ,
quasi una contraddizione in sé: Monti, il cittadino più.

Non si sa se Vendola tornerà, si spera di no, a inserire il suo nome
nel simbolo della lista elettorale, ma se sarà il solo Bersani, ancora una volta,
a non essere presente nel simbolo di lista, non si potrà più negare
che a lui solo, al mite Bersani, spetti il diritto di dare,
alle manie italiane del carisma autoritario, formato Berlusconi/Bossi,
quella risposta, democratica, sconosciuta pure al Professore di liberale arroganza,
che nessun altro, proprio nessuno, riesce a dare.
E restituisce un senso all’agire collettivo di un partito, il PD,
in cammino per realizzare una politica di reale partecipazione democratica,
proprio nel paese dei leaderini, spesso roboanti ed evanescenti.
O no?
Severo Laleo

Ancora a proposito di "conservatore"


Grazie all'articolo di  Ilvo Diamanti su la Repubblica.it 
il senso della “conservazione” diventa più chiaro e ampio.
Leggiamo insieme.

Io sono un conservatore

Conservatori. È l'accusa che Mario Monti ha rivolto a Stefano Fassina, Nichi Vendola. E a Susanna Camusso. I quali, da tempo, avevano imputato al Professore, questo stesso peccato capitale. Monti: colpevole di essere un "conservatore". Perché i conservatori, in Italia, sono impopolari. E stigmatizzati. Da sinistra, ma anche da destra. Nessuno che ammetta di esserlo.

Ebbene, vorrei fare coming out. Io sono un conservatore. Non riesco ad ad accettare i sentieri imboccati dal cambiamento. Molti, almeno. Il paesaggio urbano che mi circonda. E mi assedia. La plaga immobiliare che avanza senza regole e senza soste. L'indebolirsi delle relazioni personali e dei legami comunitari. Il declino dei riferimenti di valore  -  perfino di quelli tradizionali. La famiglia ridotta a un centro servizi, a un bunker sotto assedio. La retorica dell'individualismo esibizionista e possessivo. Che ci vuole tutti imprenditori  -  di se stessi. La Rete come unico "spazio" di comunicazione. Gli smartphone che rimpiazzano il dialogo fra persone. I tweet al posto delle parole. La relazione senza empatia. Le persone sparse che parlano  -  e ridono, imprecano, mormorano - da sole.

In tanti intorno a un tavolo, oppure seduti, uno vicino all'altro. Eppure lontani. Ciascuno per conto proprio, a parlare con altri. In altri luoghi - distanti. Tempi strani, nei quali tanti si sentono "spaesati", perché il "paese" appare un residuo del passato. E la "comunità": un fantasma della tradizione. Il lavoro senza regole e senza continuità. La flessibilità senza fine e senza un fine. Cioè: la precarietà. La politica senza società, il partito personale, riassunto in un volto e in un'immagine. Dove i consulenti di marketing hanno sostituito i militanti. E al posto delle sezioni si usano i sondaggi (d'altronde, quando si dà la possibilità ai cittadini di esprimersi si recano a milioni, alle urne, di domenica e persino a capodanno).

Insomma: i personaggi, gli interpreti e i luoghi della modernità liquida. Non mi piacciono. Li conosco ma non mi ci riconosco. Magari li subisco  -  in silenzio. Ma preferisco  -  di gran lunga - "conservare" quel che resta: del territorio, della comunità, delle relazioni personali, dell'economia "giusta", della politica come identità. Il "nuovo" come valore in sé non mi attira.

Lo ammetto: sono un conservatore. E ne vado orgoglioso.

E non credo abbia torto Ilvo Diamanti.
O no?
Severo Laleo

Liberté, Égalité, Fraternité: Depardieu



  
In Francia, si sa, tutto è GrandeGrande la Patria, Grandi i suoi Figli.
La Grande Patria Francia sa rendere, quando vuole, Grandi i suoi Figli.
Depardieu, figlio tra i tanti della Grande Francia, grazie al suo talento,
e grazie anche alla sua Grande Patria, a tutte le persone Francesi,
d’ogni condizione sociale ed economica, è diventato un Grande suo Figlio.
La sua fama ha varcato, con rapida corsa, nel tempo, i confini della suo Paese,
ma la sua ricchezza, originata dal suo genio, nasce con i colori della sua Francia,
nella Francia, per la Francia, dalla Francia.
Ora la Grande Francia, al di là del suo Presidente, da Grande Patria,
in difficoltà di bilancio, chiede ai suoi Grandi Figli, soprattutto se più fortunati,
di contribuire, più degli altri, al progresso economico della Nazione,
e a tutti, secondo le possibilità di ciascuno, chiede sacrifici.
Tutti hanno risposto, tutti i suoi figli, e, in quantità diffusa e più profonda,
soprattutto i più “poveri”, specie a reddito chiuso e definito.
Ma Depardieu, fugge, indignato Grande Figlio, dalla sua Grande Patria.

Forse il Grande Depardieu ha paura della sua Grande Patria,
che gli possa togliere troppo per aiutare i suoi più sfortunati fratelli (Fraternité),
e non intende, per nulla al mondo, rinunciare alle sue idee (Liberté),
e va a cercare, per soldi, lui, una volta giovane filocomunista
(ma quanti innamorati ha pur contato il comunismo nel ‘900!),
un equo (Égalité) trattamento fiscale nella Russia del compagno Putin.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 2 gennaio 2013

Ora so perché sono conservatore di sinistra




Le parole, specie se negativamente connotate, sono usate, in politica,
anche da chi ha nobiltà professorale, non per spiegare concetti,
ma soprattutto per colpire, e quasi ferire. Oggi è il turno del prof. Monti
a lanciare, da “Radio Anch’io”, a Fassina e Vendola,
l’accusa di “conservatori” e per di più di “sinistra”, con l’aggravante,
per fortuna, dei “nobili motivi” e della “buona fede

Scandisce al microfono il nostro Presidente del Consiglio:
«Vendola e Fassina vogliono conservare per nobili motivi ed in buona fede
un mondo del lavoro cristallizzato, iperprotetto rispetto ad altri paesi.
Io sono per avere in Europa una tutela ancora più avanzata dei lavoratori,
ma con condizioni che favoriscano la creazione di posti di lavoro». 
E più avanti, per ribadire le sue sentenze: «Il polo di destra e di sinistra
sono distinzioni che hanno avuto un significato in passato,
ma oggi ne hanno molto meno. La distinzione è fra chi vuole cambiare il Paese
rendendolo moderno e competitivo lavorando in stretta sinergia con l'Europa
e chi, come a sinistra Vendola e Fassina e a destra alcune posizioni del Pdl,
si oppone a questo cambiamento». 
Fassina e Vendola, e in quei nomi tante altre persone in grandi difficoltà,
sono sistemati per sempre. Sono conservatoridi sinistra, e, quindi, 
contrari a ogni cambiamento. E si sa, oggi, la parola cambiamento, neutra 
per sua natura, diventa  il connotato fondamentale di modernità e competizione.

Ora so perché sono conservatore di sinistra, contrario a modernità
e competizione. Perché, forse con Fassina e Vendola, sono:
contro il lavoro precario e i licenziamenti alla Fornero,
e a favore del posto fisso e del reddito di cittadinanza;
contro la schiavizzazione nel lavoro delle giovani generazioni
e a favore della dignità della persona al grande banco del lavoro;
contro un sistema fiscale a colabrodo, complice di ricchi-sempre-al-potere,
e a favore di una nuova, questa sì moderna, progressività del fisco;
contro il nuovo modo di “vedere la donna” nel mondo del lavoro,
e a favore di una democrazia, piena, ampia e diffusa, di genere;
contro la nuova versione montiana dell’ “uomo solo al comando”,
a favore di una democrazia del conflitto, nel rispetto di regole e persone,
perché a nessun Governo sia consentito andare oltre nel colpire
la dignità della persona, incrementando disagi e disuguaglianze.

Forse se Presidente Monti provasse a governare per nobili motivi
in buona fede, potrebbe andar lontano con i conservatori di sinistra.
O no?
Severo Laleo

Bersani, il Professor Monti e i Guidatori




A conclusione di un suo illuminante (in pessimismo) articolo,  
circa il pericolo di affidarsi a novelli Guidatori per salvare la Patria,
dal titolo, appunto, “Quando arrivano i Guidatori”, scrive, oggi,
Barbara Spinelli su “La Repubblica”:

Quanto ai Re Negligenti, ai politici di vecchio tipo, una sola frase di Bersani
(19 dicembre) dice tutto, o quasi: <<Tra prendere alle elezioni il 51% o il 49%,
 io preferisco il 49%. Non voglio avere la "tentazione" 
di fare tutto da solo>>. Un suicidio in piena regola, una fervida preghiera
rivolta a noi elettori: di grazia non dateci troppi voti, perché vasta sarebbe 
la tentazione di governare con proprie forze, proprie idee”.

E’ difficile, questa volta, sul punto, essere d’accordo con Barbara
Spinelli, e proprio alla luce delle sue serie preoccupazioni
per le condizioni e la storia della  nostra democrazia.
In verità, la frase di Bersani, almeno si spera, esprime, a suo modo,
le sue stesse preoccupazioni per l’apparire ancora di nuovi Guidatori.

La “tentazione di far tutto da solo” è stata finora la cifra politica
dominante di questi vent'anni di berlusconismo; una tentazione
ancora dominante, pur con tutti i doverosi ed essenziali distinguo,
rispetto a quell'indecoroso passato, nel montiano proclama,
apoditticamente oltre la destra e la sinistra, ma sintetizzabile,
durante una discussione al bar, pressappoco, con parole
di questo tipo: “lasciate fare tutto a me, non fate domande,
ho scritto già tutto iun Agenda, sono io il Guidatore bravo,
anzi appoggiatemi tutti, e salvò l’Italia”. E Casini già conferma,
sempre con parole da bar, “se Bersani si ferma sotto il 50%,
il prossimo premier dovrà essere il Guidatore Mario Monti”.
E non si discute. 
Ora, se Bersani prende le distanze da questo tipo di “tentazione”,
non è per rinuncia, di principio, a “governare con proprie forze, proprie idee
-è abbastanza evidente-, ma è per conoscenza profonda, e mite,
e soprattutto senza professorali proclami, del gioco democratico.
Bersani è tra quanti, nella pratica della democrazia,
parola -scrive Spinelli- che più stenta a sopravvivere
nel discorso pubblico del momento, individuano due fondamentali
aspetti: 1. il senso del limite (la politica senza la comprensione dei problemi
della  vita reale delle persone è un imbroglio pregno d’avarizia);
2. il confronto con gli altri (l’essenza della democrazia è il paziente, a volte estenuante, fino al convincimento comune, dialogo con gli altri).
Forse Bersani sa, con Spinelli, che per salvare l’Italia non c’è bisogno
di Guidatori, e sa anche che per cercare di spiegarlo anche agli altri, 
pur professori, e non solo, rischia di essere frainteso e da più parti bersagliato.
O no?
Severo Laleo

martedì 1 gennaio 2013

Napolitano: il discorso ultimo...del limite




Il Presidente della Repubblica Napolitano, nel suo discorso ultimo
dell’ultimo dell’anno, ha voluto richiamare i partiti,
pur nel duro confronto della prossima competizione elettorale
e nell’asprezza delle polemiche, al “senso del limite e della misura”.
E ha esplicitato il senso del suo sincero e ricorrente monito
con una citazione di Benedetto Croce, quasi a conclusione
del suo discorso. Ecco il brano:Le elezioni parlamentari
sono per eccellenza il momento della politica. 
Un grande intellettuale e studioso italiano del Novecento,
Benedetto Croce, disse, all'indomani della caduta del fascismo:
<<Senza politica, nessun proposito, per nobile che sia, giunge
alla sua pratica attuazione>>. E ancor prima aveva scritto,
guardando all'ormai vicina rinascita della democrazia:
 <<i partiti politici in avvenire si combatteranno a viso scoperto
e lealmente...e nel bene dell'Italia troveranno di volta in volta il limite
oltre il quale non deve spingersi la loro discordia
>>
.

Perfettamente d’accordo, specie per chi parteggia, ed è il caso
di questo blog, per la cultura del limite.
Eppure se il limite, oltre il quale non è lecito andare,
non solo è il bene (astratto) dell’Italia,
ma anche il bene (concreto e reale) della singola persona,
forse la politica, da “contesa per il potere...senza qualità morale”,
finalmente tornerà al suo moderno destino di alto servizio
(di qui il “salire in politica”?) nell’interesse del bene comune
per ogni persona, nessuna esclusa, a partire dalla riduzione delle differenze
di tipo economico, sociale e culturale, tra serie A e serie B.
O no?
Severo Laleo

sabato 29 dicembre 2012

Ha una sua nobile corazza il Bersani. E non è “italiano”




Dopo aver scelto, senza chiasso (per vergogna?), in passato, Berlusconi,
il Vaticano, non pago degli errori, continua a scegliere.
E oggi sceglie Monti, a chiare lettere, un po' chiassose.  
E parla, ora, di “nobiltà della politica”,
attraverso il serio tecnico Professore,
obliando il suo attivo contributo, per anni, alla “miseria della politica”,
attraverso l’allegro miliardario Imprenditore.

Nel 1994, per paura, il sostegno della Chiesa a Berlusconi 
aveva un suo obiettivo: fermare la “gioiosa macchina da guerra” 
dei progressisti; nel 2013, fissa nell'obiettivo di bloccare l’onda, 
dalle primarie sollevata, dei democratici, ancora per paura, la Chiesa 
conserva il suo sostegno a Montiper “recuperare –è altisonante l’ambizione- 
il senso più alto e nobile della politica”.
Insieme all’UDC, da sempre nobile e in ogni parte d’Italia,
insieme a Montezemolo, di persona alto e nobile, insieme a tanti altri,
ad esempio Della Vedova, nobilmente, già caduto in errore!

Ma Bersani ha per fortuna una sua corazza: conosce la nobiltà… del limite
della politica e non spartisce con gli altri “italiani” l’idea del “capo”
(anche un ambulante senegalese conosce la nazionale fragilità: 
l’italiano è sempre “capo”), e soprattutto dà l’idea, Bersani, di sapere sempre 
da che parte stare, con una sua nobiltà.
E all’Osservatore Romano, impegnato in questa campagna di recupero
della perduta nobiltà, risponde: “Una rivalutazione della nobiltà 
della politica? Per me non è una sorpresa,  penso alle nostre 
sindachesse della Locride. La nobiltà in politica non mi sorprende, 
quando si riesce a guardarla dal basso
ed io farò così”. Forse questo Bersani un po’ sorprende. 
O no?
Severo Laleo


mercoledì 26 dicembre 2012

C. Mazzini da ilfattoquotidiano.it per una cultura del limite


Ecco un contributo molto efficace a sostegno della cultura del limite.

Il concetto di limite ha una moltitudine di declinazioni: esiste un limite in matematica, un limite nell’arte, uno in filosofia che ovviamente ci dà anche la definizione più utile. Il limite ha quindi due accezioni: una positiva,  dove il limite  è l’ambito entro cui si ha la certezza di agire, di essere. L’altra negativa, per cui il limite è ciò che ci ostacola, che ci stringe entro confini.
Ma il limite di cui voglio parlare oggi risale al 1972 e si tratta di uno studio, il “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, tratto dal famoso libro “The Limits to Growth” – I limiti dello sviluppo- commissionato dal MIT al Club di Roma. Che, in estrema sintesi, diceva:
  • Se l’attuale tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale.
  • ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.
Era il 1972 e queste conclusioni furono il frutto di analisi fatte con strumenti “preistorici”: senza i moderni supercomputer, senza satelliti, senza Internet. Eppure da allora poco o nulla è stato fatto, anzi come sul Titanic, stiamo ballando tranquilli mentre già s’intravede l’iceberg. La cosa più grave, però, è che in questo caso l’iceberg ce lo avevano segnalato per tempo.
Come dicevo nello scorso post, dobbiamo passare dal concetto di “save the planet” a quello di “save the umans”, e per fare questo dovremo necessariamente iniziare a convivere con una nuova cultura del limite.
Esiste un limite alla velocità della tua autovettura ed un limite alle ore che puoi lavorare, un limite alle parole che puoi dire e agli affetti che puoi ricevere o dare. Esiste un limite al numero di mail a cui si può rispondere in un giorno, al numero di libri che puoi leggere, al numero di cose che puoi acquistare.
Trasformare la consapevolezza dei molti limiti in una risorsa è la vera sfida, sapere che abbiamo un solo pianeta a disposizione, una sola vita e spesso una sola opportunità, ci può aiutare a concorrere al progetto “save the humans”. Ricordando sempre ciò che diceva Albert Einstein: “Solo due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana. E non sono sicuro della prima”.


Credo sia doveroso un grazie per Claudio Mazzini.
O no?
Severo Laleo

“Scendo in campo” e “saliamo in politica”: cmq sempre contro la sinistra




Per fortuna cambia il linguaggio. Non più “si scende in campo”,
con Berlusconi, ma, con Monti, si sale, anzi, “saliamo in politica”.
Per il nostro immaginario, un cambiamento radicale:
al mondo del “si scende in campo” del calcio, al mondo del grido Forza Italia,
con la variante sfortunata di Renzi (ma il nuovo non può imitare!)
del “calcio di rigore”, ora, dopo vent’anni di dominio e imitazioni da parte di tutti,
anche a sinistra, dove Sel inventò la “partita”(si è salvato solo Bersani,
testardo nel suo vocabolario, serio, e insieme bonario, alla Crozza),
si oppone il mondo del “saliamo in politica”.
E cambiano finalmente le direzioni (scendere/salire) e le sedi (campo/politica).
Il tecnico Monti sa dell’importanza del dominio del linguaggio nella propaganda
elettorale e prova a cambiare rotta, lasciando per sempre, davanti al TV, i “tifosi
del campo di calcio, e carezzando, con Twitter, gli “innovatori” della politica.

Eppure il fine sia di “scendere in campo” sia di “salire in politica
è sempre uguale, da Berlusconi a Monti: impedire alla sinistra 
di raggiungere il governo. Esiste una costante nella nostra storia.
E ogni arnese, nel senso strumentale del termine, vecchio e giovane, di destra, 
di centro, di centrosinistra, da Casini a Montezemolo, da Ichino a Riccardi, 
tanto per non far nomi, è ottimo per raggiungere l’obiettivo: 
il carisma dei soldi dell’allegro, fortunato, liberale, maschio imprenditore 
all’uopo, dunque, cede il passo 
al carisma della tecnica del serio, studioso, liberale, attento professore. 
Entrambi italiani bene attrezzati quanto a manovre elettorali,
dalla "rivoluzione liberale" all' "agenda Monti", sempre, e comunque, 
per salvare l'Italia, in continuità, dal 94 al 2013.

Forse è bene per una volta chiedere alla sinistra di resistere, con forza,
sia pure con il buon Bersani.
O no?
Severo Laleo